IL COMMODORO BAINIMARAMA, GOLPISTA OVALE

Uno scandalo di corruzione e una crisi politica stanno mettendo a rischio la partecipazione alla Coppa del Mondo di rugby di Namibia e Figi.

Si incontreranno il 10 settembre, a Rotorua, in quella che sarà la terza partita della Coppa del Mondo di rugby 2011 in Nuova Zelanda. Si tratta delle nazionali di rugby di Figi e Namibia che, dopo l’incontro di Rotorua, dovranno affrontare nel girone D anche Samoa, Galles e i campioni uscenti del Sudafrica. Figi e Namibia, però, rischiano di vedere la propria partecipazione saltare nei prossimi mesi.

La Namibia, nonostante le difficoltà e la acuìta concorrenza continentale, è riuscita a qualificarsi per la quarta volta consecutiva al Mondiale superando le insidie poste da Tunisia e Costa d’Avorio. La Namibian Rugby Union però, secondo quanto riportano Planet Rugby e Rugby Week, sarebbe accusata di forte corruzione al suo interno e di non pagare i propri giocatori. Accuse che hanno portato in dicembre alla sospensione del dirigente federale Sakkie Mouton e al commissariamento della NRU, ora controllata interamente dall’International Rugby Board e affidata alle cure dell’amministratore sudafricano Steph Nel.

Un terremoto che desta preoccupazioni a pochi mesi dalla RWC 2011. Mark Egan, capo del dipartimento di sviluppo dell’IRB, dopo aver fatto partire un’inchiesta sui debiti della federazione (ammontanti, parrebbe, a oltre mezzo milione di dollari), ha commentato: “è necessario che la NRU sia ben organizzata. Stiamo chiedendo a una piccola federazione con risorse limitate di competere contro le migliori squadre del mondo. Ci sono problemi finanziari e faremo di tutto per monitorare attentamente le risorse. L’IRB potrà dare una mano attraverso finanziamenti aggiuntivi, che però sono limitati. Speriamo quindi che il governo e il settore privato del paese aiutino la squadra nazionale in quest’anno così importante”. Meno allarmato il tono di Johan Diergaart, allenatore del XV africano: “In questo momento siamo in preparazione per la Coppa del Mondo. Alcuni giocatori sentono un po’ di incertezza, ma non penso che la cosa possa influenzarli”.

Non è la prima volta che, in concomitanza di una Coppa del Mondo, la Namibia si trova in gravi difficoltà. Nel 2003 emerse uno scandalo riguardante compensi non pagati ai giocatori e dirottati invece nelle tasche dei dirigenti, mentre quattro anni più tardi alcune irregolarità nella vendita dei biglietti portarono alla rimozione dall’incarico del presidente federale Dirk Conradie e di tutto il suo staff.

Alle Isole Figi il rugby è uno sport nazionale vissuto con una devozione quasi religiosa. Vera potenza mondiale nella variante del Sevens, la nazionale figiana resta una delle poche minnows in grado di sovvertire gli equilibri di potere del rugby internazionale: sia all’edizione inaugurale della Coppa del Mondo nel 1987, sia nell’ultima edizione finora disputata (Francia 2007) i figiani riuscirono ad accedere clamorosamente ai quarti di finale, sgambettando rispettivamente l’Argentina di Hugo Porta e il Galles. In entrambe le occasioni l’arcipelago pacifico era reduce da pochi mesi da un colpo di stato. Il 2011 invece si è aperto per il rugby figiano con quello che, secondo la Fiji Rugby Union, sarebbe un golpe ordito dalla giunta militare (al potere dal 2006) ai danni dei vertici della federazione e con l’apertura di una crisi che potrebbe mettere in pericolo la partecipazione della squadra nazionale ai Mondiali neozelandesi programmati per settembre.

A inizio gennaio la FRU è stata messa sotto inchiesta dalla Commissione per il Commercio figiana per alcune irregolarità concernenti l’organizzazione di una lotteria finalizzata a finanziare la campagna mondiale: per poter vendere più biglietti, la federazione avrebbe scontato il prezzo dei tagliandi, operazione contestata dalla Commissione, che ha chiesto una multa di 125 mila dollari figiani (l’equivalente di 82 mila dollari USA). Un’altra delle accuse mosse ai membri della FRU è quella di aver usato parte dei soldi guadagnati dalla sottoscrizione per assistere ad alcuni tornei di rugby a sette a Hong Kong e in Regno Unito. Piccata la reazione del presidente della federazione Bill Gavoka: “Sono scioccato dalle direttive emesse dalla Commissione, visto che abbiamo rispettato tutti i termini di legge. La licenza con cui è stata permessa la lotteria non ci proibiva di scontare i biglietti, e noi abbiamo solo cercato di massimizzare le vendite per il bene della nazionale”.

