INDIPENDENZA A COLPI DI PALLONE PER IL SUDAN DEL SUD

 

I festeggiamenti per l'indipendenza (AFP)

Quando il nation-building passa anche per lo sport: oggi, appena un giorno dopo la sua indipendenza, il Sudan del Sud farà esordire la propria nazionale di calcio contro la squadra kenyota del Tusker FC nel principale stadio della capitale Juba. Domani sarà poi la volta della rappresentativa di pallacanestro che difenderà per la prima volta i colori della neonata nazione in un incontro con l’Uganda. Poco importa che il campo di allenamento per il calcio sia uno spiazzo sconnesso e spesso invaso da capre affamate: Rudolf Andrea Ujika, segretario della nuova Southern Sudan Football Association, sta sognando a occhi aperti il momento storico in cui potrà ascoltare l’inno nazionale e vedere la bandiera del suo paese alzarsi nello stadio. La SSFA ha già espresso l’intenzione di entrare a far parte della CAF, la confederazione calcistica africana, e ha ottenuto la presenza sugli spalti del presidente della FIFA Joseph Blatter in sostegno simbolico agli sforzi del calcio sud sudanese. La SSFA, oltre alla nazionale allenata dal locale Malesh Soro, sta allestendo anche una rappresentativa giovanile, una under 19 e una femminile.

Fin dal referendum che – nel gennaio 2011 – aveva sancito l’indipendenza della regione i dirigenti del paese secessionista hanno sottolineato l’importanza dello sport nel creare un’identità nazionale nella quale possa riconoscersi il Sudan del Sud. Il ministro dello sport Makuac Teny ripone molte speranze in questa visione: “Quello che ci prefiggiamo è di utilizzare lo sport per far finire i conflitti. Può servire ai giovani, perché competano in partite e non più in battaglie, e ci auguriamo che possa servire a eliminare le inimicizie tra le tribù del Sudan del Sud”. Particolari aspettative sono riposte nella pallacanestro, disciplina nella quale il territorio del Sudan meridionale ha prodotto in passato diversi talenti: da Manute Bol, uno dei due uomini più alti ad aver mai giocato in NBA con 231 cm di statura, a Luol Deng, ala piccola dei Chicago Bulls e della nazionale della Gran Bretagna, paese dove la sua famiglia ha trovato asilo mentre era in fuga dalla seconda guerra civile sudanese. Vista l’impossibilità per la squadra sud sudanese di partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012, il presidente del comitato olimpico del Sudan Hashim Haroun ha proposto di dare la cittadinanza agli atleti del sud per permettere loro di prendere parte ai Giochi con la loro vecchia nazione e per “rafforzare le nostre relazioni reciproche”. I giocatori del sud, dopo anni di guerra e dipendenza dal governo di Khartoum, sembrano però più interessati all’opportunità di vestire i colori della loro nuova patria. Colori il cui peso sentono da vicino, come dimostrano le parole del cestista della nazionale Agel Ring Machar: “Mio nonno, mio padre e tutti i miei fratelli sono morti durante la guerra. Poter rappresentare il mio paese sul campo da basket è un’emozione indescrivibile. Se poi dovessimo riuscire a vincere contro l’Uganda, questo ci aiuterà a guarire”.

Damiano Benzoni

OSAMA BIN GUNNERS

Annunciata la notizia dell’uccisione del terrorista islamico Osāma bin Lāden, appassionato di calcio e tifoso dell’Arsenal.

Tutti lo conoscono come il leader di Al-Qāʿida, organizzazione terroristica responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Meno nutrita  è la schiera di coloro che sono a conoscenza del fatto che, all’epoca dell’invasione sovietica in Afghanistan, era attivo tra i mujāhidīn che beneficiarono di finanziamenti, in termini di denaro e di armi, da parte della CIA (ma Washington ha sempre smentito di averlo direttamente foraggiato). E non tutti sanno del suo tifo per l’Arsenal di Londra, tanto più che i sostenitori dei Gunners gli dedicarono un coro poco dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Nella notte è stata diffusa una notizia non proprio di poco conto: forze statunitensi hanno (avrebbero?) ucciso Osāma bin Lāden, il numero uno sulla lista dei nemici di Washington, nel suo rifugio di Abbottabad, in Pakistan.

