A VOLTE RITORNANO

Prima uscita ufficiale per i nuovi New York Cosmos, in campo domani per la partita di addio al calcio di Paul Scholes.

Per un calciatore in particolare è l’ultima battaglia da affrontare, è il crepuscolo di una carriera luminosa che, novanta minuti dopo, tramonterà definitivamente. Per la squadra schierata nell’altra metà del campo quell’ora e mezzo di fallacci e azioni corali annuncerà il sorgere del sole dopo essere stata circondata per oltre un quarto di secolo dalle tenebre. Ecco come una banalissima amichevole estiva diventa una partita della vita, della vita sportiva di un atleta che giunge a compimento e della seconda vita sportiva di una società. C’è più di un buona ragione per creare interesse attorno a Manchester United-New York Cosmos: domani sera il centrocampista inglese Paul Scholes scorrazzerà per l’ultima volta sul prato dell’Old Trafford, congedandosi dal pubblico, il suo pubblico. Il braccio teso, la mano che ondeggia: addio, certo. Ma non solo. “Ciao Cosmos, bentornati Cosmos: io mi fermo qui, voi ricominciate”. I Cosmos, l’undici che negli anni Settanta fece – temporaneamente – decollare il calcio in quegli Stati Uniti mai troppo accoglienti verso il pallone, l’undici per cui tifava Henry Kissinger, l’undici che aveva Franz Beckenbauer e Carlos Alberto in difesa e addirittura Pelé e Giorgio Chinaglia in attacco, l’undici che dopo ogni incontro di campionato al Giants Stadium aveva il tavolo riservato al frequentatissimo Studio 54. Sono passati ventisei anni dall’ultima volta in cui i Cosmos misero piede in campo: era il 16 giugno 1985, chiusero malamente con una sconfitta per 2-1 contro la Lazio di Giordano e Manfredonia.

Il desiderio di alcuni utenti di Facebook, manifestato in tempi non sospetti, è stato al fin esaudito: “Bring Back The New York Cosmos”. Roba di un paio di anni fa: una cordata che fa a capo all’immobiliarista Paul Kemsley, già vicepresidente del Tottenham, rileva i diritti d’immagine della squadra che cessò la propria attività nella primavera del 1985. Inattiva, ma non defunta per sempre. Il direttore generale “Peppe” Pinton, braccio destro di Chinaglia, aveva tentato, in maniera lodevole ma del tutto inutile, di amministrare la società assieme all’ex bandiera della Lazio: il declino del calcio americano era però inesorabile e Ross, nel frattempo, era stato costretto a vendere la Atari e la Global Soccer Inc. Naufragato il tentativo, Pinton  tiene in piedi la baracca continuando ad organizzare i campus giovanili al Ramapo College, nel New Jersey: rimane lui il depositario del marchio dei Cosmos. Quasi fosse il profeta del loro verbo, il loro angelo custode, non cede alle lusinghe di chi vuole far risorgere l’undici newyorkese nella MLS, il campionato americano di calcio professionistico. Almeno fino a quando non bussano alla porta Kemsley ed i suoi soci: Pinton si lascia persuadere, sulla scia del contemporaneo ripristino di franchigie che rivaleggiavano con i Cosmos, e cede i diritti alla nuova proprietà. 1° agosto 2010, il giorno del grande annuncio: i Cosmos sono tornati. Ma la cordata britannica si spinge oltre: dateci tre anni di tempo e quella che un tempo fu la squadra più glamour di tutte si iscriverà alla MLS.

Quaranta anni prima nasceva la franchigia che, assai prima del Real Madrid di Florentino Pérez, ebbe l’idea di plasmare una squadra di calcio con le stelle (cadenti) del firmamento mondiale: ebbero l’iniziativa Ahmet e Nesuhi Ertegün, i fratelli turchi dell’etichetta discografica Atlantic Records, ed il magnate Steve Ross, numero uno della Warner Bros. Oggi nella stanza dei bottoni i nomi pronunciati sono quelli di Kemsley stesso, di Rick Parry, ex amministratore delegato del Liverpool, e di Terry Byrne, un passato da agente di David Beckham. E si parla persino dell’ingresso di Robert De Niro tra i soci. Ma c’è un filo conduttore che, in un  solo istante, polverizza i quattro decenni di differenza, come se l’orologio avesse smesso di scandire il passare delle ore: il presidente onorario della rediviva franchigia è nientemeno che Pelé, il ruolo di ambasciatore internazionale viene affidato all’ex portiere Shep Messing, all’ex difensore Carlos Alberto e a Giorgio Chinaglia, il cannoniere più prolifico nella storia della NASL con 242 reti in 254 apparizioni.

