CADEL, FINALMENTE TU!

Le pagelle del Tour de France vinto dal ciclista australiano Cadel Evans.

Due settimane di stallo, con i favoriti della classifica che giocavano a nascondino: poi sulle Alpi il Tour si è infiammato, i pretendenti alla maglia gialla si sono assottigliati sempre più (con Voeckler che pure ha incredibilmente resistito ben oltre il previsto) e alla fine Cadel Evans, uno dei pochi big attivi in montagna e formidabile nella cronometro conclusiva, ha meritatamente vinto la corsa, coronando così quel lungo inseguimento ad una grande gara a tappe iniziato sin da quella storica crisi in maglia rosa a Folgaria nel 2002. Il voto, per questo australiano d’Italia (vive in Canton Ticino, a pochi passi dal Varesotto dove è cresciuto agonisticamente), non può che essere 10.

La valutazione più alta va estesa almeno ad altri tre atleti: in primis a quel Mark Cavendish vero cannibale degli sprint, schizzato a quota venti successi in carriera al Tour, a soli 26 anni; e quindi alla fortunata accoppiata Thomas VoecklerPierre Rolland, eroi di Francia in grado di far sognare milioni di transalpini, con T-Blanc che, dopo la lunga cavalcata in giallo, chiude in una più che dignitosa quarta posizione, e Rolland che, pur da fido scudiero dell’alsaziano, vedrà il suo nome per sempre inscritto sui tornanti dell’Alpe d’Huez, oltre che nell’albo d’oro della maglia bianca di miglior giovane.

I fratelli Schleck non possono essere da 10: è vero, Andy ha regalato l’impresa più bella di queste tre settimane con la coraggiosa fuga sull’Izoard, ma i due lussemburghesi avevano in assoluto la squadra più forte e avrebbero dovuto sfruttarla meglio sin dai Pirenei, per mettere in difficoltà Evans e gli altri; si sapeva che Cadel sarebbe stato più forte nella cronometro conclusiva, ed è stato un errore lasciar trascorrere le prime montagne senza attaccarlo.

8 è il meritato voto per la straordinaria coppia di norvegesi composta da Thor Hushovd ed Edvald Boasson Hagen, che si sono aggiudicati due tappe a testa, e il campione del mondo ha anche indossato la maglia gialla nelle prime frazioni. Corridori straordinari, veloci ma resistenti, rappresentano il presente e il futuro per il ciclismo nel paese dei fiordi.

7,5 per Samuel Sánchez: il podio finale di una grande corsa a tappe sfugge nuovamente al campione olimpico, tuttavia l’asturiano dell’Euskaltel, complici alcuni errori nelle primissime tappe, è stato l’unico a dare spettacolo già sui Pirenei, con la vittoria a Luz Ardiden ad impreziosire il tutto; lo stesso voto va esteso a Jelle Vanendert, anche lui protagonista nella seconda settimana e meritata maglia a pois di miglior scalatore, e a Damiano Cunego, di nuovo protagonista in un grande giro, per quanto gli sia mancata la possibilità di impreziosire il suo Tour con un successo di tappa.

7 a Gilbert, una tappa, una maglia e tanti piazzamenti, 7 anche a chi ha avuto la gioia di un successo parziale, da Farrar a Greipel, da Rui Costa a Martin, a León Sánchez: vincere una frazione della Grande Boucle, soprattutto in una corsa incerta come quella di quest’anno, è sempre una perla prestigiosa per la propria carriera.

6,5 per Alberto Contador, chiamato ad una storica doppietta ma sfortunato in partenza, lodevole per il suo tentativo di far saltare il banco nell’ultima tappa alpina; insufficienze per Levi Leipheimer, Ivan Basso e Alessandro Petacchi. Lo statunitense, vincitore del Giro di Svizzera, non si è praticamente mai visto, simbolo di una RadioShack fortissima, andata tuttavia alla deriva in breve tempo; il varesino aveva puntato tutto sulla corsa francese, senza però riuscire a fare la differenza in salita, e perdendo un’eternità tra discese e cronometro; lo spezzino disputa praticamente solo due volate cogliendo anche un secondo posto, ma la condizione non è delle migliori e contro un Cavendish così c’è poco da fare.

