IERI & OGGI: JURY CHECHI DIVENTA IL SIGNORE DEGLI ANELLI

Alle Olimpiadi di Atlanta, Jury Chechi corona il suo inseguimento e conquista la medaglia d’Oro agli Anelli, primo italiano a conquistare un’Oro nella Ginnastica dopo Franco Menichelli (Tokyo 1964).

Jury ChechiHa un conto aperto con la dea bendata, Jury Chechi quando, la sera del 28 luglio 1996 , sale sulla pedana degli Anelli per eseguire il suo esercizio nella finale agli Anelli. Nato a Prato l’11 ottobre 1969, Jury (in memoria di Jury Gagarin) inizia a praticare la Ginnastica Artistica a 7 anni. Nel 1984 a soli 15 anni entra nel giro della nazionale juniores e lascia la famiglia per trasferirsi a Varese dove la sua vita adolescente diventa la faticosa routine dei ginnasti in erba: studio e sei ore di allenamento al giorno. Non ancora diciannovenne partecipa a Seul alle sue prime Olimpiadi dove conquista la finale agli Anelli con un sesto posto e la finale del Concorso generale dove chiude al diciassettesimo posto. L’anno successivo a Stoccarda conquista la medaglia di Bronzo ai Campionati Mondiali, sempre agli Anelli, e nel 1990, a Losanna, arriva il primo titolo europeo al quale si accompagna la medaglia di Bronzo nel Concorso Generale. Si deve accontentare del Bronzo ai Mondiali del 1991 che si disputano ad Indianapolis e nel 1992 inizia il percorso di avvicinamento a quelle che devono essere le “sue” Olimpiadi conseguendo il secondo titolo europeo consecutivo (saranno quattro). Il 7 luglio 1992, a tre settimane dalle gare di Barcellona, in una banalissima routine di allenamento Jury si procura una gravissima lesione: “rottura sottocutanea del tendine d’ achille del piede destro” dice il bollettino medico, per un ginnasta è simile ad un verdetto definitivo.

Iniziano nove mesi di sofferenza: due mesi e mezzo di gesso, due e mezzo di fisioterapia, quattro di lento recupero. Dolore, tanto dolore, e la consapevolezza di non essere più competitivi negli attrezzi che richiedono esplosività nelle caviglie. Jury soffre e lavora duro e il 17 aprile 1993 conquista il suo primo totale mondiale (ne vincerà cinque consecutivi) a Birmingham: era dal 1964 che la Ginnastica italiana non arrivava così in alto, dall’Oro di Franco Menichelli a Tokyo.

Le vittorie a Mondiali ed Europei diventano festosa routine e si arriva alle Olimpiadi del Centenario, al Georgia Dome di Atlanta: al ragazzo di Prato, diventato uomo, manca solo la consacrazione olimpica. Negli esercizi per la gara a squadre che determinano gli 8 finalisti agli attrezzi, sbaraglia la concorrenza. Si qualifica per la finale con il miglior punteggio, 9.675 e 9.837, precedendo il bulgaro Jovtchev e il tedesco Wecker.

Quando la sera del 28 luglio, Jury sale sulla pedana del Georgia Dome, sa che l’asticella è posta a 9.812 punti, il risultato del rumeno Burincă e dell’ungherese Csollány. Ma lasciamo il racconto a Vittorio Zucconi, inviato di Repubblica:

Nella prima verticale le gambe sembrano tremare un poco, i piedi giunti in alto paiono pencolare un filino verso il canapo di destra, quanto basta a separare un oro da un quinto posto, in una disciplina di torturatori e di suppliziati come la ginnastica. Ecco, adesso cede, adesso molla. E’ finito il sogno per il rosso di Prato, per questo giovane di 27 anni che i giornali assetati di frasi fatte hanno già ribattezzato il “signore degli anelli”, che persino la televisione americana, indifferente ormai a qualunque atleta che non sia di apparente sesso femminile e nata nei 50 Stati Uniti, ha ammirato con qualche stupore.

Nessun “italian boy” può reggere a questi sforzi, alla disciplina infernale di un ginnasta, alla sofferenza di perdere un’Olimpiade (Barcellona) per un tallone d’Achille saltato per tornare al fronte 4 anni dopo. Noi siamo l’armata sagapò, il popolo degli spaghettari cialtroni e intonati, i buffoni del calcio che si fanno eliminare dal Ghana, non le creature fatte di filo di ferro che vincono le medaglie ginniche. Ma i fotogrammi del videoregistratore non mentono. Jury esce dalla prima verticale, volteggia, lancia la seconda, perfetta, poi si allunga nella posizione detta “a rondine” , le braccia raccolte sul torso, le gambe puntate all’indietro parallele al suolo, che avrebbe fatto piangere di invidia Torquemada.