IERI AMICI, OGGI RIVALI. Nicky Butt, Éric Cantona e Paul Scholes.

E ci sarà un filo rosso, come la maglia del Manchester United, ad unire le due avversarie di domani, apparentemente prive di legami: tra i giocatori assoldati nell’undici statunitense ci sono anche Nicky Butt, Gary Neville e Dwight Yorke, tre vecchi compagni di spogliatoio di Scholes. I Cosmos non sono ancora in grado di allestire una prima squadra propriamente detta: ad oggi ci sono solamente le scuole calcio sparpagliate nel paese e la formazione Under 23, recentemente iscritta alla quarta divisione nazionale. A fianco dei suoi elementi più validi, come il centravanti bulgaro Stefan Dimitrov, l’imprevedibile colombiano David Diosa ed il talentuoso salvadoregno Marvin Iraheta, sono stati così convocati alcune vecchie glorie o giocatori prossimi alla pensione. Per una notte appena, la mitica casacca bianca dai risvolti verdi finirà sulle spalle degli ex nazionali inglesi Wayne Bridge e Sol Campbell, degli americani Brad Friedel e Brian McBride, dello spagnolo Michel Salgado, del francese Robert Pirès. Nella lista dei prescelti figurano anche vecchie conoscenze dell’Inter come Robbie Keane e Patrick Vieira e, soprattutto, l’ex capitano azzurro Fabio Cannavaro. Ad allenare l’inedita squadra una coppia altrettanto insolita:  la compongono Éric Cantona e Cobi Jones, rispettivamente direttore e vicedirettore tecnico dei nuovi Cosmos. Strani incroci, nella pancia dell’Old Trafford: sir Alex Ferguson avrà come diretto rivale un suo ex giocatore che ha peraltro condiviso per anni lo spogliatoio assieme a Scholes.

Ma la collezione di figurine non avrà seguito dopo la notte di gala a Manchester. Il futuro passa dalla squadra giovanile e dalle scuole di avviamento, il futuro – non troppo ipotetico – si chiama MLS. Niente scimmiottatura calcistica degli Harlem Globetrotters, buoni solo per esibirsi in acrobazie autoreferenziali, niente cimitero degli elefanti come, seppur in buona fede, fece erroneamente Steve Ross. “Ci sono quelli che lavorano tutto il giorno, ci sono quelli che sognano tutto il giorno e ci sono quelli che trascorrono un’ora sognando prima di recarsi a lavorare per realizzare quei sogni. Vai nella terza categoria, virtualmente non c’è competizione” gli sussurrò il padre in punto di morte. Oggi Kemsley e soci si stanno adoperando per trasformare nuovamente in realtà il sogno di riportare in auge i Cosmos. Sai che derby, con i New York Red Bulls…

IL SUICIDIO TATTICO DI PREUD’HOMME

Con un atteggiamento fin troppo rinunciatario, il tecnico belga manca lo scudetto in Olanda.

Molti si ricorderanno sicuramente di questo portierone capace di affermarsi come uno dei migliori interpreti del ruolo a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. In particolar modo l’apice della sua carriera venne raggiunto ai Mondiali americani del 1994, quando vinse il premio Jašin come miglior portiere della competizione.
Una volta appesi i guanti al chiodo nel 1999, decise poi di intraprendere la carriera di allenatore. Così, dopo una duplice esperienza allo Standard Liegi – guidato rispettivamente nella stagione 2001/2002 e nel biennio 2006/2008 – ed una al Gent, ecco lo sbarco, nel 2010, al Twente Enschede fresco Campione d’Olanda, squadra che guida tutt’oggi e con cui una settimana fa è stato in grado di vincere la KNVB Beker (equivalente della nostra Coppa Italia).

La vittoria in Coppa non ha però insegnato molto al tecnico belga che, giusto nel week-end, si è trovato a disputare una sorta di finale per la vittoria dell’Eredivisie proprio contro quell’Ajax appena battuto da pochi giorni.

Forte della possibilità di centrare due risultati su tre – guidando la classifica proprio davanti ai lancieri, infatti, ai Tukkers sarebbe bastato un pareggio per aggiudicarsi la vittoria finale – il buon Preud’homme ha deciso di utilizzare un approccio alla gara troppo attendista, spianando il campo alla vittoria dei ragazzi di Frank De Boer, campioni nazionali per la trentesima volta nella propria storia.

