CHRISTCHURCH INAGIBILE PER LA COPPA DEL MONDO?

Una nazione in silenzio, per due minuti: il primo marzo alle 12:51, una settimana precisa dopo il terremoto devastante che ha colpito la città di Christchurch il 22 febbraio, la Nuova Zelanda ha osservato due minuti di silenzio per le vittime. Oltre centocinquanta i decessi confermati – compresa Taneysha Prattley, una bambina di sole cinque settimane -, circa duecento i dispersi, quasi duemila i feriti a causa della scossa di magnitudo 6,3: un sisma già annunciato l’anno precedente da un evento di intensità maggiore (7,1 sulla scala Richter) che aveva colpito la regione senza però causare vittime. “Il 22 febbraio potrebbe essere il giorno più buio della storia della Nuova Zelanda” ha dichiarato John Key, primo ministro della nazione della Grande Nuvola Bianca.

Per Christchurch (Ōtautahi in lingua Māori), la seconda più grande città della Nuova Zelanda, si è trattato di un colpo durissimo anche dal punto di vista economico. Secondo la Protezione Civile neozelandese saranno oltre duemila le case che dovranno essere demolite in seguito a cedimenti strutturali, mentre il centro della città potrebbe essere riaperto solo a partire dal mese di dicembre: oltre 45% degli edifici cittadini sono correntemente inagibili. I danni sono stati stimati attorno ai sedici milioni di dollari neozelandesi (circa otto milioni e mezzo di euro) e il governo sta cercando di varare un disaster recovery plan per permettere all’economia della città di riavviarsi dopo un’esperienza così traumatica.

Uno dei grossi dubbi del futuro di Christchurch riguarda la Coppa del Mondo di rugby che si terrà in Nuova Zelanda a partire da settembre. Il Lancaster Park (ora noto come AMI Stadium per motivi di sponsorizzazione) avrebbe dovuto ospitare cinque incontri della fase a gironi (tra cui Australia – Italia dell’11 settembre) e due quarti di finale. La città di Christchurch è rimasta fino all’ultimo in lizza con Auckland per aggiudicarsi l’onore di ospitare le quattro gare finali (semifinali, finale per il terzo posto e finale), che andranno invece in scena all’Eden Park di Auckland. Una grossa opportunità per gli affari locali che però ora rischia di sfumare proprio a causa del sisma.

Murray McCully, ministro alla Coppa del Mondo del governo neozelandese, ha sottolineato la necessità di garantire la completa agibilità dell’impianto sportivo come condizione imprescindibile perché le sette gare possano disputarsi a Christchurch. Intervistato dal New Zealand Herald, McCully ha dichiarato: “Stiamo aspettando le relazioni da parte degli ingegneri. Stiamo lavorando con la convinzione che, se possiamo farlo accadere, lo faremo accadere. Abbiamo bisogno di sapere se lo stadio può essere approntato in tempo per ospitare le partite: solo dopo potremo affrontare le problematiche associate alla possibilità di ospitare persone a Christchurch e predisporre infrastrutture adeguate. Niente di tutto questo, però, può funzionare senza uno stadio”. L’ultima parola spetta all’International Rugby Union che, secondo quanto dichiarato da McCully, sta lavorando a stretto contatto con il governo neozelandese per affrontare le problematiche legate al terremoto. Aperto il 15 ottobre 1881, il Lancaster Stadium era recentemente stato allargato proprio in vista della Coppa del Mondo, arrivando a ospitare quasi quarantamila spettatori. Ora presenta danni strutturali alla Hadlee Stand e alla Deans Stand, oltre a seri problemi di liquefazione del terreno sia nel terreno circostante lo stadio sia sulla superficie di gioco. I danni subiti dallo stadio potrebbero richiedere mesi per essere sistemati. Il conto alla rovescia per l’inizio del torneo però concede solo altri 180 giorni.

E mentre i Crusaders, la squadra che rappresenta Christchurch e la provincia di Canterbury nel Super rugby, stanno cercando una nuova sede provvisoria (è stato scartato il Trafalgar Park della vicina Nelson, che non assicura una capienza adeguata) e hanno preso in considerazione la possibilità di disputare un incontro nello stadio londinese di Twickenham, in quello che sarebbe un potenziale colpo a livello di marketing, il primo ministro John Key ha insistito sull’importanza di garantire, se possibile, che le partite della Coppa del Mondo non vengano spostate in altre sedi: “Se potessimo ospitare la Coppa del Mondo a Christchurch, come intendiamo fare, questa sarebbe la cosa migliore: è forse un’ipotesi troppo azzardata, ma che aiuterebbe una città molto importante. Sarebbe una dimostrazione che Christchurch si è rialzata in piedi”. Il primo ministro ha anche vagliato la proposta di ospitare tifosi e squadre su navi da crociera, in modo da garantire un ritorno d’immagine, turistico ed economico alla città devastata dal sisma.