L’incontro tra bin Lāden ed il calcio avviene in tenera età. Anzi: è, curiosamente, il pallone ad avvicinarlo al fondamentalismo islamico. Succede a Gedda, in Arabia Saudita, dove un professore siriano invita il quattordicenne Osama ed altri suoi coetanei a fermarsi a scuola nel pomeriggio, promettendo loro di farli giocare a calcio. Ma era tutta una scusa per avvicinarli all’Islam, nella sua variante più dura e violenta. Passano gli anni, bin Lāden diventa uno dei capi della neonata organizzazione terroristica Al-Qāʿida e arriva persino a ripudiare il suo paese natale, l’Arabia Saudita. Non il calcio, però.

Agli inizi del 1994 il futuro artefice degli attentati dell’11 settembre si reca a Londra, dove trascorre tre mesi: è un viaggio per reperire fondi per la sua attività terroristica.  Per affari, dunque. Ma anche per diletto. Nel corso del soggiorno nella capitale britannica, Osama si dedica infatti alla sua passione infantile: il calcio. E va a vedere alcune partite dell’Arsenal, la squadra per cui tifano anche la Regina Elisabetta e lo scrittore Nick Hornby: in particolare risulta che abbia seguito, direttamente dagli spalti della mitica tribunetta Clock End, quattro incontri di coppe europee. Quell’anno l’Arsenal alzò al cielo la Coppa delle Coppe, sconfiggendo al “Parken” di Copenhagen il Parma campione in carica grazie ad un gol di Alan Smith. Non è tutto: a quanto pare, bin Lāden andò anche in un negozio del club e acquistò una replica della mitica maglietta da gioco, rossa con maniche bianche, per uno dei suoi figli. Tra gli altri regali sarebbero figurati persino una confezione di doccia gel con l’inconfondibile logo con il cannone ed un piumone da letto con l’immagine di Nigel Winterburn, uno degli idoli di Highbury di quegli anni.

La fede Gunner del terrorista islamico, rimasto particolarmente stupito dal fanatismo degli inglesi per il calcio, rimase tuttavia sconosciuta fino a quando, con gli attentati dell’11 settembre, il mondo intero non fece la sua conoscenza. Una volta che si sparse la voce che il nemico numero degli americani era un tifoso dell’Arsenal, dagli spalti di Highbury iniziò a levarsi un coro tutto per lui:

“He’s hiding near Kabul

He loves the Arsenal

Osama

ohohohoh”.

Si scoprì, tempo dopo, che bin Lāden avrebbe partecipato ad un’operazione – poi fallita – volta a colpire al cuore le nazionali di calcio di Stati Uniti ed Inghilterra al Mondiale di Francia 98. Sarebbe questo, infatti, il motivo per cui si ricorse al piano B, ovvero l’esplosione di alcune bombe alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nell’agosto dello stesso anno.

C’è, poi, un curioso aneddoto. Nel dicembre 2001 il Dipartimento della difesa USA mostrò una videocassetta, contenente un messaggio registrato del leader di Al-Qāʿida: nel filmato si parla di un seguace dell’organizzazione che raccontò a Osama di un sogno fatto l’anno prima. “Ho visto che giocavamo a calcio contro gli americani. Quando la nostra squadra arrivava in campo, erano tutti piloti. E vincevamo noi”. Che adesso gli USA siano pervenuti al momentaneo pareggio?

LIBIA-COMORE 3-0 FRA ASSENZE CELATE E FEDELTÀ A GHEDDAFI

Può esserci ancora spazio per il calcio in un paese in cui una rivolta della società civile contro una dittatura durata 42 anni si trasforma in una guerra (civile e internazionale allo stesso tempo) in cui la fazione lealista è sostenuta da soldati mercenari mentre quella filo-democratica ha ottenuto un tardivo ma decisivo aiuto aereo da alcuni dei più moderni e sviluppati eserciti del mondo? Sembrerebbe impossibile ma è così, del resto anche nelle retrovie durante le guerre mondiali si continuò a giocare a pallone.