Il piano sembrava prevedere la costruzione di una sorta di Linea Maginot a protezione del portiere Mihajlov, il tutto cercando di salvaguardare uno 0- 0 che avrebbe garantito la vittoria. Per poter pensare di giocare novanta minuti arroccati in difesa, cercando di colpire gli avversari solo con attacchi saltuari, magari affidandosi alla qualità del trascinatore Theo Janssen, si devono possedere difensori tecnicamente validi, ed un’impalcatura tattica di livello. Mancando questi requisiti è difficile credere di poter reggere per un’ora e mezza di fronte ad un attacco da più di due goal di media a partita.

Esempio concreto: Mourinho a suo tempo si potè permettere di sfidare il Barcellona utilizzando Eto’o e Pandev quasi come terzini aggiunti, con dieci uomini pressoché sempre schierati dietro la linea del pallone, alla ricerca di una densità capace di chiudere tutti gli spazi sfruttabili dalla compagine di Guardiola. Potè farlo, perché forte di una linea difensiva composta da giocatori di livello assoluto, nonché da un gruppo globalmente di grandissima qualità e, soprattutto, registrato alla perfezione da un punto di vista tattico.

Cosa, questa, che invece non è sembrata poter essere applicabile anche in quel di Enschede: Rosales, Wisgherof, Douglas e Buysse sono solo onesti mestieranti del pallone. L’architettura tattica dei Tukkers nel suo complesso, poi, ha dimostrato non poche crepe.

Ci si aspettava dunque, e si sarebbe dovuto puntare, tutt’altro approccio. A onor del vero, l’inizio lasciava presagire ben altro: dopo pochi secondi Chadli centra un cross sul secondo palo per Ruiz, chiuso bene dalla parata di Vermeer.

Da lì in poi, il nulla: Twente arroccato nella propria metà campo cercando di andare a chiudere ogni singolo spiraglio agli avversari, dal canto loro incapaci di bucare la resistenza Tukkers. Il tutto fino al ventitreesimo minuto, quando escono lampanti le lacune ospiti: van der Wiel serve nel cuore dell’area un pallone su cui nessuno riesce ad intervenire. Sul secondo palo, intanto, spunta Siem de Jong che firma la prima delle sue reti con un piattone di prima intenzione. Mandando a monte il piano – folle – messo a punto da Preud’homme.

WEMBLEY-FA CUP, STORIA DI UN AMORE

Domani Manchester City e Stoke City si contendono la FA Cup, il cui nome è legato indissolubilmente a quello dello stadio londinese.

Domani, a Londra, il miliardario Manchester City di Mancini & Balotelli e la matricola terribile Stoke City si giocheranno la finale del torneo di calcio più antico al mondo: la FA Cup. I Citizens hanno già vinto la coppa quattro volte su otto finali, mentre per i Potters si tratta della prima volta in ben 148 anni di storia. La squadra di Mancini parte da favorita, ma i biancorossi dello Stoke sono una squadra capace di sorprendere. Il palcoscenico, e non poteva essere altrimenti, sarà lo Stadio di Wembley, simbolo ed essenza del calcio inglese. Proprio il binomio Wembley-finale di FA Cup sembra rappresentare ancor oggi un’apoteosi del legame fra il calcio e l’identità nazionale inglese.

La FA Cup è il torneo di calcio più antico al mondo; fin dalla stagione 1871 la finale si è giocata a Londra, al Kennington Oval, e nel corso della sua storia quelle giocate fuori dalla capitale hanno rappresentato una rara eccezione. Nel 1914, alla finale vinta dal Burnley sul Liverpool per 1-0, fra i 73 mila spettatori del Crystal Palace prese parte anche sua maestà Giorgio V che inaugurò così la tradizione regia di assistere alla finale. La finale della Coppa d’Inghilterra, però, divenne a tutti gli effetti un rituale per il paese al momento della ricollocazione nel nuovo British Empire Stadium di Wembley nel 1923.

Lo stadio di Wembley era stato costruito negli anni ’20, in occasione della British Empire Exhibiton: l’ingresso era caratterizzato dalle famose torri gemelle, simbolo di potere e grandezza, decorate in uno stile imperiale che richiamava la madre di tutte le colonie, l’India. In una fase di iniziale decadenza, Wembley era un’espressione del prestigio britannico, paragonabile in un certo senso ai tentativi fatti da altri paesi europei di affermare il potere degli stati anche attraverso la costruzione di stadi, capaci di raccogliere vaste folle in un luogo che potesse promuovere un senso di unità nazionale.