Martin Snedden, direttore del comitato organizzatore della Coppa del Mondo, ha escluso categoricamente la possibilità di spostare le sette partite in questione in territorio australiano: “Si è speculato che questa tragedia metta a repentaglio tutta la manifestazione o che alcune partite verranno spostate in Australia. Tutto ciò non è vero: la Coppa del Mondo 2011 prenderà luogo regolarmente e tutti gli incontri si giocheranno in Nuova Zelanda”. Snedden ha anche posto l’accento sulla necessità di non creare ulteriore disagio ai cittadini di Christchurch e non mettere la popolazione sotto ulteriore pressione”. Hamish Riach, capo dell’esecutivo della Canterbury Rugby Union ha dichiarato a Television New Zealand: “Al momento non sembra possibile che la nostra union possa ospitare alcunché. Abbiamo avuto per cinque anni l’obbiettivo di ospitare la Coppa del Mondo, un evento così promettente per la città e per tutta la regione, e di sicuro speriamo che quelle partite vengano giocate da noi. È troppo presto per dirlo, però: tutti stanno vivendo l’immediatezza di questo evento traumatico e i nostri pensieri sono concentrati su altri argomenti al momento”.

IL COMMODORO BAINIMARAMA, GOLPISTA OVALE

Uno scandalo di corruzione e una crisi politica stanno mettendo a rischio la partecipazione alla Coppa del Mondo di rugby di Namibia e Figi.

Si incontreranno il 10 settembre, a Rotorua, in quella che sarà la terza partita della Coppa del Mondo di rugby 2011 in Nuova Zelanda. Si tratta delle nazionali di rugby di Figi e Namibia che, dopo l’incontro di Rotorua, dovranno affrontare nel girone D anche Samoa, Galles e i campioni uscenti del Sudafrica. Figi e Namibia, però, rischiano di vedere la propria partecipazione saltare nei prossimi mesi.

La Namibia, nonostante le difficoltà e la acuìta concorrenza continentale, è riuscita a qualificarsi per la quarta volta consecutiva al Mondiale superando le insidie poste da Tunisia e Costa d’Avorio. La Namibian Rugby Union però, secondo quanto riportano Planet Rugby e Rugby Week, sarebbe accusata di forte corruzione al suo interno e di non pagare i propri giocatori. Accuse che hanno portato in dicembre alla sospensione del dirigente federale Sakkie Mouton e al commissariamento della NRU, ora controllata interamente dall’International Rugby Board e affidata alle cure dell’amministratore sudafricano Steph Nel.

Un terremoto che desta preoccupazioni a pochi mesi dalla RWC 2011. Mark Egan, capo del dipartimento di sviluppo dell’IRB, dopo aver fatto partire un’inchiesta sui debiti della federazione (ammontanti, parrebbe, a oltre mezzo milione di dollari), ha commentato: “è necessario che la NRU sia ben organizzata. Stiamo chiedendo a una piccola federazione con risorse limitate di competere contro le migliori squadre del mondo. Ci sono problemi finanziari e faremo di tutto per monitorare attentamente le risorse. L’IRB potrà dare una mano attraverso finanziamenti aggiuntivi, che però sono limitati. Speriamo quindi che il governo e il settore privato del paese aiutino la squadra nazionale in quest’anno così importante”. Meno allarmato il tono di Johan Diergaart, allenatore del XV africano: “In questo momento siamo in preparazione per la Coppa del Mondo. Alcuni giocatori sentono un po’ di incertezza, ma non penso che la cosa possa influenzarli”.

Non è la prima volta che, in concomitanza di una Coppa del Mondo, la Namibia si trova in gravi difficoltà. Nel 2003 emerse uno scandalo riguardante compensi non pagati ai giocatori e dirottati invece nelle tasche dei dirigenti, mentre quattro anni più tardi alcune irregolarità nella vendita dei biglietti portarono alla rimozione dall’incarico del presidente federale Dirk Conradie e di tutto il suo staff.

