WEMBLEY-FA CUP, STORIA DI UN AMORE

Domani Manchester City e Stoke City si contendono la FA Cup, il cui nome è legato indissolubilmente a quello dello stadio londinese.

Domani, a Londra, il miliardario Manchester City di Mancini & Balotelli e la matricola terribile Stoke City si giocheranno la finale del torneo di calcio più antico al mondo: la FA Cup. I Citizens hanno già vinto la coppa quattro volte su otto finali, mentre per i Potters si tratta della prima volta in ben 148 anni di storia. La squadra di Mancini parte da favorita, ma i biancorossi dello Stoke sono una squadra capace di sorprendere. Il palcoscenico, e non poteva essere altrimenti, sarà lo Stadio di Wembley, simbolo ed essenza del calcio inglese. Proprio il binomio Wembley-finale di FA Cup sembra rappresentare ancor oggi un’apoteosi del legame fra il calcio e l’identità nazionale inglese.

La FA Cup è il torneo di calcio più antico al mondo; fin dalla stagione 1871 la finale si è giocata a Londra, al Kennington Oval, e nel corso della sua storia quelle giocate fuori dalla capitale hanno rappresentato una rara eccezione. Nel 1914, alla finale vinta dal Burnley sul Liverpool per 1-0, fra i 73 mila spettatori del Crystal Palace prese parte anche sua maestà Giorgio V che inaugurò così la tradizione regia di assistere alla finale. La finale della Coppa d’Inghilterra, però, divenne a tutti gli effetti un rituale per il paese al momento della ricollocazione nel nuovo British Empire Stadium di Wembley nel 1923.

Lo stadio di Wembley era stato costruito negli anni ’20, in occasione della British Empire Exhibiton: l’ingresso era caratterizzato dalle famose torri gemelle, simbolo di potere e grandezza, decorate in uno stile imperiale che richiamava la madre di tutte le colonie, l’India. In una fase di iniziale decadenza, Wembley era un’espressione del prestigio britannico, paragonabile in un certo senso ai tentativi fatti da altri paesi europei di affermare il potere degli stati anche attraverso la costruzione di stadi, capaci di raccogliere vaste folle in un luogo che potesse promuovere un senso di unità nazionale.

Prima ancora che fosse terminato, la FA firmò un contratto di 21 anni per l’usufrutto: fino a quel momento le autorità calcistiche inglesi avevano vissuto con un certo imbarazzo il fatto che Glasgow avesse uno stadio migliore di tutti quelli in Inghilterra. L’esposizione imperiale del 1924-25 fu però un fallimento, sia dal punto di vista economico sia da quello simbolico: lo stadio fu l’unico edificio a salvarsi proprio perché divenne il luogo designato per la finale di FA Cup. Ma un incontro calcistico l’anno non sarebbe stato sufficiente per la sopravvivenza dello stadio, che fu garantita anche dalle corse dei greyhounds, dalla finale di rugby league, dalle speedway, dai concerti e da eventi sportivi internazionali.

Costruito per essere un vero e proprio stadio imperiale, Wembley è diventato negli anni, anche per via della sua neutralità rispetto alle rivalità calcistiche, un’icona nazionale inglese. Ha ospitato le Olimpiadi del 1948 ed è diventato a tutti gli effetti la casa della nazionale inglese di calcio.

Con l’approdo a Wembley la finale di FA Cup perse la sua spontaneità, smettendo di essere un’occasione informale di cultura popolare, per trasformarsi in un più ufficiale rito nazionale. I rituali della finale acquisirono col tempo caratteristiche associate più con le cerimonie di stato che con lo sport e la presenza dei reali, a cui venivano presentate ufficialmente le squadre, ne è la principale dimostrazione.