Certo il campionato, causa forza maggiore, si è dovuto fermare. Inoltre la Confédération Africaine de Football (CAF) ha prima posposto poi assegnato al Sudafrica il Campionato africano under 20, valido come qualificazione al Mondiale di categoria, che originariamente si sarebbe dovuto tenere proprio in Libia. I giovani calciatori nordafricani, qualificati di diritto, sono stati costretti a cedere quest’opportunità ai loro coetanei sudafricani che nelle fasi di qualificazione erano stati eliminati dal Lesotho.

Il calcio però non si è fermato del tutto, il 18 marzo, il giorno della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha imposto la no-fly zone il reporter Cristiano Tinazzi scriveva da Tripoli “È tutto come se non fosse successo niente; ieri sono andato allo stadio di Tripoli e ho visto che c’erano gli allenamenti della nazionale libica che si preparano per la Coppa d’Africa”. Il 26 marzo invece sedici ragazzi dell’under 23 libica sono arrivati in Sudafrica dove il giorno successivo hanno perso con i pari età dei Bafana Bafana per 4-2, palesando un grave ritardo di condizione.  Il 28 marzo infine sul campo neutro dello stadio 26 marzo di Bamako, capitale del Mali (che ospiterà anche il ritorno fra Libia e Sudafrica Under 23), la Libia ha sconfitto 3-0 le Isole Comore che calcisticamente equivalgono alle Fær Øer.

La Libia non è mai stata una potenza calcistica: fra le nazionali del Maghreb è sicuramente quella con meno risultati, storia e tradizione. Il calcio però è a tutti gli effetti lo sport nazionale. Mai qualificata per i Mondiali (per l’edizione del 1994 le sanzioni ONU ne impedirono la partecipazione al torneo di qualificazione) nel palmares può contare solo due apparizioni alla Coppa d’Africa.

Nell’edizione del 1982 arrivò un sorprendente secondo posto, dopo una finale persa ai rigori col Ghana. Quel torneo, organizzato in casa, non vide la partecipazione dell’Egitto che, già in polemica con la Libia sull’assegnazione, diede forfait dopo l’assassinio del presidente Sadat. Per Gheddafi fu un’ottima vetrina di visibilità e propaganda. Durante la cerimonia d’apertura inveì contro la politica francese in Sudan, accusando i “regimi fantoccio dell’Occidente” e più in generale contro l’imperialismo americano, nel tentativo, poi miseramente fallito, di porsi alla guida di un movimento pan-africanista.

Nel 2014 la Coppa d’Africa dovrebbe tornare in Libia e quasi sicuramente Gheddafi non potrà bissare i suoi oceanici discorsi. Il progetto avrebbe previsto il rinnovo degli stadi 28 marzo di Bengasi e 11 giugno di Tripoli, nonché la costruzione di due impianti nuovi a Tripoli e di uno a Misurata. Molto dipenderà dai danni provocati dalle bombe e dalla lunghezza della guerra, tuttavia la Coppa d’Africa del 2014 potrebbe essere la vetrina per il nuovo Maghreb democratizzato.

La nazionale libica allenata dal brasiliano Marcos Paquetá, che in passato ha vinto col Brasile il Mondiale under 17 e quello under 20 e in seguito ha gestito l’Arabia Saudita dal 2005 al 2007, sembra aver trovato una sua dimensione. Prima della guerra il progetto di Paquetá era stato costruito in funzione della qualificazione al mondiale del 2014. Nelle ultime delle quattro partite finora disputate dall’allenatore brasiliano la Libia è stata imbattuta.