Tra gli altri italiani, quasi tutti chiamati a ruoli di gregariato, si sono visti solamente Adriano Malori, Marco Marcato e Daniel Oss: coraggiosi i primi due, all’attacco in fughe impossibili, molto duttile il trentino, bravo sia ad aiutare Basso in più occasioni, sia a districarsi nelle volate di gruppo, sebbene le sue attitudini siano più da passista. Zero successi di tappa, zero giorni in maglia gialla e nessuna classifica finale portata a casa è comunque un bilancio troppo magro per la pattuglia azzurra.

Infine, una nota di merito per Johhny Hoogerland: travolto da una macchina della tv francese, ha scalato Pirenei ed Alpi con 33 (trentatré!) punti di sutura nelle gambe a causa del filo spinato, attaccando a più riprese e giungendo sino a Parigi, simbolo di un ciclismo stoico che, nonostante la modernità, continua a resistere.

UNA SETTIMANA DA GREGARI

Potremmo parlare dei big che latitano, si controllano, si marcano a uomo, si annullano a vicenda. Potremmo parlare di T-Blanc Voeckler, che ripete i fasti in giallo del 2004, con la differenza che, in Tour anarchico come quello di quest’anno, la sua leadership prosegue ben oltre le più rosee previsioni. Oppure potremmo parlare ancora di Thor Hushovd, che onora al meglio la maglia di campione del mondo con un’impresa eccezionale, per un passista veloce come lui, nella tappa dell’Aubisque. E invece, in attesa che le Alpi e la cronometro finale sanciscano l’esito di questa corsa senza padroni, parliamo di tre corridori tra i tanti, tre gregari, tre uomini di fatica, che in queste giornate pirenaiche hanno sputato l’anima per i propri capitani.

In primis, Sylvester Szmyd: polacco di nascita ma italiano d’adozione, al servizio di Frigo, Pantani e Cunego nelle prime stagioni della carriera, è ora il fidato uomo di Ivan Basso per le salite, l’unico Liquigas in grado di scortare il capitano sulle ascese più impegnative. Gatto Silvestro, la tappa del Mont Ventoux al Delfinato 2009 come unica gioia personale, viene da una stagione difficile, costellata da difficoltà fisiche: ma a Luz Ardiden, primo arrivo tosto di questo Tour, si è messo in testa e ha battuto il ritmo per chilometri e chilometri, alla velocità comandata da Basso, mettendo in fila tutti i rivali del varesino. Un lavoro durissimo, forse ben oltre le attuali possibilità fisiche del polacco, che infatti nel successivo tappone pirenaico ha pagato dazio, ma che ha confermato come un gregario sappia sacrificarsi per il proprio capitano anche quando non è al top della condizione.

Poi Stuart O’Grady, non uno qualunque: espertissimo australiano, quattro medaglie olimpiche su pista, una Parigi-Roubaix e due tappe al Tour in passato, corre per la Leopard-Trek dei fratelli Schleck. Il suo capolavoro, poi mal concretizzato dai lussemburghesi, nella frazione di Plateau de Beille: tra un colle e l’altro, lui che certo scalatore non è, ha di fatto annullato la maxifuga di una ventina di atleti, ricompattando il gruppo prima della salita finale. 38 anni da compiere ad agosto, è un vero esempio di professionalità per ogni corridore, visto che, nonostante i fasti del suo glorioso passato, nelle ultime stagioni non ha avuto problemi a mettere la sua esperienza al servizio dei più giovani e pimpanti capitani.

E infine Pierre Rolland, forse il meno noto dei tre: 25enne di Orléans, grande promessa tra i grimpeur (settore dove i francesi cercano ancora l’erede di Richard Virenque), è sostanzialmente il coautore del miracolo giallo di Voeckler. Quando la strada sale, e le squadre dei migliori dormono in seconda fila, il giovane transalpino si porta in testa a scandire quel ritmo regolare ma non certo infernale che tanto fa bene al suo capitano; quando invece gli uomini Leopard e Liquigas prendono in mano la corsa, si affianca all’alsaziano e lo porta letteralmente in cima all’asperità, facendogli da apripista, recuperandogli le borracce e incitandolo continuamente. Finora è andato tutto bene: T-Blanc veste sempre la maglia di leader, e al termine dei due tapponi pirenaici, conclusi rigorosamente al fianco del fidato gregario, si è sempre sciolto in abbracci commoventi con Rolland. Forse è questa la scena più bella di un Tour che finora ha regalato tante cadute e poche emozioni: un abbraccio sincero e onesto che suggella l’impresa in divenire di Voeckler.