La crisi vera e propria è cominciata però l’11 gennaio, con la richiesta da parte del ministro dello sport figiano Filipe Bole di dimissioni da parte dei dirigenti federali, posti sotto la minaccia di veder congelati, in caso di rifiuto, i fondi destinati alla partecipazione della nazionale al Mondiale. In tutta risposta Gavoka ha rinunciato all’incarico di presidente, senza però abbandonare il suo posto nel consiglio federale: “Nessun membro del consiglio può dimettersi o essere sostituito prima del meeting annuale della federazione in aprile”. Una presa di posizione priva di sostegno, vista l’offerta di dimissioni da parte dell’esecutivo e la decisione di deporre Gavoka sostituendolo con il presidente ad interim Rafaele Kasibulu, con la promessa di nuovi finanziamenti governativi per l’entità di tre milioni di dollari figiani (un milione e mezzo in valuta statunitense).

Un golpe sportivo che non ha mancato di allertare l’International Board, preoccupata dall’eccessiva ingerenza del governo militare delle Isole Figi nella vita della federazione al punto da lanciare un ultimatum: “ogni contravvenzione rispetto allo statuto della federazione potrebbe costare alle Figi l’espulsione dall’IRB e l’esclusione dai circuiti del rugby internazionale”, ammonendo la giunta che “alla luce delle circostanze, non c’è motivo perché venga cambiato l’esecutivo della FRU” e minacciando di commissariare la gestione del rugby isolano. Secondo il dirigente IRB Mike Miller, giunto nell’arcipelago il primo di febbraio per negoziare una soluzione alla crisi, “l’IRB nutre preoccupazioni che la situazione corrente possa creare instabilità e avere un impatto negativo sulla gestione della federazione, sui programmi di sviluppo ed eccellenza finanziati dall’IRB e sulla preparazione alla Coppa del Mondo”. L’ultimatum dell’IRB avrebbe incoraggiato i membri del consiglio federale a rifiutare le dimissioni del capo dell’esecutivo della FRU Keni Dakuidreketi.

Secondo la FRU l’obbiettivo della giunta militare sarebbe quello di designare come nuovo presidente federale il commodoro Frank Bainimarama, capo delle forze armate e primo ministro, affiancandogli come vicepresidente il cognato Francis Kean, comandante della Marina con alle spalle una detenzione per omicidio e dirigente della franchigia di Suva, isola principale dell’arcipelago. Bainimarama, grande entusiasta della palla ovale, prese il potere nel 2006, secondo alcune voci ritardando la messa in atto del piano golpista per permettere lo svolgimento dell’annuale partita tra le squadre della polizia e dell’esercito. Da allora non ha mai mantenuto la promessa di indire elezioni democratiche, provocando l’espulsione delle Figi dal Commonwealth e dal Forum Pacifico. Secondo il New Zealand Herald Murray McCully, ministro per la Coppa del Mondo, per le attività sportive e ricreative e per gli affari esteri nel governo neozelandese, avrebbe dichiarato che Bainimarama e Kean, personae non gratae nella terra della Grande Nuvola Bianca, non saranno ammessi in territorio neozelandese durante la manifestazione nemmeno se dovessero presentarsi in quanto membri della FRU.

SFIDA MONDIALE

Giovedì 2 dicembre la FIFA assegna i Mondiali 2018 e 2022: ecco quali sono i paesi candidati.

Fin dalla sua nascita, nel lontano 1930, la Coppa del Mondo di calcio ha rappresentato qualche cosa di più rispetto a un semplice torneo di calcio. Storicamente, ma ancor di più negli ultimi anni, l’organizzazione di un mega-event come il Mondiale non rappresenta solamente un’occasione per incrementare il prestigio nazionale: se ben sfruttata, infatti, essa può portare a vantaggi in diversi campi come quello economico, turistico e delle relazioni internazionali. Tutto dipende, però, dal tipo di enfasi che si pone nell’evento e dalla sua interconnessione con altri aspetti della società.