Interessanti sembrano i nuovi innesti provenienti dall’estero come il mediano Djamal Mahamat che gioca da 10 anni in Portogallo o l’attaccante Eamon Zayed che, nato in Irlanda da padre libico e madre tunisina, dopo qualche esperienza nelle giovanili irlandesi, ha colto l’opportunità di giocare a livello internazionale con la Libia. La stella della squadra resta comunque il talentuoso trentunenne amante del dribbling Ahmed Sa’ad nato a Bengasi che gioca a Tripoli con l’Al Ahly e che con un gran goal in semi-rovesciata ha deciso la sfida contro lo Zambia.

La partita del 28 è stata la terza del girone di qualificazione alla Coppa d’Africa in cui la Libia è in testa con 7 punti frutto del pareggio col Mozambico per zero a zero e delle vittorie con la Zambia e con le Comore. Fra la partita con lo Zambia e quella con le Comore c’era stato anche il tempo per due successi in amichevole: il 4-1 ai rigori con il Niger e il 3-2 con il Benin.

Il silenzio che circondava la partita con le Comore è stato rotto dall’intervista dell’allenatore Paquetà alla vigilia dell’incontro. Il coach brasiliano, che era fuggito da Tripoli il 23 febbraio e passando per l’Italia era tornato a San Paolo in Brasile, ha raggiunto la Tunisia dove si è tenuto un raduno di fortuna della nazionale. Il giorno prima dell’incontro il tecnico brasiliano ha dichiarato alla stampa di non aver avuto nell’ultimo periodo alcun contatto con Saadi Gheddafi, aggiungendo che avrebbe dovuto fare un importante lavoro psicologico con i suoi giocatori e che si augurava di avere con sé anche i calciatori di Bengasi.

Dal punto di vista politico la partita con le Comore ha dimostrato quanto in Africa Gheddafi possa avere ancora molti alleati. Il Mali è un paese sostenitore del Rais; malgrado le proteste interne della società civile maliana, ha infatti concesso alla nazionale libica lo stadio di Bamako in cui i 20.000 presenti hanno  sostenuto apertamente i calciatori nordafricani inneggiando anche al colonnello. Inoltre anche il presidente delle Comore, Ahmed Abdallah Mohamed Sambi, è un amico personale di Gheddafi tanto che alcuni soldati libici fanno parte della guardia presidenziale delle Comore.

Nonostante le difficoltà logistiche la nazionale libica di Paquetà ha vinto facilmente sulle Comore per 3 a 0 grazie alle reti di Walid Elkhatroushi, Ahmed Wafa e Abdallah Mohamed, curiosamente nessuno di questi tre giocatori era stato utilizzato nelle prime due partite di qualificazione. Pare che ben sette giocatori che si trovano in Cirenaica non abbiano voluto o potuto raggiungere la squadra.

Il capitano libico per questo incontro:  Tariq Ibrahim al-Tayib (anche lui non utilizzato nelle prime due partite di qualificazione) si è dichiarato commosso per il sostegno dei maliani ed ha rilasciato dichiarazioni lealiste affermando che “tutta la squadra sta con Gheddafi”. Ciò dimostra, non tanto il consenso (troppe volte in passato le dichiarazioni di atleti sono state fatte sotto ricatto), ma soprattutto la forza che il Rais ha ancora, quantomeno a Tripoli.

Del resto come scrive James Dorsey autore di un interessante blog sul calcio nel mondo arabo, i calciatori libici, grazie al governo, hanno spesso goduto di uno status privilegiato; il sostegno di almeno una parte della squadra, risponde anche alle dinamiche paternalistiche messe in atto dal dittatore libico nei confronti della nazionale di calcio.

Nonostante la visibilità internazionale di questo incontro le informazioni reperibili sembrano essere vaghe e filtrate, tanto che alla chiusura dell’articolo trovare un tabellino dell’incontro risulta un’impresa pressoché impossibile.

Tuttavia il calcio non sembra essere solamente uno strumento favorevole al regime e alla sua propaganda. Mustafa Abdel Jalil, un ex attaccante della nazionale, è diventato uno dei leader della rivolta contro il regime di Gheddafi. Come molti altri membri della nuova opposizione anche Jalil era un esponente del gabinetto di Gheddafi e uno dei pochi che, prima delle proteste, poteva permettersi di criticare pubblicamente il Rais in virtù della propria fama.