UNA SETTIMANA NORVEGESE

Thor HushovdChi si aspettava che dalla prima settimana di Tour de France uscisse già un dominatore della corsa è rimasto deluso. Nonostante una cronosquadre ed un terzetto di tappe perlomeno miste (certo, nulla di paragonabile alle grandi montagne che vedremo da qui a poco), i primi venti in classifica generale sono rinchiusi nello spazio di 1’42’’. L’alfa e l’omega di questo gruppetto sono piuttosto sorprendenti: da un lato, il campione del mondo Thor Hushovd, sempre meno velocista e sempre più passista duro e resistente, tanto da aver resistito ottimamente anche su un arrivo impegnativo come quello di Super-Besse Sancy; dall’altro lato, Alberto Contador. Un Contador indubbiamente sfortunato, che ha passato molto, troppo tempo a rialzarsi da cadute ed incidenti vari; ma anche un Contador nervoso, con l’aggravante di aver corso le prime, rischiosissime frazioni nella pancia del gruppo, non potendo così evitare di essere coinvolto nei numerosi capitomboli del plotone. In più, la sua Saxo Bank non ha certo brillato nella cronosquadre, e tutti questi fattori spiegano un ritardo che comunque lascia stupiti. In mezzo ai due, i vari Evans, Klöden, fratelli Schleck, Vinokourov, Basso, Cunego e Gesink con i due italiani che sembrano in crescendo di condizione dopo una cronosquadre che, soprattutto per il varesino, non è stata molto positiva. L’australiano sembra invece l’atleta più in forma tra i favoriti per la vittoria finale, come ha dimostrato sullo strappetto del Mur de Bretagne,  anche se naturalmente le verifiche più ardue devono ancora arrivare. All’appello mancano il campione olimpico Sánchez, che con una pessima gestione di corsa si ritrova a 2’36’’, lo statunitense Leipheimer, presumibilmente tagliato fuori dai giochi a causa dei suoi 4’43’’ di ritardo, e il britannico Wiggins, costretto al ritiro a causa di una delle tante cadute che hanno segnato questa prima fase di corsa.

Ma nel titolo si parla di “settimana norvegese” perché oltre a Hushovd che resiste in giallo anche l’unico altro corridore del paese dei fiordi ha vissuto il suo giorno di gloria: Edvald Boasson Hagen, talento cristallino come pochi altri, si è infatti imposto a Lisieux, confermando le sue grandissime doti. Per il resto, le tre volate di gruppo hanno visto due successi di Cavendish e uno di Farrar, con Petacchi lontanissimo dai primi e coinvolto in un poco piacevole match d’insulti con lo spagnolo Rojas. A Super-Besse il portoghese Faria da Costa ha sorpreso tutti, mentre la prima tappa (e la prima maglia) erano andate a Philippe Gilbert, che ha fatto suo il traguardo di Monts des Alouettes disegnato apposta per lui, sfiorando il successo in altre due circostante.

E gli italiani? Detto di Basso, Cunego e Petacchi, c’è poco da segnalare. Una corsa onesta degli altri corridori azzurri, chiamati perlopiù a ruoli di gregariato: spiccano solo l’azione con cui Paolino Tiralongo, cercando di favorire Vinokourov, ha dato il via alle danze nella tappa di sabato, e la lunghissima fuga del campione nazionale a cronometro Adriano Malori, 220 chilometri davanti (gli ultimi in solitaria) verso Lisieux e il premio di combattività di giornata. La locomotiva di Parma, com’è stato prontamente soprannominato, sembra sempre più intenzionata a sbuffare verso un futuro di successi.

CONTADOR CONTRO TUTTI, ATTO IV°

Sabato scatta la 98a edizione del Tour de France: lo spagnolo è, ancora una volta, il principale favorito.

La novantottesima edizione del Tour de France scatta sabato dalla Vandea con un favorito d’obbligo: Alberto Contador. Questo moderno cannibale, più volte al centro di inchieste e veleni, ha letteralmente dominato il Giro d’Italia, vinto con oltre sei minuti di margine su Vincenzo Nibali, e punta ora a conquistare la quarta Grande Boucle della carriera, che gli consentirebbe oltretutto di realizzare quella magica doppietta Giro-Tour assente dai trionfi di Pantani nel 1998. Per quanto apparentemente la sua Saxo Bank non sembri la squadra più forte ai nastri di partenza, soprattutto se paragonata alla Leopard o alla RadioShack, la superiorità atletica e tattica dimostrata dal madrileno nell’ultima corsa rosa è tale da consegnargli ancora una volta i ranghi di favorito assoluto, lasciando agli altri, perlomeno in apparenza, l’onere di inseguire.