Il 28 aprile 1923, in occasione della prima finale, 200mila persone si accodarono per vedere non solo West Ham – Bolton ma anche il Re e questa nuova meraviglia architettonica dell’Impero. Nonostante l’incredibile sovrannumero di spettatori e le tensioni create da gente senza biglietto dentro lo stadio e con il biglietto fuori, che avrebbero facilmente potuto portare a un esito drammatico, non ci furono clamorosi problemi d’ordine pubblico. L’episodio venne ribattezzato White Horse Final, poiché i protagonisti furono i poliziotti che, in sella ai propri cavalli, riuscirono a evitare degenerazioni. La narrazione leggendaria della folla, che tranquillizzata dalla presenza dei reali si comportò ordinatamente senza farsi prendere dal panico, ha contribuito a creare un mito attorno alla finale di coppa e al suo stadio. La presenza dei reali e l’idea vittoriana secondo cui le folle anglosassoni sono capaci di auto regolarsi ha dato a Wembley negli anni la reputazione di essere «trouble free».

Oltre alla presenza dei reali, un ulteriore aspetto importante nel cerimoniale della finale è svolto dai community singing. Nel 1927 fu suonato per la prima volta Abide With Me. Con il ricordo della guerra ancora vivo, la scelta di intonare un inno funebre fu un modo cosciente delle classi superiori, sfruttando anche la popolarità dei canti collettivi, per cercare di ricostruire un senso di unità nazionale dopo lo sciopero generale e quello prolungato dei minatori nel 1926. Sorprendentemente, questo inno viene cantato ancor oggi: la logica originale è andata completamente perduta ma rimane un rituale immancabile. Nell’edizione 2010-11 Abide With Me sarà cantata dal trio Tenors Unlimited, mentre l’ex star dell’edizione inglese del programma televisivo X Factor, Stacey Solomon, canterà l’inno nazionale, God Save the Queen.

Negli anni ’90 lo stadio di Wembley era totalmente inadatto alle nuove misure di sicurezza e poco funzionale al calcio per via della pista d’atletica. Allo stesso tempo, però, restava l’icona del calcio inglese e la sua tradizione era riconosciuta e invidiata nel mondo. Quel momento storico fu però segnato nel paese da un’ondata di modernizzazione. Anche lo stadio nazionale entrò quindi a far parte di un’ampia operazione postmoderna di re-branding dell’identità nazionale marchiata New Labour, volta a mettersi alle spalle il passato per guardare al futuro. Il vecchio stadio, con le sue celebri torri troppo compromesse con l’eredità imperiale, venne raso al suolo e ricostruito ex novo.

Dal 2000 al 2005, con Wembley in fase di ricostruzione, la finale si disputò presso il Millenium Stadium di Cardiff. Il nuovo Wembley ha abiurato drasticamente ogni simbolo legato al passato imperiale per aprirsi alla modernità: oggi le storiche torri sono state brutalmente abbattute per lasciare spazio all’enorme ed avveniristico arco che sovrasta lo stadio.

Nonostante nella maggior parte dei paesi la coppa nazionale di calcio sia ormai diventata una competizione secondaria, è grazie al suo legame con il rinnovato stadio di Wembley e ai suoi rituali che la FA Cup riesce a mantenere intatto il suo prestigio. Quella di domani sarà la quinta finale disputata in questo nuovo e confortevole gioiellino ultra-tecnologico e anche se il debutto calcistico della coppia dell’anno William & Kate, a meno di improbabili sorprese, sarà rimandato al 2012, la sfida fra Stoke e Manchester sarà, come avviene per ogni finale di FA Cup, qualcosa di più di una semplice partita di calcio.

CITY: DOVE NON E’ IL MODULO A FARE LA DIFFERENZA

Nel corso di questa stagione ho avuto modo di seguire in più occasioni il City di Mancini. L’ultimo loro match che ho potuto vedere risale proprio a domenica quando i Citizens hanno fatto visita al Chelsea di Carlo Ancelotti per un derby della panchina tutto italiano vinto, piuttosto nettamente, dall’ex allenatore di Parma, Juventus e Milan.

La motivazione per la quale tra tante squadre ho scelto di seguire con discreta costanza proprio quella presieduta dallo sceicco Khaldoon Al Mubarak è semplice e facilmente intuibile: la curiosità suscitata in me da una compagine ricca di talento ma costruita un po’ a mo’ di raccolta delle figurine era tanta e la volontà di provare a capire quanto il tecnico jesino sarebbe stato in grado di amalgamare un undici all’altezza anche maggiore.