Nel 1998 la Coppa del Mondo di calcio in Francia, conclusasi con il trionfo della squadra di casa, portò alla costruzione dell’idea di una Francia vincente non solo sul campo da calcio ma anche nell’arena internazionale, fautrice di un modello integrazionista da ammirare ed esportare rappresentato proprio dai 22 calciatori campioni del mondo, ribattezzati immediatamente (riprendendo l’immagine del tricolore) i “black, blanc, beur”. Come attentamente sottolineato da Patrick Mignon in Fans and Heroes, i simboli e gli appelli all’unità lanciati nelle celebrazioni del 12 luglio 1998 furono assai enfatizzati proprio perché l’unità era molto lontana dall’essere reale, fatto che emerse chiaramente con la ribellione delle banlieue del novembre del 2005. Quello che conta, però, è che i politici nel 1998 cercarono di ottenere attraverso il calcio ciò che non erano stati in grado di raggiungere attraverso le politiche più tradizionali.

Quattro anni più tardi fu il turno di Corea e Giappone. I due paesi non solo dimostrarono al mondo le loro capacità organizzative e il loro sviluppo tecnologico, ma approfittarono anche dell’evento per normalizzare ulteriormente le loro relazioni inducendo la popolazione a fare altrettante. Ovviamente per i coreani tifare per gli ex dominatori imperialisti non rappresentò un’opzione percorribile, ma le cronache riportano che più di qualche tifoso giapponese, a seguito dell’eliminazione della propria squadra, iniziò a simpatizzare per i vicini coreani, in parte istigati dal governo, in parte attratti dal successo sportivo della squadra di Hiddink.

Nel 2006, secondo le cifre della Deutsche Bundesbank, proprio grazie all’ esemplare organizzazione della kermesse, il Mondiale tedesco ha portato nel trimestre in questione a una crescita dello 0,25%.

Quest’anno, come ricordato con insistenza dal jingle della canzone ufficiale, è arrivato il tempo dell’Africa. Non che oggi a Città del Capo o a Johannesburg si siano risolti i problemi di disuguaglianza, violenza e povertà, ma il Mondiale sudafricano ha posto per un paio di mesi il paese e retoricamente l’intero continente africano al centro del mondo.

Insomma, per quanto non sarà certo l’organizzazione dei Mondiali di calcio a risollevare il destino di un paese, questa competizione resta comunque un’occasione di prestigio internazionale e sportivo davvero importante a cui le federazioni calcistiche e i governi non sembrano voler rinunciare. Oltretutto intorno all’evento si crea, fra sponsorizzazioni internazionali, nazionali e diritti televisivi, un giro economico miliardario che fa gola a molti. Scandalizza, ma non sorprende, quindi che, non appena dei giornalisti si sono messi a indagare, siano emersi immediatamente casi di corruzione relativi alle candidature dei Mondiali. A metà ottobre alcuni reporter del Sunday Times si sono finti lobbisti statunitensi e hanno smascherato il membro nigeriano della FIFA Amos Adamu che aveva chiesto ai finti emissari la bellezza di 800mila $ per costruire campi di calcio artificiali. La stessa richiesta è stata avanzata al presidente della Oceania Football Confederation, il quale ha accettato di votare per i fantomatici lobbisti in cambio dei soldi per finanziare un’accademia sportiva.

Una decina di giorni dopo è stata la volta di Michel Zen-Ruffinen. L’ex delfino – poi rivale – di Blatter, filmato segretamente, ha fatto capire che molti dei ventiquattro membri del Fifa Executive Commitee sono da sempre aperti a diverse forme di corruzione e ha reso più credibile la sua affermazione descrivendone vizi e debolezze. Per chi ha letto i libri e le inchieste di Andrew Jennings, il primo reporter a sollevare il velo dell’omertà delle istituzioni sportive, sembra che (almeno nella FIFA) nulla sia cambiato.

La situazione è resa ancora più complessa dalla doppia assegnazione (2018, 2022) in un’unica giornata. “Di doman non c’è certezza” scriveva Lorenzo de’ Medici nel Quattrocento, ma lo stesso potrebbe aver pensato il gran capo Blatter che difficilmente, per questioni anagrafiche, si ricandiderà nel 2014. È chiaro altresì che questa promozione “compri due, paghi uno” facilita lo scambio di voti e la scarsa trasparenza. Ecco allora che, sempre grazie alle dichiarazioni rubate a Zen-Ruffinen, emerge come Spagna e Portogallo si siano accordate con il Qatar per lo scambio di voti, sostenendo le rispettive candidature. Una pratica moralmente disgustosa ma assai comune nei processi poco trasparenti di lobby. La stessa candidatura olimpica di Roma 2020, per esempio, nella fase di pre-selezione per avere la meglio su Venezia, aveva messo sul tavolo tra le altre cose la possibilità di un eventuale accordo Roma – Tokio per ripetere la doppietta (1960-1964 anche nel 2020-2024).