Già, gli altri. Su un percorso quanto mai povero di cronometro (cronosquadre di 23 km il secondo giorno e individuale di 41 il penultimo), la corsa si farà sulle montagne: Luz Ardiden, l’Aubisque, Plateau de Beille, il Galibier, da affrontare per ben due volte, Sestriere e l’Alpe d’Huez saranno i giudici inappellabili per le speranze dei vari Andy Schleck, Ivan Basso, Robert Gesink, Samuel Sánchez e Cadel Evans. Il lussemburghese, con al fianco il fidato fratello Fränk, il sempre più brillante Jakob Fuglsang e la locomotiva di Berna Fabian Cancellara , è probabilmente il rivale più accreditato di Contador, ma dovrà veramente cercare di fare una sua corsa, senza accontentarsi di agire di rimessa rispetto alle azioni del madrileno. Ivan Basso si è preparato appositamente per questo appuntamento, pur con una caduta in uno stage in Sicilia che gli ha rallentato la preparazione: tuttavia, il varesino sembra tranquillo e motivato come non mai e ha al suo fianco un team che farà buona figura sia nella cronosquadre, sia sulle montagne. Gesink, Sánchez ed Evans sono probabilmente un gradino sotto nella griglia dei pronostici rispetto agli atleti citati finora: l’olandese, brillante scalatore, è migliorato molto anche a cronometro e avrà al suo fianco quel Bauke Mollema sorprendentemente quinto all’ultimo Giro di Svizzera. Sánchez, alla ricerca disperata del primo podio al Tour, guida una Euskaltel-Euskadi la cui età media è in drammatica crescita, ma che non mancherà certo di attaccare ad ogni occasione, nella migliore tradizione basca; Cadel Evans, maglia gialla per un giorno e gomito fratturato nella scorsa edizione del Tour, ha guadagnato negli anni un certo credito con la sorte, perlomeno per quanto riguarda le corse a tappe, e chissà mai che questa non sia l’occasione buona per fare l’impresa inseguita da una vita.

Possibili outsider per la classifica generale sono l’eterno Levi Leipheimer, carattere poco apprezzato ma regolarissimo tanto in montagna quanto a cronometro, nonché vincitore dell’ultimo Tour de Suisse e col vantaggio di avere al suo fianco una squadra davvero forte (Brajkovic, Klöden, Popovich giusto per citarne tre); Damiano Cunego è l’eterno punto interrogativo, perennemente bello ma sfortunato, sempre combattuto tra le corse di un giorno e quelle a tappe, ma l’ottima condizione intravista in Svizzera lascia ben sperare anche per questa Grande Boucle; e poi Van den Broeck, Vinokourov, Wiggins, Roche, Velits, chi all’ultima chiamata di una gloriosa carriera, chi chiamato alla conferma di un risultato insperato e chi a caccia, per la prima volta, del risultato che vale una vita.

Ma il Tour non è solo montagne e classifiche: come dimenticare infatti lo spettacolo delle volate? Mark Cavendish è l’equivalente di Contador per gli sprint, un cannibale, un dominatore, un padrone assoluto. Anche in questo settore la concorrenza è ampia: dall’immortale Alessandro Petacchi a Tyler Farrar, dal campione del mondo Thor Hushovd a Tom Boonen, dall’emergente Romain Feillu al tedescone André Greipel, per il ragazzo dell’Isola di Man non sarà facile piegare questa serie agguerrita di rivali.

E infine gli uomini da un giorno, siano essi cronoman formidabili come il già citato Fabian Cancellara e il britannico David Millar, o affermati talenti delle corse in linea come Philippe Gilbert ed Alexandr Kolobnev, o giovani attaccanti come il trentino Daniel Oss e lo stellare Edvald Boasson Hagen: nessuna ambizione di classifica per loro e nessuna possibilità di sfidare Cavendish in volata, per cui questi atleti dovranno inventarsi qualcosa in quella lunga serie di tappe intermedie che non saranno appannaggio né degli scalatori, né dei velocisti.

Dunque, l’imminente Tour de France si prospetta davvero ricco di spunti di interesse: sin dalle primissime tappe, capiremo se sarà un duopolio Contador-Cavendish o se invece si combatterà fino all’ultimo giorno per tutti i traguardi.

