CONTADOR CONTRO TUTTI, ATTO IV°

Sabato scatta la 98a edizione del Tour de France: lo spagnolo è, ancora una volta, il principale favorito.

La novantottesima edizione del Tour de France scatta sabato dalla Vandea con un favorito d’obbligo: Alberto Contador. Questo moderno cannibale, più volte al centro di inchieste e veleni, ha letteralmente dominato il Giro d’Italia, vinto con oltre sei minuti di margine su Vincenzo Nibali, e punta ora a conquistare la quarta Grande Boucle della carriera, che gli consentirebbe oltretutto di realizzare quella magica doppietta Giro-Tour assente dai trionfi di Pantani nel 1998. Per quanto apparentemente la sua Saxo Bank non sembri la squadra più forte ai nastri di partenza, soprattutto se paragonata alla Leopard o alla RadioShack, la superiorità atletica e tattica dimostrata dal madrileno nell’ultima corsa rosa è tale da consegnargli ancora una volta i ranghi di favorito assoluto, lasciando agli altri, perlomeno in apparenza, l’onere di inseguire.

Già, gli altri. Su un percorso quanto mai povero di cronometro (cronosquadre di 23 km il secondo giorno e individuale di 41 il penultimo), la corsa si farà sulle montagne: Luz Ardiden, l’Aubisque, Plateau de Beille, il Galibier, da affrontare per ben due volte, Sestriere e l’Alpe d’Huez saranno i giudici inappellabili per le speranze dei vari Andy Schleck, Ivan Basso, Robert Gesink, Samuel Sánchez e Cadel Evans. Il lussemburghese, con al fianco il fidato fratello Fränk, il sempre più brillante Jakob Fuglsang e la locomotiva di Berna Fabian Cancellara , è probabilmente il rivale più accreditato di Contador, ma dovrà veramente cercare di fare una sua corsa, senza accontentarsi di agire di rimessa rispetto alle azioni del madrileno. Ivan Basso si è preparato appositamente per questo appuntamento, pur con una caduta in uno stage in Sicilia che gli ha rallentato la preparazione: tuttavia, il varesino sembra tranquillo e motivato come non mai e ha al suo fianco un team che farà buona figura sia nella cronosquadre, sia sulle montagne. Gesink, Sánchez ed Evans sono probabilmente un gradino sotto nella griglia dei pronostici rispetto agli atleti citati finora: l’olandese, brillante scalatore, è migliorato molto anche a cronometro e avrà al suo fianco quel Bauke Mollema sorprendentemente quinto all’ultimo Giro di Svizzera. Sánchez, alla ricerca disperata del primo podio al Tour, guida una Euskaltel-Euskadi la cui età media è in drammatica crescita, ma che non mancherà certo di attaccare ad ogni occasione, nella migliore tradizione basca; Cadel Evans, maglia gialla per un giorno e gomito fratturato nella scorsa edizione del Tour, ha guadagnato negli anni un certo credito con la sorte, perlomeno per quanto riguarda le corse a tappe, e chissà mai che questa non sia l’occasione buona per fare l’impresa inseguita da una vita.

Possibili outsider per la classifica generale sono l’eterno Levi Leipheimer, carattere poco apprezzato ma regolarissimo tanto in montagna quanto a cronometro, nonché vincitore dell’ultimo Tour de Suisse e col vantaggio di avere al suo fianco una squadra davvero forte (Brajkovic, Klöden, Popovich giusto per citarne tre); Damiano Cunego è l’eterno punto interrogativo, perennemente bello ma sfortunato, sempre combattuto tra le corse di un giorno e quelle a tappe, ma l’ottima condizione intravista in Svizzera lascia ben sperare anche per questa Grande Boucle; e poi Van den Broeck, Vinokourov, Wiggins, Roche, Velits, chi all’ultima chiamata di una gloriosa carriera, chi chiamato alla conferma di un risultato insperato e chi a caccia, per la prima volta, del risultato che vale una vita.