Alle Isole Figi il rugby è uno sport nazionale vissuto con una devozione quasi religiosa. Vera potenza mondiale nella variante del Sevens, la nazionale figiana resta una delle poche minnows in grado di sovvertire gli equilibri di potere del rugby internazionale: sia all’edizione inaugurale della Coppa del Mondo nel 1987, sia nell’ultima edizione finora disputata (Francia 2007) i figiani riuscirono ad accedere clamorosamente ai quarti di finale, sgambettando rispettivamente l’Argentina di Hugo Porta e il Galles. In entrambe le occasioni l’arcipelago pacifico era reduce da pochi mesi da un colpo di stato. Il 2011 invece si è aperto per il rugby figiano con quello che, secondo la Fiji Rugby Union, sarebbe un golpe ordito dalla giunta militare (al potere dal 2006) ai danni dei vertici della federazione e con l’apertura di una crisi che potrebbe mettere in pericolo la partecipazione della squadra nazionale ai Mondiali neozelandesi programmati per settembre.

A inizio gennaio la FRU è stata messa sotto inchiesta dalla Commissione per il Commercio figiana per alcune irregolarità concernenti l’organizzazione di una lotteria finalizzata a finanziare la campagna mondiale: per poter vendere più biglietti, la federazione avrebbe scontato il prezzo dei tagliandi, operazione contestata dalla Commissione, che ha chiesto una multa di 125 mila dollari figiani (l’equivalente di 82 mila dollari USA). Un’altra delle accuse mosse ai membri della FRU è quella di aver usato parte dei soldi guadagnati dalla sottoscrizione per assistere ad alcuni tornei di rugby a sette a Hong Kong e in Regno Unito. Piccata la reazione del presidente della federazione Bill Gavoka: “Sono scioccato dalle direttive emesse dalla Commissione, visto che abbiamo rispettato tutti i termini di legge. La licenza con cui è stata permessa la lotteria non ci proibiva di scontare i biglietti, e noi abbiamo solo cercato di massimizzare le vendite per il bene della nazionale”.

La crisi vera e propria è cominciata però l’11 gennaio, con la richiesta da parte del ministro dello sport figiano Filipe Bole di dimissioni da parte dei dirigenti federali, posti sotto la minaccia di veder congelati, in caso di rifiuto, i fondi destinati alla partecipazione della nazionale al Mondiale. In tutta risposta Gavoka ha rinunciato all’incarico di presidente, senza però abbandonare il suo posto nel consiglio federale: “Nessun membro del consiglio può dimettersi o essere sostituito prima del meeting annuale della federazione in aprile”. Una presa di posizione priva di sostegno, vista l’offerta di dimissioni da parte dell’esecutivo e la decisione di deporre Gavoka sostituendolo con il presidente ad interim Rafaele Kasibulu, con la promessa di nuovi finanziamenti governativi per l’entità di tre milioni di dollari figiani (un milione e mezzo in valuta statunitense).

Un golpe sportivo che non ha mancato di allertare l’International Board, preoccupata dall’eccessiva ingerenza del governo militare delle Isole Figi nella vita della federazione al punto da lanciare un ultimatum: “ogni contravvenzione rispetto allo statuto della federazione potrebbe costare alle Figi l’espulsione dall’IRB e l’esclusione dai circuiti del rugby internazionale”, ammonendo la giunta che “alla luce delle circostanze, non c’è motivo perché venga cambiato l’esecutivo della FRU” e minacciando di commissariare la gestione del rugby isolano. Secondo il dirigente IRB Mike Miller, giunto nell’arcipelago il primo di febbraio per negoziare una soluzione alla crisi, “l’IRB nutre preoccupazioni che la situazione corrente possa creare instabilità e avere un impatto negativo sulla gestione della federazione, sui programmi di sviluppo ed eccellenza finanziati dall’IRB e sulla preparazione alla Coppa del Mondo”. L’ultimatum dell’IRB avrebbe incoraggiato i membri del consiglio federale a rifiutare le dimissioni del capo dell’esecutivo della FRU Keni Dakuidreketi.

Secondo la FRU l’obbiettivo della giunta militare sarebbe quello di designare come nuovo presidente federale il commodoro Frank Bainimarama, capo delle forze armate e primo ministro, affiancandogli come vicepresidente il cognato Francis Kean, comandante della Marina con alle spalle una detenzione per omicidio e dirigente della franchigia di Suva, isola principale dell’arcipelago. Bainimarama, grande entusiasta della palla ovale, prese il potere nel 2006, secondo alcune voci ritardando la messa in atto del piano golpista per permettere lo svolgimento dell’annuale partita tra le squadre della polizia e dell’esercito. Da allora non ha mai mantenuto la promessa di indire elezioni democratiche, provocando l’espulsione delle Figi dal Commonwealth e dal Forum Pacifico. Secondo il New Zealand Herald Murray McCully, ministro per la Coppa del Mondo, per le attività sportive e ricreative e per gli affari esteri nel governo neozelandese, avrebbe dichiarato che Bainimarama e Kean, personae non gratae nella terra della Grande Nuvola Bianca, non saranno ammessi in territorio neozelandese durante la manifestazione nemmeno se dovessero presentarsi in quanto membri della FRU.