Vittorio Zucconi, Repubblica 3o luglio 1976

“Vola vola, Jury Chechi, vola, vola verso il podio” è l’urlo liberatorio del telecronista quando Jury chiude l’esercizio con una uscita perfetta: 9.887, Chechi è il Signore degli Anelli.

Massimo Brignolo

EUROPEI ATLETICA: ARGENTO SCHWAZER, BRONZO MEUCCI

La prima giornata dei Campionati Europei di Atletica Leggera porta due medaglie in Casa Italia: l’Argento di Alex Schwazer e il Bronzo di Daniele Meucci.

Daniele MeucciHanno preso il via a Barcellona, assegnando i primi tre titoli, i Campionati Europei di Atletica Leggera, il maggiore appuntamento stagionale per le nazioni del Vecchio Continente.

Il programma della giornata è stato aperto dalla 20 km di Marcia dove il diciannovenne – compirà 20 anni il 23 ottobre – russo Stanislav Emelyanov si è presentato con una gara da orologio svizzero al ritmo di 4 minuti al chilometro confermando di essere il futuro della Marcia proveniente dalla scuola russa che, seppure discussa, continua a sfornare campioni. Il campione olimpico dei 50 km, l’azzurro Alex Schwazer si presentava per la prima volta in un grande appuntamento nella distanza più breve per testare la fattibilità di un doppio impegno ai Mondiali del prossimo anno e alle Olimpiadi di Londra 2012. L’altoatesino ha pagato nel corso della gara la mancata abitudine ai 20 km compiendo qualche scelta tattica azzardata come quella di lasciare andare il russo e apparendo particolarmente nervoso e preoccupato dal doppio impegno. La sua classe gli ha consentito di conquistare la medaglia d’Argento coprendo però la distanza in un tempo superiore di 2 minuti alla sua prestazione ottenuta in primavera a Lugano. Solo dopo la 50 km di venerdì si potranno tirare le conclusioni: per il momento prevale l’idea dell’azzardo.

Nel Peso Femminile l’esito è in linea con l’andamento della stagione: la bielorussa Ostapchuk è stata l’unica nell’anno e oggi a superare i 20 metri mantenendo in metro di vantaggio sulle rivali. Solo l’ultimo lancio della russa Avdeeva è riuscito a rompere un monopolio della repubblica di Minsk che avrebbe occupato tutti i tre gradini del podio.

In chiusura di programma, il britannico Mo Farah ha giocato come il gatto con il topo nella finale dei 10.000 metri: più forte sulla carta si è dimostrato il più forte anche in pista in una gara corsa su ritmi lentissimi. Il marocchino naturalizzato spagnolo Lamdessem che ha tentato di resistere al suo scatto imperioso all’ottavo chilometro è crollato nel finale lasciando spazio allo sprint per la medaglia d’Argento tra il britannico Chris Thompson e Daniele Meucci, autore di una gara molto accorta dal punto di vista tattico. Solo il photofinish ha separato i due che hanno chiuso con lo stesso tempo premiando Thompson con l’Argento e Meucci con una medaglia di Bronzo che alla vigilia appariva insperata.

Domani, i Campionati entrano nel vivo e alle 21.45 si assisterà ad uno dei momenti forti della rassegna continentale con la sfida nella finale dei 100 metri tra il francese Christophe Lemâitre e il britannico Dwain Chambers.

Gara Oro Argento Bronzo
10.000 m M
M.Farah (GBR)
28’24″99
C.Thompson (GBR)
28’27″33
D.Meucci (ITA)
28’27″33
20k Marcia M
S.Emelyanov (RUS)
1h20’10”
A.Schwazer (ITA)
1h20’38”
J.Vieira (POR)
1h20’49”
Peso F
N.Ostapchuk (BLR)
20.48
N.Mikhnevich (BLR)
19.53
A.Avdeeva (RUS)
19.39

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: UNA BOMBA SULLE OLIMPIADI DEL CENTENARIO

Centennial Park, AtlantaDopo Los Angeles 1984, scelta politically correct dopo quella di Mosca 1980 e manifestazione della superpotenza statunitense per rispondere all’analogo show sovietico, le Olimpiadi estive tornano negli Stati Uniti quando sono passati solo 12 anni. In una delle più controverse scelte della sede olimpica, le pressioni di un maxi sponsor come la Coca Cola favoriscono lo scippo delle Olimpiadi del Centenario alla loro sede naturale, Atene, e la scelta di Atlanta, sede del quartier generale delle bollicine.