ASCESA, CADUTA E RINASCITA

La parabola di José Rujano, corridore venezuelano

Sud America, terra di scalatori. Già, perché tra Colombia, Venezuela e Messico sono nati alcuni dei più forti grimpeur dell’ultimo trentennio ciclistico: ragazzi che nascono in villaggi sperduti delle Ande, abituati sin da subito all’aria rarefatta, e che quindi si trovano perfettamente a loro agio sulle salite alpine e pirenaiche. Crescono tra la miseria e la povertà di quelle terre e vedono nell’Europa il loro El Dorado, il loro punto d’approdo, dove arrivare con una valigia di cartone (come nel caso di Julio Alberto Pérez Cuapio, eccezionale ma incostante eroe dei primi giri del nuovo millennio) per ottenere fama, gloria e soldi. L’irregolarità è spesso una caratteristica comune di questi corridori: si diceva di Pérez Cuapio, un talento cristallino buttatosi via nel giro di poche stagioni, ma anche Leonardo Sierra, Hernan Buenahora e José Rujano non sfuggono alla regola. E proprio al Giro d’Italia si è assistito al ritorno di fiamma di quest’ultimo.

José Humberto Rujano Guillén, questo il suo nome completo, nasce il 18 febbraio 1982 a Santa Cruz de Mora, centro amministrativo ed agricolo nello stato di Mérida, in Venezuela. Sin da piccolo, il ragazzo conosce la vita dura di molti suoi coetanei di quelle parti: trascorre le mattine sui banchi di scuola e i pomeriggi nelle piantagioni di caffè, assieme ai suoi familiari, arrivando a piantare sino a 5000 piantine al giorno. A otto anni, dopo tanti sacrifici, arriva la prima bicicletta, ed è subito grande amore: pronti via, José inizia ad allenarsi di sere, al termine di giornate spossanti, e a gareggiare nei weekend, ottenendo subito buoni risultati. Da giovane è il ciclismo su pista la sua prima passione, ma in poco tempo, rendendosi conto dei suoi mezzi fisici da scricciolo (162 cm per 49 kg di peso forma), segue la strada della montagna, quella dei colombiani e soprattutto del suo compaesano e idolo Leonardo Sierra, un Giro del Trentino e una tappa al Giro d’Italia nel palmarés.

Il debutto tra i professionisti arriva nel 2003 con la Colombia-Selle Italia, la squadra per metà italiana e per metà sudamericana diretta da Gianni Savio e Marco Bellini, vera fucina di scalatori cristallini per moltissime annate. Per le prime due stagioni, giovane e inesperto, viene fatto crescere con gare nel suo continente, conquistando tra l’altro una tappa alla Vuelta al Táchira, tradizionale kermesse di apertura del calendario sudamericano. Nel 2004 riesce a fare sua la classifica finale di quella corsa e anche quella della Vuelta a Santa Cruz de Mora, la zona dove è nato e cresciuto, convincendo Savio a trasferirlo sul calendario europeo per la stagione successiva.

L’anno di svolta è il 2005: dopo un altro dominio (tre tappe più classifica generale) a Táchira, Rujano si trasferisce a Laigueglia, in Liguria, per preparare al meglio il primo Giro d’Italia della sua carriera. Tuttavia, almeno per qualche tempo, non riesce a trovare la serenità necessaria per allenarsi al meglio, visto che la sua città viene travolta, l’11 febbraio, da una devastante alluvione che per giorni interi gli impedisce di entrare in contatto con i suoi familiari e con gli amici più cari, prima di scoprire che metà del suo paese, di fatto, non esiste più, spazzato via dalla furia dell’acqua. Resosi conto che quantomeno i suoi familiari stanno bene, riprende ad allenarsi più forte che mai, con un unico obiettivo in testa, il Giro d’Italia e le sue montagne: fare bene, vincere una o più tappe, poter dedicare qualche successo alla sua gente, quella povera gente che ha perso tutto. Una buona prova alla Settimana Coppi&Bartali, una fastidiosa influenza, tanto allenamento col compagno Leonardo Scarselli e poi eccolo, una formica in mezzo al gruppo, al via della corsa rosa a Reggio Calabria, il 7 maggio di quell’anno. Sin dalle prime salite, José brilla con una fuga dietro l’altra e conquista la maglia verde, ovvero la classifica a punti dei gran premi della montagna: tuttavia, le inevitabili batoste nelle prove a cronometro lo fanno scivolare abbastanza lontano da Di Luca e Basso, dominatori della prima metà di quel Giro. Anche a Zoldo Alto, impegnativo traguardo del comprensorio dolomitico, si difende egregiamente, ma il mondo del ciclismo, per scoprire veramente Rujano, deve aspettare la tredicesima tappa, il 21 maggio. A Ortisei, dopo Sella, Gardena e Passo delle Erbe, vince il compagno di squadra Ivan Parra, agile colombiano: Rujano è terzo, a soli 23’’, fa incetta di punti per la maglia verde e per la prima volta stacca i big. Nella frazione successiva, altra lunga fuga sua e di Parra, col prestigioso Passo dello Stelvio, Cima Coppi, varcato in testa, e altra vittoria del compagno, con Rujano nuovamente terzo ma che scala posizioni su posizioni in classifica generale. Tutti i giornalisti iniziano a intervistare questi due sudamericani, così simili ma così diversi: Parra ha il ciclismo nel sangue, con il fratello terzo al Tour 1988, e un fisico leggermente più possente; Rujano, esile, rasato e con l’orecchino come il suo idolo Pantani, si è fatto da solo, un passo dopo l’altro, facendo dell’agilità e dell’alzarsi sui pedali, come i veri scalatori,  i suoi tratti distintivi.