CROKE PARK: LO SPORT STRANIERO E IL VECCHIO NEMICO

Croke Park, centenario tempio irlandese degli sport gaelici, solo nel 2007 ospita il primo evento di uno sport di origine inglese, il Rugby.

RugbyIl 24 febbraio 2007 verrà ricordato come una giornata storica negli annali del rugby. Il pomeriggio rugbistico era iniziato da soli 7 minuti e l’Italia conduceva per 21-0 contro la Scozia a Edinburgo, pronta a strappare la sua prima vittoria esterna nel Sei Nazioni. Mentre gli italiani, ebbri di gioia, festeggiavano la vittoria, a Dublino gli Irlandesi si preparavano ad accogliere la nazionale inglese di rugby a Croke Park. In Irlanda (come anche in Scozia e Galles), gli inglesi sono da sempre chiamati the old enemy, il vecchio nemico, e a Croke Park il rugby è the foreign game, lo sport straniero. Mai come stavolta, però, il legame tra Irlanda, Croke Park, sport straniero e vecchio nemico è stato così stretto. A Croke Park, lo sport straniero non era il benvenuto fino a qualche mese prima quando, vista la necessità di abbattere Lansdowne Road e costruire uno stadio nuovo al suo posto, la nazionale irlandese di rugby chiese ospitalità alla GAA, la federazione degli sport gaelici. La GAA si è trovata di fronte a una decisione epocale. Primo, perché far giocare lo sport straniero nei propri campi avrebbe significato dover cambiare lo statuto stesso della GAA. Secondo, perché far giocare il Sei Nazioni a Croke Park avrebbe significato far giocare il vecchio nemico nel tempio del nazionalismo irlandese, quello stadio già violato, poco sportivamente, dagli inglesi.

Era il 21 novembre 1920. L’aria che tirava a Dublino era tesa: su ordine di Michael Collins, l’IRA aveva ucciso 14 uomini dell’intelligence britannica nei loro appartamenti. Erano uomini della Cairo Gang, una squadra che doveva infiltrarsi nell’organizzazione di Collins. La leggenda vuole che gli inglesi, affamati di vendetta, avessero lanciato una moneta per decidere con quale atto di rappresaglia punire l’attentato dell’IRA. Testa, saccheggio di Sackville Street. Croce, strage a Croke Park. Al Croker, nonostante la tensione palpabile, c’erano diecimila persone. La squadra di football gaelico di Dublino affrontava i rivali di Tipperary. Il match era cominciato da pochi minuti quando i Black and Tans irruppero sul rettangolo di gioco. Croce. I Black and Tans, le feroci forze speciali impiegate dall’esercito britannico in irlanda, aprirono il fuoco sulla folla. I giocatori fuggirono dal campo, lasciando a terra due giocatori: Jim Egan e Michael Hogan. Il primo, solo ferito, sopravvisse, mentre i colpi che crivellarono Hogan si rivelarono mortali. Tra le vittime dell’efferata violenza del vecchio nemico ci furono anche tre ragazzi di 10, 11 e 14 anni e una donna che si sarebbe dovuta sposare cinque giorni dopo, andata ad assistere alla partita con il futuro marito.

C’è da immaginarsi perché dall’alto della Hogan Stand, la curva del Croke Park dedicata al giocatore morto sul campo quel giorno, il vecchio nemico fosse tutt’altro che benvenuto. L’affronto degli inglesi aveva colpito lo spirito nazionale irlandese al cuore. Vari passi dello statuto della GAA parlano di identità nazionale e di un’Irlanda a 32 contee: sia le 26 della Repubblica sia le sei tuttora facenti parte del Regno Unito. Su quello statuto crebbero le lapidi del massacro del 1920: l’articolo 21 e l’articolo 42. L’articolo 21 vietava a chiunque fosse arruolato nelle truppe britanniche o nella polizia nordirlandese di prendere parte alle attività sportive organizzate dalla GAA. L’articolo 42 bandiva gli sport britannici dagli impianti GAA, come il Croke Park. Sport britannici come calcio e rugby. Lo sport straniero.