Questioni di prestigio e, soprattutto, economiche rendono quindi la scelta del 2 dicembre davvero importante per le nazioni e le federazioni che ospiteranno il mondiale del 2018 e del 2022. Nel 2018 hanno avanzato le proprie candidature Inghilterra, Russia e, congiuntamente, Spagna-Portogallo e Belgio – Olanda. Per il 2022 si sono, invece, fatte avanti Australia, Qatar, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti.

2018

BENELUX

Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi hanno avanzato la candidatura come un’unica entità geografica, economica e culturale: tuttavia, se si esclude un congresso FIFA in Lussemburgo, gli incontri si disputeranno solamente in terra d’Olanda e in Belgio. I due paesi vorrebbero ripetere l’exploit del 2000 passando dal palcoscenico europeo a quello mondiale. Il progetto prevede quattordici stadi in dodici città (sette in Belgio, cinque nei Paesi Bassi): al momento gli stadi sembrano troppo piccoli alle esigenze, talvolta sproporzionate, della FIFA, tuttavia sia Rotterdam che Bruxelles hanno dato il via libera alla costruzione di due stadi da 80mila spettatori. Quello di Bruxelles, il Nationaal Stadion, potrebbe avere una valenza davvero importante, data la complessa situazione che sta vivendo il paese: in effetti, una delle possibili debolezze di questa candidatura è dovuta all’incertezza politica del Belgio. Nel 2018 esisterà ancora un paese chiamato Belgio? In tal senso però proprio il calcio, al contrario del ciclismo, sembra essere un fattore più unificatore che divisivo. E in ogni caso, malgrado il carisma di Gullit, la candidatura del Benelux non sembra la principale favorita.

INGHILTERRA

Calcisticamente la nazione è ancora ferma alla nostalgia per la vittoria del 1966, considerando che da quella data non è più riuscita a esprimere un gruppo vincente. I migliori risultati sono ancora quelli degli anni Novanta con il quarto posto al Mondiale italiano e la semifinale all’Europeo casalingo del 1996. A livello di organizzazione sportiva, invece, l’Inghilterra è un paese leader: negli ultimi vent’anni l’Inghilterra ha organizzato gli Europei di calcio, i Mondiali di rugby e di cricket e nel 2012 ospiterà i Giochi Olimpici. I Mondiali la confermerebbero come uno dei paesi sportivi d’avanguardia, tenendo sempre presente che nel Regno Unito l’intervento governativo in campo sportivo, benché crescente, è sempre stato ridotto rispetto a quello di molti altri paesi. Gli stadi esistenti e quelli progettati sono assolutamente all’altezza e l’idea di riportare il calcio laddove è stato inventato fanno della candidatura inglese la favorita al pari della Russia.

SPAGNA-PORTOGALLO

Anche in questa occasione, come per Olanda e Belgio, i due principali paesi della penisola iberica hanno pensato di riproporre l’accoppiata vincente dell’Europeo in un palcoscenico più ampio. Ovviamente, alla luce delle dimensioni, e del peso economico e demografico dei due stati, la Spagna farà la parte del leone rispetto al Portogallo. La crisi economica mondiale, però, sembra aver colpito in maniera più pesante i paesi mediterranei che il resto d’Europa e ciò potrebbe forse andare a penalizzare le chance della candidatura iberica. Per controbilanciare le sue carenze la Spagna metterà sul piatto della bilancia il suo indiscutibile prestigio sportivo, che però potrebbe non bastare.

RUSSIA

Senza l’Ucraina il calcio russo pare aver perso davvero molto rispetto a quello sovietico, ma la federazione, con l’investimento importante su Hiddink nel recente passato, ha dimostrato a suon di rubli di voler invertire questo trend. I soldi non bastano, è vero, ma nel caso russo sembrano essere davvero l’asso nella manica. Almeno cinque stadi nuovi di zecca e lo Stadio Olimpico, che sarà inaugurato a Soči in occasione delle Olimpiadi invernali del 2014, si andranno ad aggiungere agli stadi moscoviti, a quello di Kazan e a quello di San Pietroburgo. La federazione ha fatto sapere che il governo non baderà a spese – 10 miliardi di dollari – e che darà, con il primo ministro Putin in prima linea, pieno sostegno alla candidatura.