QUANDO LO SPORT HA FATTO L’ITALIA

Oggi si festeggiano i 150 anni dell’unità nazionale: un secolo e mezzo di storia in cui lo sport ha scritto pagine importanti.

A 150 anni di distanza dalla data simbolica scelta per celebrare l’unità d’Italia possiamo con certezza affermare che lo sport non è stato un fattore neutrale, ma ha contribuito costantemente nel definire e ridefinire l’identità italiana. Del resto siamo il paese in cui il quotidiano più venduto è la Gazzetta dello Sport e l’inno di Mameli e il tricolore sono suonati e sventolati principalmente in occasione di eventi sportivi.

Quali sono stati nel corso della storia i 10 momenti più significativi per l’identità italiana? Ecco una personalissima classifica tenendo conto delle diverse discipline e delle differenti epoche storiche.

 

10 L’ITALIA VINCE LA COPPA DAVIS IN CILE (1976)

Grazie a una generazione d’oro rappresentata da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Antonio Zugarelli e Adriano Panatta, il tennis italiano da sport borghese diventa popolare. Panatta, il D’Artagnan fra i moschettieri azzurri, quell’anno vinse anche gli internazionali di Roma e il Rolland Garros.

Fino alla finale, conquistata sconfiggendo la Yugoslavia, la Svezia, il Regno Unito e l’Australia, il cammino degli azzurri è un’apoteosi; il gota del tennis mondiale si deve inchinare agli alfieri azzurri. Il rivale della finale però crea maggiori problemi dal punto di vista politico che non sportivo. Il Cile di Fillol e Cornejo non fa paura ma pone la questione sull’opportunità di giocare in un paese con cui si sono rotte le relazioni diplomatiche e a pochi metri di distanza da uno stadio usato fino a poco tempo prima come campo di concentramento dal regime di Pinochet.

La società civile si mobilita per chiedere il boicottaggio, il Coni e la Fit si muovono nell’ombra per non perdere una vittoria certa, mentre il governo temporeggia difendendosi dietro lo slogan dell’indipendenza dello sport dalla politica. Alla fine gli azzurri vanno in Cile dove vincono facilmente, ma vengono boicottati da parte della stampa tanto che la provocatoria maglietta rossa indossata da Panatta e Bertolucci nella prima parte del doppio non viene neppure citata nei principali quotidiani sportivi. Il trionfo di Santiago 1976 rappresenta allo stesso tempo l’apice del tennis italiano, ma anche uno dei principali momenti in cui le implicazioni politiche veicolate dallo sport hanno provocato la reazione dell’opinione pubblica.

 

9 I DUE ORI DI ALBERTO TOMBA ALLE OLIMPIADI DI CALGARY (1988)

L’anno precedente aveva vinto un bronzo ai mondiali ma alle Olimpiadi di Calgary Alberto Tomba fece un capolavoro conquistando due ori. Il 25 febbraio sfruttando al meglio il pettorale numero 1 vinse lo slalom gigante con un vantaggio abissale su Strolz e Zurbriggen; due giorni dopo conquistò in rimonta anche lo slalom speciale. In quell’occasione l’Italia intera, Festival di Sanremo compreso, si fermò per accompagnare la discesa di Albertone.

Le vittorie di questo ragazzo degli Appennini cancellarono la credenza per cui  solamente gli abitanti delle valli alpine potevano eccellere in questa disciplina. La saga di “Tomba la Bomba”, che smise ben presto di partecipare ai super giganti e alle discese libere perché “la mamma non vuole”, continuò per tutti gli anni Novanta. Arrivarono altre tre medaglie olimpiche e altrettante mondiali, quattro coppe di specialità, sia in gigante sia nello speciale, e soprattutto la coppa del mondo del 1995.