Quando gli inglesi si presentano sull’erba del Croke Park, l’atterraggio dello sport straniero nel maestoso stadio dublinese è già avvenuto da due settimane: una sconfitta maturata all’ultimo minuto contro la Francia, in quella che molti definiscono la finale del Sei Nazioni, di fronte a più di ottantamila spettatori. Lansdowne Road ha chiuso i battenti da poco più di un mese, l’ultimo giorno del 2006. La nazionale irlandese, senza più una casa, chiede ospitalità al Croke Park e la GAA fa passare una mozione, per 227 voti contro 97. L’articolo 42 viene temporaneamente sospeso, e lo sport straniero viene ammesso al Páirc an Chrócaigh fino al 2008. Dietro al voto, la lotta immane tra i conservatori, che vogliono mantenere gli sport gaelici esclusivo appannaggio dell’identità irlandese, e i progressisti, che si battono perché i giochi della GAA entrino nel terzo millennio, diventando a tutti gli effetti uno sport moderno.

I conservatori storcono tutti il naso quando la palla ovale si stacca dal piede di David Skrela, l’apertura francese, per decollare per la prima volta nel cielo del Croke Park, ma si mordono la lingua. Non riescono invece a trattenersi quando scoprono che gli inglesi invaderanno di nuovo il campo, armati di 22 tra i loro migliori rugbisti e dell’inno nazionale, l’odiato God Save the Queen. Gli eredi del sei volte campione d’Irlanda Joe Barrett annunciano che, in segno di protesta, ritireranno le sue medaglie dal museo del Croke Park. Il Republican Sinn Féin invece proclama una manifestazione contro God Save the Queen nei pressi dello stadio, sperando di ispirare la folla a fischiare l’inno invasore e causando il rinforzo della sicurezza di Croke Park da parte della polizia, preoccupata da eventuali tafferugli. Nel frattempo arrivano gli appelli dell’Arcivescovo di Cashel, membro del consiglio GAA, e di Eddie O’Sullivan, coach della nazionale irlandese di rugby. L’Arcivescovo spiega come sia logico che a Croke Park si debba rispettare il medesimo protocollo che si sarebbe rispettato a Lansdowne Road, mentre O’Sullivan dichiara che, come gli irlandesi esigono rispetto per il proprio inno e per la propria nazione, debbono essere i primi a mostrare quello stesso rispetto verso qualsiasi altro inno e nazione. O’Sullivan ricorda anche che God Save the Queen è stata cantata in un’occasione precedente alle Special Olympics, i giochi riservati ad atleti con disabilità intellettuale, senza causare alcuna polemica.

Il vecchio nemico ormai è sul tappeto rosso, una delle tante parti di quel protocollo pre-match così lento, studiato e snervante che caratterizza ogni partita della nazionale irlandese di rugby. Su quel tappeto, al Lansdowne Road, gli inglesi suscitarono parecchie polemiche quando, nel 2003, impedirono al Presidente della Repubblica d’Irlanda di passare, violando il protocollo ufficiale. Il Presidente è ancora lo stesso – Mary McAleese, famiglia nordirlandese – e stringe le mani dei giocatori. Prima dei 22 inglesi; poi, accompagnata da capitan Brian O’Driscoll, dei 22 irlandesi. Il protocollo prevede che la McAleese riprenda il suo posto in tribuna d’onore prima che la banda inizi con gli inni. Un protocollo di una lentezza estenuante, quasi fosse pensato per far salire la tensione e far percorrere lo stadio da un brivido: il vecchio nemico è venuto a giocare lo sport straniero sul campo della Bloody Sunday, e sta per cantare il suo inno. Qualcuno ha brividi di raccapriccio, qualcuno teme le rimostranze del Republican Sinn Féin, altri si godono il momento: la folla non fiata e gli inglesi cantano l’inno con orgoglio e convinzione. Gli irlandesi rispondono, prima con Amhrán na bhFiann, l’inno della Repubblica, poi con Ireland’s Call, l’inno della nazionale di rugby irlandese. Inno della nazionale che è riuscita a unire le 32 contee. Dopo che i verdi hanno urlato l’ultimo “We’ll answer Ireland’s call”, la storia si fa da parte e cede il passo al rugby. Gli irlandesi, quando scendono in campo, hanno sempre qualcosa da dire. I greens lasciano tutti a bocca aperta: un’intensità di gioco e una determinazione offensiva fuori dal comune li portano a stravincere: 43-13. Sono evidentemente parecchie le cose da dire stavolta, serbate per gli 80 minuti in cui i greens infliggono all’Inghilterra la sua peggiore sconfitta in 130 anni di Torneo.