Gli Stati Uniti sono in piena sindrome da terrorismo interno (l’11 settembre e il nemico dei nemici sono ancora lontani): nell’aprile del 1995 un camion contenente 2300 kg di esplosivo viene utilizzato contro un edificio federale nel centro di Oklahoma City e causa la morte di 118 persone, il 17 luglio, due giorni prima della Cerimonia di Apertura, il volo TWA 800 in partenza da New York verso Parigi esplode in volo pochi minuti dopo il decollo provocando la morte dei 230 passeggeri. Non esiste la prova della matrice terroristica ma il livello di allerta sale. Tutti gli impianti destinati ad ospitare le competizioni sono attentamente presidiati e l’accesso doviziosamente controllato, il villaggio olimpico è off limits per tutti gli estranei. Ma esiste un punto debole nell’apparato di sicurezza, si tratta del Centennial Olympic Park, la piazza centrale della cittadella olimpica dove ogni sera sono in agenda appuntamenti musicali che richiamano una gran folla di sportivi e turisti.

Nella tarda serata del 26 luglio è in programma un concerto della band Jack Mack and the Heart Attack e mentre la band ancora è sul palco, la mezzanotte è già passata, uno zaino con tre ordigni esplosivi viene piazzato nei pressi del palco. Una guardia addetta alla sicurezza nota lo zaino, dà l’allarme e inizia a far evacuare la zona negli stessi momenti nei quali il 911 riceve una telefonata che preannuncia un’esplosione. Venti minuti dopo la scoperta, alle 1.20, lo zaino esplode: una donna, Alice Hawthorne, è uccisa, un giornalista turco muore per un attacco di cuore e 111 persone sono ferite. Le Olimpiadi sono sotto attacco per la prima volta dopo l’uccisione di undici componenti della squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco 1972.

Alle 5.15 un portavoce del Comitato Olimpico Internazionale dichiara che le Olimpiadi non si fermeranno, “the show must go on”. Ma da quel momento si moltiplicheranno le evacuazioni e gli allarmi: le Olimpiadi del Centenario sono irrimediabilmente segnate.

Massimo Brignolo

MOTOGP: DOMINA LORENZO, ROSSI SUL PODIO

Jorge LorenzoSenza gara, no contest. Quando non è Lorenzo ad ammazzare la gara in prima persona, ci pensano i suoi diretti avversari a fare harakiri, giusto per tenere il motomondiale meno indeciso del decennio lontano da qualsiasi rischio. Con nove Gp disputati e altri nove da correre lo spagnolo ha sei vittorie, tre secondi posti e 72 punti di vantaggio sul secondo in graduatoria: ci sono davvero pochi dubbi su chi porterà a casa il titolo iridato 2010. Il colpo di grazia più che lo spagnolo della Yamaha l’ha dato un suo connazionale, Pedrosa, spianandogli la strada verso la vittoria nel Gp Usa con un fuori pista a 21 giri dall’arrivo mentre conduceva la strada. Con il principale concorrente per il titolo k.o., il titolo stagionale è andato virtualmente nel caveau, pronto per essere festeggiato con calma nella seconda parte di stagione. Poco sarebbe cambiato se Stoner si fosse dimostrato più competitivo, senza commettere errori o marciando a un ritmo più spedito con la sua Ducati, perché il patrimonio in classifica dell’ex vice-Rossi sarebbe stato comunque tale da togliere ogni pensiero di rimonta ai suoi avversari.