Ma il Tour non è solo montagne e classifiche: come dimenticare infatti lo spettacolo delle volate? Mark Cavendish è l’equivalente di Contador per gli sprint, un cannibale, un dominatore, un padrone assoluto. Anche in questo settore la concorrenza è ampia: dall’immortale Alessandro Petacchi a Tyler Farrar, dal campione del mondo Thor Hushovd a Tom Boonen, dall’emergente Romain Feillu al tedescone André Greipel, per il ragazzo dell’Isola di Man non sarà facile piegare questa serie agguerrita di rivali.

E infine gli uomini da un giorno, siano essi cronoman formidabili come il già citato Fabian Cancellara e il britannico David Millar, o affermati talenti delle corse in linea come Philippe Gilbert ed Alexandr Kolobnev, o giovani attaccanti come il trentino Daniel Oss e lo stellare Edvald Boasson Hagen: nessuna ambizione di classifica per loro e nessuna possibilità di sfidare Cavendish in volata, per cui questi atleti dovranno inventarsi qualcosa in quella lunga serie di tappe intermedie che non saranno appannaggio né degli scalatori, né dei velocisti.

Dunque, l’imminente Tour de France si prospetta davvero ricco di spunti di interesse: sin dalle primissime tappe, capiremo se sarà un duopolio Contador-Cavendish o se invece si combatterà fino all’ultimo giorno per tutti i traguardi.

UNA VITA A DUE RUOTE

Dieci anni in gruppo, quasi sempre a tirare per i più blasonati capitani, ma con alcune grandi soddisfazioni personali come la vittoria in una tappa al Giro d’Italia e in un’altra al Tour de France. Tante stagioni in ammiraglia, a dirigere Marco Pantani e Mario Cipollini, giusto per citarne due. E poi il suo inconfondibile accento toscano è diventato un simbolo, una garanzia di qualità per gli appassionati italiani delle due ruote, grazie alle sue telecronache con Andrea Berton, sulle frequenze di Eurosport. Senza dimenticare anche la passione dell’ippica, condivisa con un altro grande ex del ciclismo come Claudio Chiappucci, che lo porta a trottare per gli ippodromi d’Italia. Riccardo Magrini, classe 1954 di Montecatini Terme, è questo e tanto altro.

Riccardo Magrini, una vita legata al ciclismo: cosa ti spinse a salire in bicicletta?

«Ho cominciato la mia avventura casualmente, grazie al cugino di mio padre che aveva una bici da corsa e faceva il cicloamatore. Dopo essere stato promosso, chiesi ai miei un motorino in regalo, ma loro, ritenendolo troppo pericoloso, preferirono darmi una bicicletta da corsa. Così un giorno chiesi a Lauro Monti detto “Canardo”,il mio parente,  di portarmi con gli altri cicloamatori per vedere come fosse questo sport; pur senza forzare, li staccai tutti su una salitella, e proprio lui mi convinse a tentare la strada delle corse».

Com’era il Riccardo Magrini corridore? Qual è la vittoria che ricordi più volentieri?

«In gruppo mi chiamavano Jerry Lewis o Adriano Celentano, ma fondamentalmente per tutti ero il “Magro”, soprannome che mi è rimasto per sempre. Ero un corridore votato alla squadra, il classico gregario. Da dilettante andavo forte, e dopo la partecipazione ai Campionati del Mondo di Montreal nel 1974 sarei dovuto passare tra i professionisti, tuttavia rimasi ancora in quella categoria a causa di un inghippo regolamentare. Forse fu proprio questo episodio a condizionare tutta la mia carriera, ma comunque direi che è andata più che bene. La vittoria più bella? Beh, ho vinto solo tre gare e quindi le ricordo tutte volentieri: il Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, la tappa di Montefiascone al Giro d’Italia e quella di Île de Oléron al Tour de France nel 1983».

Poi sei salito in ammiraglia e hai diretto tanti grandi atleti: uno  rimasto nel cuore in particolare?

«Un nome secco: Marco Pantani».

L’esperienza di Eurosport, al fianco di Andrea Berton: come valuti questo lavoro? Dovessi ripartire da capo, rifaresti tutto il tuo percorso professionale?