LA LEGGENDA DI LANSDOWNE ROAD

I centotrentanni di storia del Lansdowne Road, lo storico stadio di rugby di Dublino, abbattuto nel 2006 per far posto a un impianto più moderno.

Lansdowne RoadIl 31 dicembre 2006, Dublino ha detto addio a un simbolo della città: il Lansdowne Road, lo stadio che ospitava le nazionali irlandesi di calcio e rugby. Uno stadio vecchio oltre 130 anni, costruito interamente in legno, quasi a dargli le sembianze di uno scrigno zeppo di aneddoti e impregnato di storia. Lo scrigno è stato raso al suolo per lasciare spazio a un più moderno all-seater, l’Aviva Stadium, sul quale si sono abbattuti gli strali degli amanti della tradizione sportiva e quelli delle commissioni edilizie, alcune delle quali sostenevano che il nuovo stadio avrebbe deturpato l’ambiente del quartiere di Ballsbridge, Dublin 4. La ristrutturazione si era fatta urgente quando nel novembre 2005 un incendio aveva reso inagibile il North Terrace la notte prima di un importante incontro tra la nazionale di rugby e i temibili All Blacks, la nazionale neozelandese. La squadra irlandese ha dato il proprio addio all’impianto con una serie di vittorie illustri contro Sudafrica, Australia e Pacific Islanders nei test-match di novembre del 2006.

Lansdowne Road ha ospitato diversi eventi di rilievo, oltre alle partite delle rappresentative nazionali di calcio e rugby e alle finali della FAI Cup, la Coppa Irlanda di calcio. Sono state disputate al Lansdowne Road le finali di Heineken Cup (la maggior competizione rugbistica europea per club) del 1999 e del 2003, e nello stadio hanno tenuto concerti artisti del calibro di U2, Oasis, Eagles e Red Hot Chili Peppers.

Bóthar Lansdún (questo il nome dell’impianto in gaelico) vanta il titolo di stadio di rugby più vecchio del mondo e apre nel 1872, quando Henry William Dunlop, proprietario di 28 ettari tra il fiume Dodder e la stazione ferroviaria di Lansdowne, fonda il Lansdowne Rugby Club. Dunlop lascia il terreno alla squadra come campo da gioco e concede ospitalità anche a una squadra di calcio, i Dublin Wanderers FC. Per rifarsi delle spese nel 1878 Dunlop affitta il campo per la prima Irlanda-Inghilterra della storia al prezzo, allora salatissimo, di 5 sterline. Ha così inizio la leggenda, continuata quando nel 1904 l’IRFU acquista l’impianto, iniziando nel 1908 a costruire il vero e proprio stadio, che oggi conta 49250 posti.

Come per ogni stadio, non sono tanto le assi di legno o i pali o le zolle del campo a rendere Lansdowne Road leggendario. Certo, la presenza dei binari della DART (la linea urbana di Dublino) che passano sotto il West Upper Stand aiuta a dare un sapore tutto particolare al tempio del rugby irlandese. Però sono le lacrime, le gocce di birra e il sudore di spettatori e giocatori a costruire la leggenda. E nel caso di Lansdowne Road sono i canti dei supporters, sempre pronti a intonare la ballata tradizionale Fields of Athenry quando la propria squadra è in difficoltà, come anche ad applaudire una bella giocata degli avversari. Per creare una leggenda ci vogliono anche dei riti, come quel protocollo ufficiale pre-partita che prevede che il Presidente della Repubblica passi su un tappeto rosso a stringere le mani dei giocatori. Nel 2003 gli inglesi impedirono alla Presidente Mary McAleese di passare sul tappeto, costringendola a camminare sull’erba. Lo stadio si alzò e intonò Fields of Athenry con orgoglio, riuscendo perfino ad intimidire gli inglesi. Per creare quel sapore epico, poi, ci sono anche quei due inni cantati l’uno a ridosso dell’altro: prima A Soldier’s Song (Amhrán na bhFiann), inno della nazione ospitante, la Repubblica Irlandese; poi Ireland’s Call, inno scritto appositamente per la nazionale di rugby, per rappresentare sia i giocatori della Repubblica, sia quelli provenienti dall’Irlanda del Nord.

Uno scrigno di aneddoti, di leggende e di storia, dicevamo. Come quando nell’agosto 1914, all’indomani della discesa in campo del Regno Unito nella Prima Guerra Mondiale, centinaia di rugbisti si ritrovarono all’interno dello stadio e decisero di arruolarsi nei Royal Dublin Fusiliers come Pals Battalion. I Pals Battalion erano uno stratagemma inventato da sir Henry Rawlinson per incoraggiare gli arruolamenti: si trattava di speciali battaglioni formati localmente, di modo che i soldati non fossero costretti a combattere a fianco di perfetti sconosciuti. O come quando nel 1927 fu costruito l’East Stand: per via di alcuni ritardi nei lavori, la copertura dello Stand non fu eretta in tempo per il match contro la Scozia, ricordato per la pioggia torrenziale in cui fu disputato.