Dopo averne seguito in più occasioni le gesta, quindi, posso affermare con tranquillità e fermezza come questo City più che una squadra sembri davvero un’accozzaglia di talenti un po’ improvvisata e raffazzonata, senza un’identità di gioco ben precisa, trascinata più da giocate personali dei singoli che dal collettivo. In tutto ciò la via d’uscita non sembra essere rappresentata dal modulo tattico perché non tutto, nel calcio, è una questione di numeri. Si debbono infatti costruire degli equilibri che vanno al di là di questo. Non per nulla ad oggi il Mancio ha tentato diverse alternative, ma senza riuscire ancora a far quadrare il cerchio.

Principalmente il City si schiera con una sorta di 4-3-2-1 composto da una classica linea difensiva a quattro, un centrocampo folto e muscolare tendenzialmente schierato con tre mediani, due ali schierate all’altezza della trequarti ed una sola punta di ruolo. In altri casi, però, le ali vengono avanzate all’altezza dell’attaccante di modo da trasformare il tutto in un 4-3-3 più classico. Più raramente, poi, ecco la squadra schierarsi con un più lineare 4-4-2, come in occasione del match di FA Cup dello scorso febbraio con il Notts County, quando i Citizens si schierarono con la coppia Dzeko-Balotelli davanti ed un centrocampo in linea con Tourè e Vieira centrali e Kolarov-Silva esterni.

In tutto ciò, però, il City continua a non avere la giusta quadratura, né, soprattutto, una fluidità di manovra degna di una squadra che si rispetti, a maggior ragione quando così talentuosa. E non sarà un ennesimo cambio di modulo a sistemare le cose. In situazioni come queste pesa quindi molto il lavoro del mister, che in Inghilterra è poi un manager a tutto tondo. Perché alcuni dei punti negativi di questa squadra possiamo ritrovarli anche relativamente al lavoro svolto in sede di mercato: non sempre spendere tanto significa spendere bene, anzi. Ecco quindi come a gennaio sia stato acquistato, e per un bel po’ di soldi, Edin Dzeko dal Wolfsburg. A che pro, se poi la squadra viene schierata prevalentemente con Tevez unica punta? Prendiamo a campione proprio quest’ultimo mese di marzo: la punta bosniaca è partita titolare in due sole occasioni, di cui una, contro il Chelsea, in cui Tevez non era disponibile. Perché spendere trenta milioni di euro per un giocatore da relegare poi in panchina?

I problemi principali, a mio avviso, si riscontrano però proprio nel gioco di questa squadra. Al di là di moduli e singole scelte c’è bisogno, come detto, di costruire un’identità di gioco a questa squadra, che non può continuare ad essere tirata avanti dalle giocate dei suoi campioni. Vedere un Silva involversi in una situazione in cui non si sente né carne né pesce, una linea di mediani qualitativamente discreta ma in cui nessuno si prende la responsabilità di dettare i ritmi, giocatori come Milner e Wright Phillips non fare nulla più del proprio compitino o un gioco di sovrapposizione sulle fasce latitare dà bene l’idea dello stato delle cose.

L’unica possibile soluzione attuabile a questo punto sembrerebbe quindi essere un cambio di allenatore. Estromettere Mancini – a fine anno, beninteso – dalla guida della squadra per porre al suo posto un manager capace di dare un’impronta più chiara al proprio team. Del resto, senza voler essere eccessivamente duro nei confronti dell’ex tecnico interista, le sue squadre non hanno mai brillato in quanto a gioco. I risultati in passato sono sì arrivati, ma personalmente non ho mai apprezzato troppo il suo modo di gestire una squadra. Sostituire Mancini con un allenatore più capace di dare un’impronta alla propria squadra, come uno Spalletti o un Hiddink per dirne due, potrebbe quindi far effettuare un bel salto di qualità a questa compagine. Spendendo bene i propri soldi sul mercato, poi, ecco che si arriverebbe in breve ad una serissima contender per Premier e Champions League.