«È un’esperienza bellissima che ho sempre desiderato di fare, sin da ragazzo. Grazie ad Andrea Berton sto avendo un grande consenso da parte di tanti appassionati che ci seguono assiduamente ed evidentemente apprezzano il nostro modo di raccontare il ciclismo. Se rifarei tutto? Correggendo qualche episodio sì, ma comunque non ho grossi rimpianti».

Quanto è diverso il ciclismo di oggi da quello che hai vissuto come atleta?

«Forse sono cambiati i rapporti umani, ma in fin dei conti, sia che vai in bici per divertimento, sia che lo fai per lavoro, alla base deve esserci sempre una grande passione. Il ciclismo è un bello sport proprio per questo».

Una curiosità: la tua insana passione per Carlos Barredo (corridore spagnolo della Rabobank, ndr) da dove deriva?

«(ride) È tutto nato dal mio modo di accostare, a volte, il cognome di un atleta con quello di altri personaggi. Con Carlos è stato facile, perché da Barredo a Barreto cambia solo una consonante, e quindi per me è diventato “Carlos Marino Barredo jr” giocando sull’assonanza del suo nome con un noto cantante cubano degli anni cinquanta, ovvero Don Marino Barreto jr. Il resto lo ha fatto lui col suo modo di interpretare le corse. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo, si è dimostrato veramente molto gentile: da qui è nata l’insana passione, che mi porta a “tifare” per lui durante le varie competizioni».

Qualcuno ti avrà anche detto, nel corso degli anni, di “darti all’ippica”: alla fine hai seguito il consiglio… meglio un cavallo o una bicicletta?

«Entrambe sono due grandi passioni. Il cavallo da corsa è l’atleta, esattamente come il ciclista, quindi avresti dovuto chiedermi di scegliere tra la bici e il Sulky. In quel caso ti avrei risposto così: che tutti e due hanno un sellino e le ruote, la differenza la fa proprio l’atleta, e io stimo sia il corridore, sia il cavallo. Come dico sempre in telecronaca, “Donne, Cavalli e Corridori non c’ha mai capito nulla nessuno!».

ABOLIRE IL DOPING? DITE LA VOSTRA!

Il doping nello sport: un fenomeno da legalizzare o da combattere a tutti i costi?

Prima di iniziare l’avventura con Pianeta Sport avevo discusso con Marco Regazzoni (prima penna del ciclismo della nostra testata) su come affrontare il tema doping sul ciclismo. La nostra scelta comune era stata quella di commentare quello che vedevamo pur sapendo che in gruppo ci sarebbero stati dei corridori che si aiutavano con prodotti illegali e altri che invece rispettavano le regole del gioco.

A seguito della presunta positività di Alberto Contador e soprattutto della durissima uscita del procuratore antidoping del Coni Ettore Torri, si è però resa indispensabile una riflessione sull’argomento.

Tutti i ciclisti si dopano. La lotta al doping è una battaglia persa in partenza. Il doping, se non facesse male alla salute, andrebbe legalizzato. Questi, in estrema sintesi, i punti chiave delle sue esternazioni.

Poiché in questi mesi, dal Tour de France al mondiale, i lettori di Pianeta Sport sono stati molto partecipi nel commentare le imprese dei ciclisti volevo provare a coinvolgevi in un dibattito su un tema scivoloso e complesso come il doping. Raccoglieremo le vostre impressioni e nel numero 2 di novembre tireremo le somme:

1 ) Secondo voi il doping è un problema principalmente di salute o un problema etico?

2 ) Considerato il fatto che al giorno d’oggi l’uso di droghe sociali legali o illegali è ampiamente diffuso e parzialmente accettato da una buona parte della società trovate condivisibile la rappresentazione manichea che emerge dai principali media nazionali e internazionali secondo cui chi viene trovato colpevole è il “bad guy” da contrapporre invece al bravo ragazzo che piace alle mamme? (Ben Johnson Vs Michael Jordan per fare un esempio)

3 ) Nonostante i continui casi di positività che hanno colpito dal caso Festina in poi continuate a seguire il ciclismo? Perché? Avete mai avuto dei momenti di ripensamento? Quando?