Nel 1929, quando lo stadio non aveva ancora raggiunto la capienza odierna, Lansdowne Road accolse 40mila spettatori per una partita contro la Scozia. I quarantamila, troppi per la capienza dell’impianto, si assieparono attorno al campo, impedendo al trequarti irlandese Jack Arigho, andato in meta, di schiacciare l’ovale in mezzo ai pali: l’area di meta era invasa da spettatori in festa; nello stesso match l’arbitro Cumberledge annullò la marcatura del trequarti ala Rowland Byers, placcato in area di meta dall’estremo scozzese Tom Aitchison, per via della quantità di gente che aveva invaso il campo. Le leggende sul Lansdowne Road riguardano anche il vento impetuoso che spazza il campo, come l’aneddoto raccontato dall’apertura gallese Mike Watkins (“All’inizio della partita non capivo che stesse succedendo: le bandiere sventolavano in tutte le direzioni!”) o quello che ricorda il pilone azzurro Martin Castrogiovanni (“Le bandierine stavano piegate a terra, sembravano lottare per restare aggrappate al suolo. Dei miei amici venuti dall’Argentina non riuscirono neanche a tirare fuori uno striscione preparato per festeggiarmi, il vento gliel’avrebbe strappato dalle mani!”).

Lansdowne Road non fu la casa fissa della nazionale al Cinque Nazioni fino al 1954: gli incontri si disputavano alternativamente a Dublino e Belfast. Sabato 27 febbraio 1954: a poche ore dal match previsto all’impianto di Ravenhill, nella capitale nordirlandese, sei giocatori nordirlandesi parlano al capitano James McCarthy. “Siamo onorati di essere stati chiamati a far parte della Nazionale – dicono – ma non ce la sentiamo di entrare in campo sul suolo irlandese e sentir suonare God Save The Queen!”. In quelle poche ore si consumano disperati negoziati, fino ad arrivare al compromesso: da quella Irlanda-Scozia in poi i greens non giocano mai più in Irlanda del Nord (l’assenza della nazionale dalle six counties verrà interrotta, dopo 53 anni, questo agosto, in occasione di un test-match contro l’Italia). Lansdowne Road diventa così a tutti gli effetti la casa del rugby irlandese, tanto che l’IRFU trasferisce nello stadio i propri uffici.

Tante tradizioni che crollano, insomma, con questo impianto storico, forse il più romantico tra gli stadi di rugby. Tradizioni che non riguardano la sola palla ovale: crolla anche, infatti, la Regola 42. La Regola 42 è un articolo dello statuto della Gaelic Athletic Association, anche conosciuta con il nome irlandese di Cumann Lúthchleas Gael. La GAA è la federazione degli sport gaelici (football gaelico e hurling) e in quell’articolo vietava l’ospitalità nei suoi impianti agli sport stranieri, in particolare modo quelli inglesi, come il calcio e il rugby. Una regola che affondava le sue radici nella Bloody Sunday del 21 novembre 1920, in piena guerra di indipendenza irlandese, quando a un incontro di football gaelico tra le rappresentative di Dublino e Tipperary i Black and Tans (forze speciali dell’esercito inglese) fecero irruzione al Croke Park, lo stadio GAA di Dublino, nonché il più grande impianto sportivo di tutta Irlanda. I Black And Tans aprirono il fuoco sulla folla, macchiandosi del sangue di un giocatore e di 14 spettatori, compresi tre ragazzi di 10, 11 e 14 anni. La Regola 42 però non esiste più, seppellita proprio dalle macerie del Lansdowne Road: l’assemblea della GAA ha votato per l’abolizione dell’articolo, concedendo ospitalità provvisoria alle nazionali di calcio e rugby proprio al Croke Park. Un’altra svolta epocale per lo sport irlandese e tutto quello che rappresenta nella cultura e nella società della nazione.