Prima ancora che fosse terminato, la FA firmò un contratto di 21 anni per l’usufrutto: fino a quel momento le autorità calcistiche inglesi avevano vissuto con un certo imbarazzo il fatto che Glasgow avesse uno stadio migliore di tutti quelli in Inghilterra. L’esposizione imperiale del 1924-25 fu però un fallimento, sia dal punto di vista economico sia da quello simbolico: lo stadio fu l’unico edificio a salvarsi proprio perché divenne il luogo designato per la finale di FA Cup. Ma un incontro calcistico l’anno non sarebbe stato sufficiente per la sopravvivenza dello stadio, che fu garantita anche dalle corse dei greyhounds, dalla finale di rugby league, dalle speedway, dai concerti e da eventi sportivi internazionali.

Costruito per essere un vero e proprio stadio imperiale, Wembley è diventato negli anni, anche per via della sua neutralità rispetto alle rivalità calcistiche, un’icona nazionale inglese. Ha ospitato le Olimpiadi del 1948 ed è diventato a tutti gli effetti la casa della nazionale inglese di calcio.

Con l’approdo a Wembley la finale di FA Cup perse la sua spontaneità, smettendo di essere un’occasione informale di cultura popolare, per trasformarsi in un più ufficiale rito nazionale. I rituali della finale acquisirono col tempo caratteristiche associate più con le cerimonie di stato che con lo sport e la presenza dei reali, a cui venivano presentate ufficialmente le squadre, ne è la principale dimostrazione.

Il 28 aprile 1923, in occasione della prima finale, 200mila persone si accodarono per vedere non solo West Ham – Bolton ma anche il Re e questa nuova meraviglia architettonica dell’Impero. Nonostante l’incredibile sovrannumero di spettatori e le tensioni create da gente senza biglietto dentro lo stadio e con il biglietto fuori, che avrebbero facilmente potuto portare a un esito drammatico, non ci furono clamorosi problemi d’ordine pubblico. L’episodio venne ribattezzato White Horse Final, poiché i protagonisti furono i poliziotti che, in sella ai propri cavalli, riuscirono a evitare degenerazioni. La narrazione leggendaria della folla, che tranquillizzata dalla presenza dei reali si comportò ordinatamente senza farsi prendere dal panico, ha contribuito a creare un mito attorno alla finale di coppa e al suo stadio. La presenza dei reali e l’idea vittoriana secondo cui le folle anglosassoni sono capaci di auto regolarsi ha dato a Wembley negli anni la reputazione di essere «trouble free».

Oltre alla presenza dei reali, un ulteriore aspetto importante nel cerimoniale della finale è svolto dai community singing. Nel 1927 fu suonato per la prima volta Abide With Me. Con il ricordo della guerra ancora vivo, la scelta di intonare un inno funebre fu un modo cosciente delle classi superiori, sfruttando anche la popolarità dei canti collettivi, per cercare di ricostruire un senso di unità nazionale dopo lo sciopero generale e quello prolungato dei minatori nel 1926. Sorprendentemente, questo inno viene cantato ancor oggi: la logica originale è andata completamente perduta ma rimane un rituale immancabile. Nell’edizione 2010-11 Abide With Me sarà cantata dal trio Tenors Unlimited, mentre l’ex star dell’edizione inglese del programma televisivo X Factor, Stacey Solomon, canterà l’inno nazionale, God Save the Queen.

Negli anni ’90 lo stadio di Wembley era totalmente inadatto alle nuove misure di sicurezza e poco funzionale al calcio per via della pista d’atletica. Allo stesso tempo, però, restava l’icona del calcio inglese e la sua tradizione era riconosciuta e invidiata nel mondo. Quel momento storico fu però segnato nel paese da un’ondata di modernizzazione. Anche lo stadio nazionale entrò quindi a far parte di un’ampia operazione postmoderna di re-branding dell’identità nazionale marchiata New Labour, volta a mettersi alle spalle il passato per guardare al futuro. Il vecchio stadio, con le sue celebri torri troppo compromesse con l’eredità imperiale, venne raso al suolo e ricostruito ex novo.

Dal 2000 al 2005, con Wembley in fase di ricostruzione, la finale si disputò presso il Millenium Stadium di Cardiff. Il nuovo Wembley ha abiurato drasticamente ogni simbolo legato al passato imperiale per aprirsi alla modernità: oggi le storiche torri sono state brutalmente abbattute per lasciare spazio all’enorme ed avveniristico arco che sovrasta lo stadio.