Passano le salite, e il piccolo venezuelano è sempre lì: è infatti secondo a Limone Piemonte, dove si prende il lusso di anticipare Simoni in volata, arrivando così sino al terzo posto nella graduatoria generale, che non viene scalfito nemmeno da una prevedibilmente disastrosa cronometro di Torino. Tuttavia, la vera impresa è datata 28 maggio. Quel giorno, lui e Simoni vanno all’attacco dell’inesplorato Colle delle Finestre, con gli otto chilometri finali che si arrampicano, rigorosamente in sterrato, oltre quota 2200 metri, per sfiancare la maglia rosa Paolo Savoldelli; per lunghi tratti, il trentino è leader virtuale della classifica, ma il Falco bergamasco recupera terreno prezioso nella discesa seguente. Sull’ascesa finale, verso Sestriere, Rujano va a prendersi la gloria, staccando Simoni negli ultimi chilometri: solo una crisi di fame, che lo fa affacciare sul traguardo con l’occhio vitreo e il volto segnato da una fatica immane, un’immagine da ciclismo d’altri tempi,  gli impedisce di guadagnare quella quarantina di secondi in più necessari a strappare la leadership a Savoldelli. Ma comunque la tappa è sua, e anche il terzo posto nella classifica finale, a 45’’ secondi dal vincitore e 17 da Simoni; anche l’ambita maglia verde viene meritatamente indossata dal venezuelano, con quasi il triplo dei punti del compagno Parra.

Forse l’improvvisa gloria gli dà alla testa, forse ci si mette un po’ di sfortuna, fatto sta che dalla stagione seguente Rujano è solo lontano parente di quel cavallo di razza d’alta montagna ammirato al Giro 2005. Abbandona presto Savio e la Selle Italia per inseguire un ricco contratto alla Quick Step, ma né lì, né alla Unibet e alla Caisse d’Epargne riesce ad ottenere risultati minimamente paragonabili a quelli del 2005. Per lunghe stagioni, è l’oblio la nuova dimensione di Rujano, la pancia del gruppo dalla quale non riesce più ad uscire, e sulle montagne non è più lui a staccare gli altri, ma sono gli altri a staccare, peraltro senza troppe difficoltà, lui. Infezioni e cadute, litigi e cene d’altro livello col presidente Chavez, un divorzio e una seconda moglie, cinque stagioni buttate vie, un’eternità, con solo qualche successo nei campionati nazionali, nella solita Vuelta a Táchira e al Giro di Colombia. Tutto questo finché…nell’inverno 2010 la sua strada non si incrocia nuovamente con quella di Gianni Savio.

L’ultima chance della vita, con l’Androni Giocattoli-Serramenti Diquigiovanni e lo stipendio ridotto (giustamente) al minimo: ma, finalmente, ha tanta serenità e tanta voglia di fare. Un po’ di sana follia in questa scommessa, che però, contro i pronostici di molti, si rivela vincente: Rujano è secondo nella tappa dell’Etna del Giro di quest’anno, e vince poi sul Grosslockner, primo arrivo alpino della corsa rosa, scalando i duri passi di quella tappa con la leggiadria e l’agilità di sei anni prima. Felici come bambini, per la loro vittoria, Rujano e il team manager Savio si abbracciano pubblicamente e si fanno fotografare sul belvedere della montagna, a celebrare la rinascita di un campione che, anche per il futuro, promette di fare “vita da atleta” e di essere sempre tra i più forti scalatori del mondo.