4 ) Ritenete che, in termini assoluti, l’Unione Ciclistica Internazionale stia facendo abbastanza nel combattere il fenomeno? E in termini relativi, rispetto ad altri sport?

5 ) Cosa ne pensate di corridori come Millar e Simeoni che dopo essersi dopati pesantemente in passato tornano dichiarando di aver chiuso con il doping e pur abbassando di molto le loro prestazioni riescono ancora a togliersi qualche piccola soddisfazione?

6 ) Che percentuale di ciclisti dopati c’è in gruppo secondo voi?

7 ) Quanto contano le differenze di legislazione in materia di doping?

8 ) Reagite allo stesso modo se vengono pizzicati Contador, Mosquera, Heras, Valverde rispetto a Di Luca, Basso, Rebellin, Pantani?

9 ) Che cos’è per voi il doping?

10 ) Ha ragione Bode Miller? Il doping va legalizzato?

Commentate e dite la vostra!

Nicola Sbetti

IERI & OGGI: IL TOUR DI MARCO PANTANI

Marco PantaniSiamo nel 1998 e Marco Pantani, dopo essere ritornato l’anno precedente alle corse dopo il terribile incidente della Milano-Torino del 1995, conquista il Giro d’Italia precedendo in classifica generale di 1’33” Tonkov e di 6’51” Giuseppe Guerini.

Il Pirata va all’assalto del Tour de France per una doppietta storica nonostante il percorso della Grande Boucle con 110 chilometri a cronometro favorisca più i suoi avversari passisti che uno scalatore puro come lui. E infatti la partenza è ad handicap: Nei 58 km a cronometro della settima tappa che arriva a Correze, Pantani perde 4’21” dal vincitore Jan Ullrich, il grande favorito dopo la vittoria dell’anno precedente. Ha perso 4 secondi e mezzo al chilometro e nella penultima giornata lo attendono altri 52 km contro l’orologio, altri 4′ di potenziale vantaggio per il tedesco. La sfida sembra persa ancora prima di essere incominciata.

La prima svolta si ha sui Pirenei nell’undicesima tappa da Luchon all’arrivo in salita di Plateau de Beille;  a pochi chilometri dall’inizio dell’ultima salita Ullrich fora e le cronache raccontano che un Pantani voglioso di dare battaglia attende il tedesco che mette alla frusta i suoi uomini per rientrare nel gruppo. Un chilometro e mezzo dopo il ricongiungimento, quando mancano 13 km alla vetta, il Pirata senza bandana parte e lo rivedranno solo all’arrivo. In vetta il romagnolo vince con un vantaggio di 1’26” su Meier, 1’33” su Julich, Boogerd, Piepoli e Rinero e 1’40” su Ullrich. In classifica generale la maglia gialla è ancora saldamente sulle spalle del tedesco che mantiene un vantaggio di 1’11” sullo statunitense Julich e 3’01” su Pantani.

Con questa situazione di classifica il Tour arriva sulle Alpi; la quindicesima tappa è la classica Grenoble – Les Deux Alpers con La Croix de Fer, il Télégraphe, il Galibier prima dell’ascesa finale a Les Deux Alpes. La giornata è da tregenda con una continua pioggia e nebbia sulle vette. Pantani attacca a 5.5km dalla sommità del Galibier e la sua progressione è incredibile: guadagna mezzo minuto al chilometro. Scollina con 2’40” di vantaggio su Ian Ullrich che in discesa dapprima recupera per poi ritrovarsi a 3’25” dal Pirata a 10 km dall’arrivo di Les Deux Alpes. A 8 km dall’arrivo l’italiano ha 4’25” sul tedesco, a 5 km 5’50”, all’arrivo saranno 8’57” a separare Pantani da Ullrich che viene scavalcato in classifica generale anche da Julich e dallo spagnolo Escartin. In classifica generale il Pirata a 3’53” di vantaggio su Julich, 4’14” su Escartin e 5’56” su Ullrich che il giorno successivo tenta il tutto per tutto nella tappa di Albertville ma non riesce a staccare Pantani.