2022

AUSTRALIA

Nella terra dei canguri in cui il football si gioca con palloni ovali in stadi della stessa forma ci si sta preparando con alacrità per la progettazione dei Mondiali del 2022. Malgrado la scarsa tradizione calcistica, che permane ancor oggi nonostante alla generazione dei Kewell e Viduka sia seguita quella dei Cahill e Bresciano, l’Australia resta terra dello sport e degli sportivi per eccellenza. Il paese sembra avere l’imbarazzo della scelta per quel che riguarda gli stadi: tuttavia molti di essi non sono, e non saranno mai, destinati esclusivamente al calcio. Il rugby e l’australian rules football restano gli sport invernali preferiti dai tifosi australiani e il regolare svolgimento di questi campionati potrebbe entrare in concorrenza con l’organizzazione dei Mondiali. In ogni caso la federazione australiana, come dimostra anche il passaggio dalla confederazione oceanica a quella asiatica, vuole a tutti i costi alzare il livello del calcio australiano e l’organizzazione di un Mondiale resta sempre il miglior viatico.

GIAPPONE

Nel paese del Sol Levante il successo organizzativo del 2002, in coppia con la Corea del Sud, ha reso appetibile la possibilità di un bis. Il paese, oltretutto, non sembra accontentarsi solo del calcio visto che in ballo ci sono anche le candidature alle Olimpiadi del 2016 e dei Mondiali di rugby del 2019. Gli stadi usati per il Mondiale del 2002 e quelli previsti eventualmente per il 2022 fanno del Giappone un rivale temibile. Tuttavia, come per i vicini coreani, la federazione giapponese potrebbe essere penalizzata dalla vicinanza temporale: sono infatti passati solo otto anni tra l’esperienza del 2002 e la scelta del prossimo 2 dicembre. Oggettivamente, però, l’arco temporale di venti anni fra il 2002 e il 2022 pare comunque essere sufficiente lungo per non screditare la candidatura nipponica.

QATAR

Gli sceicchi, che nella storia dei Mondiali non sempre hanno fatto bella figura, sono ormai una realtà nello sport e nel calcio internazionale: dopo aver contribuito alle campagne acquisti fantasmagoriche di alcune squadre e ad alimentare le false speranze di altre, in Qatar si sono messi in proprio. Automobilismo, tennis e i Giochi Asiatici hanno dimostrato che, quando i soldi non mancano, si può fare sport anche nel bel mezzo del deserto. La tradizione è pressoché inesistente, ma le tecnologie sono all’ultimo grido e in grado di sconfiggere quello che sembra essere il vero tallone d’Achille della candidatura del paese: il clima. Benché le temperature scendano raramente sotto i 30°, il comitato organizzatore ha promesso che negli stadi la temperatura non sarà superiore ai 20°. La minaccia del terrorismo internazionale potrebbe forse incidere nella scelta di qualche delegato FIFA, tuttavia il Qatar in questo senso non pare essere particolarmente vulnerabile. Come riportato da Al Jazeera, Blatter ha sdoganato la candidatura del Qatar affermando che “il mondo arabo merita la Coppa del Mondo”. Qatar fra i favoriti, quindi? Sicuramente, anche se rimane comunque incomprensibile l’utilità di costruire undici stadi da 50mila posti in un paese abitato da poco più di 1600 persone. Mai come in questo caso, a competizione finita, l’espressione “cattedrale nel deserto” rischia di essere più appropriata.

COREA DEL SUD

Come per il Giappone, la vicinanza con il Mondiale del 2002 potrebbe forse limitare le chance di successo, o almeno dovrebbe. I coreani, però, hanno imparato davvero bene a fare lobby e, dopo aver messo uomini chiave nel Comitato Olimpico Internazionale, stanno tentando la scalata anche nella FIFA. Il sostegno governativo non manca, gli stadi sono all’avanguardia: gli unici problemi potrebbero venire dai cugini del Nord. Malgrado il vicino militarmente ingombrante, però, l’esperienza del 2002 (al contrario di quella del 1988, dove la Corea del Nord aveva boicottato l’evento) ha dimostrato che in linea di principio la Corea del Sud non dovrebbe rischiare di essere penalizzata da questioni di sicurezza internazionale. Tuttavia la transizione che si sta vivendo a Pyongyang e l’ampio arco temporale fanno sì che le ipotesi di riunificazione, democratizzazione del Nord, guerra o di nulla di fatto siano tutte plausibili, indebolendo un po’ la forza della candidatura coreana.