Con i primi due posti sul podio già prenotati da Pedrosa e Stoner rimaneva da assegnare solo l’ultimo gradino sul podio. Con un grande interrogativo a spiccare fin da inizio gara: quanto era azzardata la scommessa di Rossi di puntare al podio a Laguna Seca fin dal primo GP dopo il suo rientro? Ebbene, se pur c’era qualche dubbio sulle condizioni di forma e sullo stress fisico causato dal tortuoso tracciato texano (“Mi fa male tutto”, il laconico commento a fine gara), ecco che una volta di più il fuoriclasse pesarese a mostrare tutta la sua grandezza. Capace fin dall’inizio di resistere alla pressione di Ben Spies e Nicky Hayden, Rossi è riuscito a superare l’asticella che si era prefissato, con un sorpasso ad Andrea Dovizioso tutto autorità e senza possibilità di replica a cinque giri dalla fine. L’impressione è sempre la stessa: d’ora in poi tutto il succo del motomondiale sarà la sfida in prospettiva 2011 tra i due del team Fiat Yamaha – Lorenzo e Rossi – in attesa del previsto passaggio del marchigiano alla Ducati. Tutto il resto non sarà forse noia, ma niente più di un discreto contorno.

P Pti Pilota Naz Team Moto Tempo
1 25 Jorge LORENZO SPA Fiat Yamaha Team Yamaha 43’54.873
2 20 Casey STONER AUS Ducati Team Ducati +3.517
3 16 Valentino ROSSI ITA Fiat Yamaha Team Yamaha +13.420
4 13 Andrea DOVIZIOSO ITA Repsol Honda Team Honda +14.188
5 11 Nicky HAYDEN USA Ducati Team Ducati +14.601
6 10 Ben SPIES USA Monster Yamaha Tech 3 Yamaha +19.037
7 9 Colin EDWARDS USA Monster Yamaha Tech 3 Yamaha +40.721
8 8 Marco MELANDRI ITA San Carlo Honda Gresini Honda +47.219
9 7 Mika KALLIO FIN Pramac Racing Team Ducati +52.813
10 6 Loris CAPIROSSI ITA Rizla Suzuki MotoGP Suzuki +52.814
11 5 Roger Lee HAYDEN USA LCR Honda MotoGP Honda +1’14.089
12 4 Alex DE ANGELIS RSM Interwetten Honda MotoGP Honda +1’14.666

Riccardo Patrian

TOUR DE FRANCE: SORPRESE E DELUSIONI

Alberto ContadorOggi è tempo di bilanci. La novantasettesima edizione del Tour de France è andata in archivio con la tappa dei Campi Elisi, dopo tre settimane di corsa attraverso montagne, pietre, discese, asfalti che si scioglievano al sole ed interminabili pianure. Questa Grande Boucle è stata solo a tratti spettacolare: troppo spesso ha prevalso la tattica (o la mancanza di gambe in forma), come ad esempio in quella memorabile ed assurda frazione di Ax 3 Domaines, dove i duellanti Schleck e Contador si sono letteralmente marcati ad uomo, arrivando addirittura a perdere terreno dagli altri big. In compenso, una sfida come quella che gli stessi due atleti hanno inscenato sul Tourmalet, con Schleck che cerca in tutti i modi di fare la differenza e Contador che agisce in contropiede, ripaga i tifosi di altre giornate più deludenti. Si è discusso e si discuterà a lungo sull’attacco dello spagnolo al lussemburghese nella tappa di Bagnéres-de-Luchon, approfittando di un salto di catena dell’amico-rivale: in fondo, i 39’’ che hanno permesso al madrileno di vincere il Tour derivano essenzialmente da quell’azione. Comunque, anche una situazione del genere fa parte dello sport.

Ma la corsa non ha visto soltanto due protagonisti. Tra i promossi, categoria nella quale Contador e Schleck rientrano a pieni voti, non si può non inserire Fabian Cancellara. Lo svizzero di sangue lucano domina letteralmente prologo e cronometro di Bordeaux, vinte a medie pazzesche, veste per ben sei giorni la maglia gialla e si fa valere come un gregario fondamentale per Schleck, aiutandolo in modo decisivo nella tappa del pavé di Arenberg. Altra nota lieta di questo Tour è senza ombra di dubbio Sylvain Chavanel: il ragazzo di Châtellerault, trentuno anni compiuti a fine giugno, si aggiudica con azioni da lontano le tappe di Spa e Station-des-Rousses, indossando per due giorni la maglia gialla e dando sempre l’idea di una condizione fisica esuberante. Per gli atleti di casa si tratta di un Tour da incorniciare, visti i successi, sempre con fughe da lunga distanza, di Casar, Fédrigo, Voeckler e Riblon, oltre ai due dell’atleta della Quick Step. Tutti gli appassionati si levano il cappello anche dinnanzi ad Anthony Charteau: in carriera il suo miglior successo era una tappa al Giro di Catalogna, ma in questo Tour, grazie ad una serie di attacchi e a duelli infiniti nella prima parte di corsa con Jérôme Pineau, vince la prestigiosissima maglia a pois di miglior scalatore, difendendosi egregiamente nelle tappe pirenaiche.