Sabato 1 agosto arriva la cronometro da Montceau les Mines a Le Creusot: il vantaggio di 5’56” consentirebbe a Pantani di perdere 7″ al chilometro e mantenere la maglia gialla. Le cronometro di fine giro fanno storia a sè; le motivazioni e le energie rimaste contano più che la predisposizione. Ullrich vince la tappa in 1h03’52, lo statunitense Julich (che scende al terzo posto in classifica generale) per 1’01” e uno straordinario Pantani chiude la cronometro al terzo posto perdendo solo 2’35” dal tedesco.

Il 2 agosto 1998 è il giorno dell’apoteosi: Marco Pantani con pizzetto ossigenato in onore alla maglia gialla sfila per le strade di Parigi. E’ il primo italiano a vincere la Grande Boucle, 33 anni dopo Felice Gimondi, e a vincere nella stessa stagione Giro e Tour dopo Fausto Coppi, una accoppiata riuscita solo ai grandissimi del ciclismo.

Massimo Brignolo

TOUR DE FRANCE: SORPRESE E DELUSIONI

Alberto ContadorOggi è tempo di bilanci. La novantasettesima edizione del Tour de France è andata in archivio con la tappa dei Campi Elisi, dopo tre settimane di corsa attraverso montagne, pietre, discese, asfalti che si scioglievano al sole ed interminabili pianure. Questa Grande Boucle è stata solo a tratti spettacolare: troppo spesso ha prevalso la tattica (o la mancanza di gambe in forma), come ad esempio in quella memorabile ed assurda frazione di Ax 3 Domaines, dove i duellanti Schleck e Contador si sono letteralmente marcati ad uomo, arrivando addirittura a perdere terreno dagli altri big. In compenso, una sfida come quella che gli stessi due atleti hanno inscenato sul Tourmalet, con Schleck che cerca in tutti i modi di fare la differenza e Contador che agisce in contropiede, ripaga i tifosi di altre giornate più deludenti. Si è discusso e si discuterà a lungo sull’attacco dello spagnolo al lussemburghese nella tappa di Bagnéres-de-Luchon, approfittando di un salto di catena dell’amico-rivale: in fondo, i 39’’ che hanno permesso al madrileno di vincere il Tour derivano essenzialmente da quell’azione. Comunque, anche una situazione del genere fa parte dello sport.

Ma la corsa non ha visto soltanto due protagonisti. Tra i promossi, categoria nella quale Contador e Schleck rientrano a pieni voti, non si può non inserire Fabian Cancellara. Lo svizzero di sangue lucano domina letteralmente prologo e cronometro di Bordeaux, vinte a medie pazzesche, veste per ben sei giorni la maglia gialla e si fa valere come un gregario fondamentale per Schleck, aiutandolo in modo decisivo nella tappa del pavé di Arenberg. Altra nota lieta di questo Tour è senza ombra di dubbio Sylvain Chavanel: il ragazzo di Châtellerault, trentuno anni compiuti a fine giugno, si aggiudica con azioni da lontano le tappe di Spa e Station-des-Rousses, indossando per due giorni la maglia gialla e dando sempre l’idea di una condizione fisica esuberante. Per gli atleti di casa si tratta di un Tour da incorniciare, visti i successi, sempre con fughe da lunga distanza, di Casar, Fédrigo, Voeckler e Riblon, oltre ai due dell’atleta della Quick Step. Tutti gli appassionati si levano il cappello anche dinnanzi ad Anthony Charteau: in carriera il suo miglior successo era una tappa al Giro di Catalogna, ma in questo Tour, grazie ad una serie di attacchi e a duelli infiniti nella prima parte di corsa con Jérôme Pineau, vince la prestigiosissima maglia a pois di miglior scalatore, difendendosi egregiamente nelle tappe pirenaiche.