Nonostante nella maggior parte dei paesi la coppa nazionale di calcio sia ormai diventata una competizione secondaria, è grazie al suo legame con il rinnovato stadio di Wembley e ai suoi rituali che la FA Cup riesce a mantenere intatto il suo prestigio. Quella di domani sarà la quinta finale disputata in questo nuovo e confortevole gioiellino ultra-tecnologico e anche se il debutto calcistico della coppia dell’anno William & Kate, a meno di improbabili sorprese, sarà rimandato al 2012, la sfida fra Stoke e Manchester sarà, come avviene per ogni finale di FA Cup, qualcosa di più di una semplice partita di calcio.

DOPPIO REGISTA PER IL REAL?

L’arrivo di Nuri Şahin a Madrid potrebbe comportare una rivoluzione nell’assetto tattico delle merengues.

Modifiche tattiche in vista, per il Real di Mourinho: è notizia di questi giorni l’acquisto di Nuri Şahin, talentuosissimo centrocampista turco che è stato tra i principali trascinatori del Borussia Dortmund capace di imporsi in Bundesliga quest’anno.

E l’arrivo del giovanissimo regista ex Feyenoord comporterà indubbiamente qualche cambiamento in quel di Madrid.
Due le ipotesi più probabili: da una parte l’accantonamento dell’ormai trentenne Xabi Alonso, dall’altra la modifica del modulo attualmente in uso, con l’utilizzo di due registi in contemporanea.

Posto che la prima ipotesi, sulla carta, non porterebbe ad alcuna modifica tattica, con Şahin semplicemente impegnato a svolgere il lavoro che fino a quest’anno è stato svolto da Alonso, la seconda prevedrebbe, invece, una modifica tanto nella tattica di base quanto nell’atteggiamento e nel gioco della squadra.  E quest’ultimo sembrerebbe lo scenario più intrigante.

Quest’anno il Real Madrid è sceso spesso in campo con un modulo pressoché speculare a quello che portò l’Inter di Mourinho a vincere il Triplete: quattro difensori in linea, due centrocampisti schierati in mediana, tre trequartisti ed un’unica punta. L’arrivo di Şahin, però, non potrà che portare ad una qualche modifica tattica. Perché pensare ad una coesistenza del duo Nuri-Xabi in un modulo del genere rasenta la follia: vero è che entrambi sono abituati a giocare nei due di mediana in un 4-2-3-1 – anche il Borussia ha prediletto questo modulo lungo tutto il corso della stagione -, altrettanto vero, però, è che entrambi sono oggi spalleggiati da due giocatori di quantità (Bender nell’undici tedesco e Khedira in quello spagnolo). Proporre un modulo del genere, con due registi puri dediti più alla costruzione che alla distruzione, e le cui caratteristiche sono fortemente legate a capacità tecnica e visione di gioco ma non alla bontà delle proprie doti di incontrista, significherebbe sbilanciare troppo la squadra, rischiando di prendere delle grandi imbarcate laddove ci si trovi a giocare contro avversari di un certo livello.

A questo punto, per far coesistere Şahin ed Alonso pare davvero essere assolutamente necessario un cambio di modulo. E la via più indicata da prendere sembrerebbe essere quella del ritorno alle origini per il tecnico lusitano: Mourinho diventò, infatti, famoso grazie ad un 4-3-3 che provò a proporre anche una volta arrivato in Italia. Per trapiantarlo anche a Milano sponda nerazzurra si fece quindi acquistare Quaresma e Mancini, che però bucarono clamorosamente l’adattamento in quella squadra.

Ecco che un ritorno ad una sorta di 4-3-3 potrebbe davvero essere la soluzione ideale per schierare assieme i due registi di cui disporrà il prossimo anno. Il tutto provando a ricalcare, anche solo lontanamente, quello che è l’attuale modulo del Barcellona. I Blaugrana, infatti, giocano con due giocatori di assoluto talento nel reparto nevralgico del campo, entrambi dediti a costruire più che a distruggere (compito riservato prevalentemente a Busquets). Allo stesso modo, Mourinho potrebbe quindi pensare di affiancare Şahin ed Alonso, che garantirebbero qualità notevole in mezzo al campo, ad un mediano dai polmoni d’acciaio e dalle capacità interdittorie assolute. Un nuovo Makelele, tanto per restare in territorio madrileno.