L’estremo saluto allo stadio Dublino l’ha dato il pomeriggio del 31 dicembre 2006, in occasione della partita di Celtic League tra le provincie irlandesi del Leinster e dell’Ulster. I padroni di casa hanno primeggiato 20-12, grazie alle mete dell’ala Denis Hickie, del seconda linea Owen Finegan e del numero 8 Jamie Heaslip, l’ultimo a schiacciare un ovale in meta su quel manto erboso. La partita, ribattezzata dai media “The Last Stand”, ha avuto un degno contorno, grazie ad un pubblico record di 48mila spettatori che la pioggia non è riuscita a scoraggiare. La folla ha riservato al Lansdowne Road una grande festa d’addio, condita perfino nell’intervallo tra i due tempi da una proposta di matrimonio. L’ultimo dei mille aneddoti di uno stadio che non sembrava ancora stanco di raccontare storie.

ESILIO DA RAVENHILL

La storia di un esilio durato 53 anni: mezzo secolo in cui la nazionale irlandese, simbolo delle due Irlande unite, non mise mai piede nella metà del Nord.

Venerdì, 26 febbraio 1954. È la vigilia di un incontro del Cinque Nazioni tra Irlanda e Scozia. Prima edizione dall’incoronazione della regina Elisabetta. Sul treno da Dublino a Belfast, sede designata dell’incontro, sono seduti undici dei giocatori che prenderanno parte all’incontro il giorno dopo. Tra di loro il nuovo capitano della nazionale irlandese, Jim McCarthy, flanker ventottenne di Cork, che terminerà la sua carriera internazionale l’anno successivo con all’attivo 28 caps, 8 mete e la convocazione per il tour dei British & Irish Lions del 1950. Gli undici giocatori si trovano a discutere dell’insistenza dei neozelandesi nel voler far suonare God Save the Queen, poco più di un mese prima, a una partita a Lansdowne Road. Gli All Blacks avevano vinto 14-3, lasciando con quella richiesta il sangue amaro nelle vene degli Irlandesi: tematiche delicate per una federazione rugbistica che racchiude territori dipendenti da due stati sovrani diversi. Per una nazionale che scende in campo senza suonare nessun inno quando gioca fuori dal territorio della Repubblica Irlandese. Gli undici giocatori su quel vagone concordano tutti: “Quando è troppo è troppo”.

All’arrivo a Belfast McCarthy si presenta dal presidente dell’IRFU, Sarsfield Hogan. “Io e i miei giocatori non abbiamo intenzione di lasciare gli spogliatoi e allinearci con gli Scozzesi per rendere omaggio a un monarca straniero – gli annuncia, categorico – Se verrà suonato God Save the Queen, all’inno scenderanno in campo solo i quattro nordirlandesi”. Hogan suggerisce al capitano di dormirci sopra, ma al mattino dopo al Grand Central Hotel scoppia la crisi: McCarthy e i suoi non hanno cambiato idea. I membri della IRFU e gli undici ribelli si rinchiudono in una stanza dell’albergo e danno inizio a due ore di trattative, terminate solo a ridosso dell’ora stabilita per il kick-off. Quattro giocatori, i Nordirlandesi, restano all’oscuro di tutto: Anderson, Henderson, Thompson e Gregg. Per placare i sospetti dei quattro e della stampa, i partecipanti al meeting sostengono di essersi riuniti in un momento di raccoglimento per l’aggravarsi delle condizioni di Papa Pio XII. “Se solo mi aveste detto che quel pover’uomo stava così male, sarei venuto a pregare con voi”, azzarda addirittura uno dei Nordirlandesi. Questo il compromesso raggiunto dalla IRFU per evitare l’incidente diplomatico: al posto di God Save the Queen verrà eseguito il Salute, una versione abbreviata dell’inno britannico. Quella partita, vinta 6-0 dai greens grazie a due mete del trequarti ala Mortell, sarà per decenni l’ultima giocata sul suolo nordirlandese dalla nazionale del trifoglio.

Da quel giorno del 1954, per mezzo secolo i greens non visiteranno più le six counties. 53 anni, per la precisione: il 24 agosto 2007 il patto stretto tra gli uomini di McCarthy e i funzionari di Hogan fu rotto quando lo stesso stadio, il Ravenhill di Belfast, ospitò l’amichevole pre-mondiale tra Irlanda e Italia, complici i lavori di ristrutturazione del Lansdowne Road di Dublino e del Thomond Park di Limerick. Nell’occasione gli azzurri misero alle strette Brian O’Driscoll e compagni perdendo 23-20 a causa di una meta dubbia di Ronan O’Gara allo scadere, immediata risposta alla marcatura di Pratichetti che sembrava aver messo il sigillo all’incontro sul 16-20. Nel primo tempo erano andati in meta l’azzurro Troncon e il nordirlandese Andrew Trimble e gli italiani avevano chiuso in vantaggio 13-10.