Tornando agli uomini di classifica, una nota di merito va a Menchov e Sánchez: regolare e costante il primo, che alla fine si aggiudica la terza posizione, dalla vocazione maggiormente offensiva il secondo, che però perde le velleità di podio nella cronometro di Pauillac. Applausi anche per Jurgen Van den Broeck, quinto nella classifica finale, che si guadagna così i gradi di miglior corridore belga per le corse a tappe, e per Joaquím Rodriguez, primo a Mende e ottavo nella generale.

Tra i velocisti, solo piazzamenti per Ciolek, Dean, lo sfortunato Farrar, il vecchio McEwen e l’arrembante Boasson Hagen che, pur in ottima condizione, non riesce a centrare nemmeno un successo parziale: le vittorie sono suddivise tra Thor Hushovd, primo nell’inferno del pavé e in lotta fino all’ultimo per la maglia verde, Mark Cavendish, in netta difficoltà all’inizio ma scatenatosi nella seconda parte di Tour con 5 vittorie di tappa, e Alessandro Petacchi, sicuramente il più sorprendente sia per i 36 anni di età che per la stagione non eccezionale prima di questa corsa. Lo spezzino si aggiudica due successi, si piazza altre cinque volte sul podio e, grazie a questa grande regolarità, riporta in Italia la maglia verde della classifica a punti che mancava da oltre quarant’anni, dai tempi di Cuore Matto Franco Bitossi.

E infine le delusioni. Il varesino Ivan Basso rientra giocoforza in questa categoria, così come altri due reduci dal Giro d’Italia, ovvero Cadel Evans e Carlos Sastre: i primi due hanno l’attenuante dei problemi fisici, ma ad ogni modo nessuno di questi tre big sembra mai essere in grado di battagliare con Schleck e Contador, perdendo parecchi secondi già nel cronoprologo e staccandosi puntualmente sulle salite più dure di questa corsa. Sastre, perlomeno, ci prova con un’azione coraggiosa in una delle ultime tappe pirenaiche, ma è troppo poco per degli atleti partiti con ben altre velleità. Evidentemente, le scorie del Giro d’Italia si sono fatte sentire più del previsto nelle gambe dei tre ragazzi.  Tra le delusioni, inseriamo anche Damiano Cunego e Vasil Kiryenka: si tratta di due corridori dalle doti eccezionali, ma probabilmente incapaci di gestirsi sotto l’aspetto tattico. Kiryenka, atleta completo con un buon spunto veloce, si fa sorprendentemente sconfiggere in una volata a due dal portoghese Paulinho nella frazione di Gap, e ci riprova anche in occasioni successive mettendo in mostra una grande condizione ma una scarsa lucidità. Discorso simile per Cunego, sempre all’attacco, addirittura per ben due volte nella fuga buona ma incapace di prevalere in quegli sprint a ranghi ridotti nei quali non dovrebbe avere rivali. Inoltre, il veronese corre praticamente in modo ininterrotto da marzo ad ottobre, il che gli permette di essere sempre regolare ma senza quei picchi di forma necessari per imporsi ai più alti livelli.

Lance Armstrong merita un discorso a parte: a 39 anni, in pochi credevano alle sue ambizioni di vittoria finale, tuttavia il texano sembrava davvero convinto delle sue capacità, ma svariate cadute, ed una condizione fisica non certo ottimale, lo hanno trascinato ben lontano dai primi della classifica. Un addio assolutamente triste per il plurivincitore di questa corsa.

Infine, una nota in conclusione per la lanterne rouge, versione d’Oltralpe della nostra maglia nera. Quest’anno è toccata al parmigiano Adriano Malori, 170° a 4h27’03’’ dal vincitore Contador.  Il giovane emiliano ha disputato un ottimo cronoprologo, chiudendo nei primi quindici, ma poi le cadute lo hanno condizionato pesantemente. In compenso, a ventidue anni è riuscito a terminare un Tour de France, e ha tutti i numeri per crescere nel corso delle prossime stagioni, diventando magari uno dei migliori specialisti mondiali delle prove a cronometro.

Marco Regazzoni