Tornando agli uomini di classifica, una nota di merito va a Menchov e Sánchez: regolare e costante il primo, che alla fine si aggiudica la terza posizione, dalla vocazione maggiormente offensiva il secondo, che però perde le velleità di podio nella cronometro di Pauillac. Applausi anche per Jurgen Van den Broeck, quinto nella classifica finale, che si guadagna così i gradi di miglior corridore belga per le corse a tappe, e per Joaquím Rodriguez, primo a Mende e ottavo nella generale.

Tra i velocisti, solo piazzamenti per Ciolek, Dean, lo sfortunato Farrar, il vecchio McEwen e l’arrembante Boasson Hagen che, pur in ottima condizione, non riesce a centrare nemmeno un successo parziale: le vittorie sono suddivise tra Thor Hushovd, primo nell’inferno del pavé e in lotta fino all’ultimo per la maglia verde, Mark Cavendish, in netta difficoltà all’inizio ma scatenatosi nella seconda parte di Tour con 5 vittorie di tappa, e Alessandro Petacchi, sicuramente il più sorprendente sia per i 36 anni di età che per la stagione non eccezionale prima di questa corsa. Lo spezzino si aggiudica due successi, si piazza altre cinque volte sul podio e, grazie a questa grande regolarità, riporta in Italia la maglia verde della classifica a punti che mancava da oltre quarant’anni, dai tempi di Cuore Matto Franco Bitossi.

E infine le delusioni. Il varesino Ivan Basso rientra giocoforza in questa categoria, così come altri due reduci dal Giro d’Italia, ovvero Cadel Evans e Carlos Sastre: i primi due hanno l’attenuante dei problemi fisici, ma ad ogni modo nessuno di questi tre big sembra mai essere in grado di battagliare con Schleck e Contador, perdendo parecchi secondi già nel cronoprologo e staccandosi puntualmente sulle salite più dure di questa corsa. Sastre, perlomeno, ci prova con un’azione coraggiosa in una delle ultime tappe pirenaiche, ma è troppo poco per degli atleti partiti con ben altre velleità. Evidentemente, le scorie del Giro d’Italia si sono fatte sentire più del previsto nelle gambe dei tre ragazzi.  Tra le delusioni, inseriamo anche Damiano Cunego e Vasil Kiryenka: si tratta di due corridori dalle doti eccezionali, ma probabilmente incapaci di gestirsi sotto l’aspetto tattico. Kiryenka, atleta completo con un buon spunto veloce, si fa sorprendentemente sconfiggere in una volata a due dal portoghese Paulinho nella frazione di Gap, e ci riprova anche in occasioni successive mettendo in mostra una grande condizione ma una scarsa lucidità. Discorso simile per Cunego, sempre all’attacco, addirittura per ben due volte nella fuga buona ma incapace di prevalere in quegli sprint a ranghi ridotti nei quali non dovrebbe avere rivali. Inoltre, il veronese corre praticamente in modo ininterrotto da marzo ad ottobre, il che gli permette di essere sempre regolare ma senza quei picchi di forma necessari per imporsi ai più alti livelli.

Lance Armstrong merita un discorso a parte: a 39 anni, in pochi credevano alle sue ambizioni di vittoria finale, tuttavia il texano sembrava davvero convinto delle sue capacità, ma svariate cadute, ed una condizione fisica non certo ottimale, lo hanno trascinato ben lontano dai primi della classifica. Un addio assolutamente triste per il plurivincitore di questa corsa.

Infine, una nota in conclusione per la lanterne rouge, versione d’Oltralpe della nostra maglia nera. Quest’anno è toccata al parmigiano Adriano Malori, 170° a 4h27’03’’ dal vincitore Contador.  Il giovane emiliano ha disputato un ottimo cronoprologo, chiudendo nei primi quindici, ma poi le cadute lo hanno condizionato pesantemente. In compenso, a ventidue anni è riuscito a terminare un Tour de France, e ha tutti i numeri per crescere nel corso delle prossime stagioni, diventando magari uno dei migliori specialisti mondiali delle prove a cronometro.

Marco Regazzoni