STATI UNITI

Nella prima metà degli anni Novanta il soccer statunitense veniva trattato con ironia e disprezzo. Oggi, a più di quindici anni dal mondiale casalingo, la nazionale a stelle e strisce è riuscita ad affermarsi come una realtà del calcio internazionale da non sottovalutare grazie anche ad un campionato che, oltre ad attirare stelle prossime alla pensione, produce anche interessanti prospetti. Non sembra creare problemi neppure livello organizzativo: il Mondiale del 1994 aveva portato ufficialmente il calcio nella nuova dimensione iper-globalizzata che tanto piace alla FIFA. Benché non costruiti per il calcio ma per il football americano, gli stadi sono immensi e non entrerebbero nemmeno in conflitto con la stagione dell’NFL che inizia ad agosto inoltrato. La Concacaf, inoltre, sarà la federazione calcistica – OFC esclusa – a cui mancherà da più tempo l’organizzazione della Coppa del Mondo. Il presidente Obama, che sostiene la candidatura, dopo essere stato malamente snobbato in seno al CIO, potrebbe paradossalmente ottenere una rivincita simbolica proprio grazie al meno americano degli sport.

Nicola Sbetti

NEL PANTANO DEI GIOCHI DEL COMMONWEALTH

Nella bufera l’edizione che si svolgerà in India, tra ritardi, lacune e corruzione.

Basterà la cerimonia d’apertura a mettere la parola fine alle polemiche che stanno tempestando l’India e gli organizzatori dei Giochi del Commonwealth? Difficile a dirsi; anche perché agli espropri delle case per costruire le nuove avveniristiche strutture sportive – fenomeno che ormai caratterizza tutti i mega-event di paesi non occidentali (vedi Pechino 2008, Sud Africa 2010) e possibile anche in una democrazia come l’India grazie a una legge risalente ancora all’Impero britannico – si sono aggiunti ritardi, carenze strutturali e scandali di corruzione.  Anche il piano emergenziale, posto in essere per finire entro i termini, è stato rallentato dalle forti piogge e dalle epidemie di febbre. Il momento più basso è stato poi raggiunto il 21 settembre, quando un ponte, che avrebbe dovuto collegare il villaggio degli atleti allo stadio, è collassato al suolo, ferendo 23 operai, perché costruito in troppa fretta e con materiali scadenti.

L’intera manifestazione a quel punto è stata sul punto di essere cancellata anche perché, per via delle carenze organizzative, gli allarmi di possibili attacchi terroristici si sono intensificati e numerosi atleti hanno dichiarato che i Giochi non sarebbero essere stati assegnati all’India.

Ma anche nei giorni successivi i problemi relativi al villaggio degli atleti sono apparsi alle volte insormontabili. Bagni inagibili, primi piani allagati, scimmie, serpenti e cani randagi hanno costretto le squadre a ritardare il loro arrivo o ad alloggiare momentaneamente negli alberghi di Dehli.

Dovevano essere la presentazione dell’India al mondo, o quantomeno una prova generale in vista della candidatura alle olimpiadi del 2020, ma si stanno tramutando in un pericoloso boomerang. Molti indiani hanno espresso il loro disappunto per la brutta esposizione internazionale del proprio paese, ma a ben guardare altrettanti non sembrano curarsene. In effetti solo due sport britannici sono veramente entrati nel cuore degli indiani: l’hockey su prato e, soprattutto, il cricket, che attira quasi totalmente l’attenzione dei media.

Del resto l’India, Giochi del Commonwealth o meno, deve confrontarsi quotidianamente con le sue contraddizioni derivate dall’essere una potenza regionale dalle concrete aspirazioni globali ma allo stesso tempo di paese povero. Chi invece potrebbe davvero subire una ferita profonda dal fallimento dei Giochi è il Commonwealth stesso. Senza Husain Bolt e la Regina Elisabetta la manifestazione appariva già dimezzata; le seguenti rinunce individuali e le acide polemiche dei quotidiani anglofoni di mezzo mondo potrebbero contribuire a sfiduciare quasi definitivamente un’organizzazione che ha già perso negli anni gran parte del suo peso politico e sta lentamente perdendo anche la sua influenza simbolica e culturale.

Nicola Sbetti