In questo, e con l’aiuto dei tre attaccanti, il Real potrebbe andare a trovare i giusti equilibri, non rinunciando al contempo a costruire un gioco quantomeno apprezzabile, cosa che in Spagna è sempre richiesta, soprattutto a chi siede sulla panchina della Casa Blanca.

Scenario davvero accattivante quello che si sta delineando a Madrid. Che con l’arrivo di Mourinho anche il Real inizi ad effettuare campagne acquisti con una certa logica di base? Lo scopriremo presto. Se durante l’estate non si penserà, come al solito, ad ammonticchiare talento là davanti, ma si proverà a costruire una vera squadra partendo dal rinforzare la difesa, ecco che il Real Madrid potrebbe finalmente fare quel salto di qualità di cui necessita da tempo immemore. E, a quel punto, l’imbarazzante superiorità del Barcellona potrebbe presto scomparire…

FILOSOFIE (CALCISTICHE) A CONFRONTO

Barcellona-Real Madrid, eterna sfida non solo tra capitale e Catalogna ma tra due diversi modi di vivere il calcio

Alla fine il Barcellona di Guardiola ce l’ha fatta. Al netto di tutte le polemiche, saranno proprio i Blaugrana a disputare la finale londinese di Champions League. Il tutto dopo aver superato, in un doppio confronto molto sentito, gli acerrimi rivali di sempre.

Barcellona-Real non è però una semplice partita di calcio: è molto di più. Innanzitutto, è uno scontro tra filosofie: da una parte il Barça dei tantissimi canterani, dall’altra il (fu) Real Galáctico, da una parte il tiki-taka, dall’altra l’attendismo targato Mourinho.

E il doppio confronto di Champions ha dimostrato come in questo momento non ci sia confronto tra le due filosofie e non è un caso se il Barcellona giocherà la seconda finale di Champions degli ultimi tre anni.

Sono i più forti. E riuscire a raggiungere questi traguardi con così tanti giocatori provenienti dalle giovanili deve essere un motivo d’orgoglio in più. Nel match di ritorno, ad esempio, ben otto erano i canterani schierati da Guardiola: davvero incredibile.

Ed è un risultato, quello che riguarda la qualificazione alla finale, che parte davvero da lontano. Proprio perché il lavoro dietro a questa squadra non si esaurisce nell’arco di un anno o poco più.

La maggior parte di questi giocatori sono infatti stati presi ragazzini, svezzati e cresciuti con una certa impronta per farli diventare giocatori professionisti di alto livello che potessero incastonarsi al meglio nella macchina della prima squadra.

L’esatto contrario di quanto viene fatto a Madrid, dove da un anno all’altro partono rivoluzioni e cambi d’allenatore e dove si finisce sempre per ammonticchiare talento – specialmente offensivo – un po’ a casaccio.

Veder arrivare Kakà e Ronaldo in una sola estate è, sicuramente, galvanizzante. Ma dominare il calcio mondiale con un progetto partito anche dieci o quindici anni prima lo deve essere di più.

E la differenza tra le due filosofie sta qui: da una parte si programma, dall’altra si vive alla giornata, pensando che i soldi possano coprire in ogni caso qualsiasi falla. Ma così non è.

Questo Barcellona-Real in particolare, dunque, non è stato uno scontro solo tra le due più grandi potenze del calcio spagnolo, ma anche tra due approcci differentissimi di interpretare il calcio.

Veder giocare il Barcellona è un vero e proprio piacere per gli occhi: densità di gioco in ogni zona del campo, tecnica sopraffina, trame offensive fittissime e studiate, talento da vendere, capacità di verticalizzare a piacimento. E l’azione del gol di Pedro dimostra come questa squadra, grazie ai grandissimi campioni di cui dispone, sia abile proprio nelle verticalizzazioni, infilando le difese avversarie come burro.

Assolutamente inadeguato, invece, l’approccio scelto da Mourinho, uno che non si fa certo troppi scrupoli nell’affidarsi al catenaccio. Un conto, però, è farlo all’Inter, altro al Real. Perché a Milano aveva i giocatori giusti per poterci provare (e riuscire, come dimostrano i risultati), perché il calcio spagnolo ha una cultura ben diversa da quella italiana e perché in una squadra con la storia del Real Madrid è quasi una bestemmia.

Due filosofie a confronto, insomma. E, forse, non si può far altro che gioire nel vedere che a spuntarla, alla fine, sia stata quella che punta sul vivaio e sul bel gioco.