Più ancora dei trionfi di Zeno Colò e Gustav Thöni  furono soprattutto quelli di Tomba che permisero allo sci di uscire dalle Alpi, diventando in tutto e per tutto lo sport per eccellenza delle vacanze natalizie degli italiani.

 

8 IL MONDIALE DI CALCIO IN GERMANIA (2006)

La vittoria del Mondiale di calcio del 2006 è un fulmine a ciel sereno, una saettata d’orgoglio nazionale: inaspettata, intensa e fugace. Sono passati 5 anni e sembra già un’eternità.

L’Italia calcistica si era trovata nel pieno dello scandalo di corruzione ribattezzato Calciopoli; quella politica si appoggiava sul voto dei senatori a vita per poter legiferare. La vittoria è il trionfo dello stereotipo calcistico italiano costruito su una grande difesa e in cui a risultare decisivi non sono i campioni più attesi (Totti, Del Piero, Toni, Gilardino) bensì i gregari e le seconde linee (Grosso e Materazzi).

Dal punto di vista dell’identità nazionale la vittoria del mondiale appare per alcuni mesi una speranza di rinascita, ancor più perché le vittorie decisive giungono contro Francia e Germania, due paesi verso cui il gap economico tende ad allargarsi, ma non è che un’illusione poiché anche il calcio, nel quinquennio successivo seguirà il declino del paese. Senza un’adeguata programmazione e un investimento sui vivai, il futuro dell’Italia (non solo calcistica) difficilmente potrà essere roseo.

 

7 IL TITOLO MONDIALE DI PRIMO CARNERA (1933)

Primo Carnera è l’atleta che prima di ogni altro ha contribuito al successo del pugilato in Italia. Iniziò la carriera come fenomeno da baraccone funzionale alle esigenze della malavita italo-americana. Col tempo però affinò la tecnica e divenne un ottimo pugile. Grazie alle vittorie su Uzkudum e Schaaf (che morì 4 giorni dopo il combattimento per la somma dei pugni subiti da Carnera e Baer) Carnera smise di essere un simbolo solo per gli italo-americani e venne adottato anche dal regime fascista. Nel 1933 raggiunse l’apice della propria carriera quando sfidò Jack Sharkey al Madison Square Garden per il mondiale, mettendo K.O. il pugile americano alla sesta ripresa, conquistando così il titolo.

Carnera mantenne la corona contro Uzducum ma nel 1934, dopo la sconfitta con Baer, iniziò la sua parabola discendente. Per volere del regime fascista, che aveva scelto il pugile per autorappresentarsi, i giornali ne oscurarono il declino fino a farlo cadere nell’oblio.

Il gigante buono e ingenuo, raggirato dai manager e strumentalizzato dal regime, resta però il capostipite di una tradizione pugilistica italiana che ha prodotto campioni come Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Roberto Cammarelle.

 

6 IL RECORD DEL MONDO DI MENNEA (1979)

Nonostante dei riflessi alla partenza non certo felini e uno stile di corsa giudicata dai puristi brutto, sgraziato e rigido, Pietro Mennea da Barletta, con la sua progressione di corsa inimitabile, è stato il più grande atleta italiano che abbia calpestato le piste d’atletica. Professionista dell’allenamento nel quale si sottoponeva con carichi di lavoro impressionanti, Mennea incarnava la rabbia di un sud Italia povero di infrastrutture ma dalla grande passione sportiva.

Il 12 settembre 1979 alle Universiadi di Città del Messico vinse i 200 metri in 19’’72, un record del mondo che resistette per ben 17 anni quando fu superato da un altro grandissimo della disciplina, Michael Johnson. Mennea certificò quel record aggiudicandosi l’oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980.

Il piccolo velocista bianco capace di competere alla pari con i fenomeni americani oltre a tre medaglie olimpiche, due mondiali e 6 europee, non solo è un pluri-laureato, euro-parlamentare e avvocato di successo, ma probabilmente è stato uno dei grandi dirigenti sportivi mancati del nostro paese.

 

5 LE OLIMPIADI DI ROMA (1960)

Dopo le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 quelle di Roma del 1960 (assegnate nel 1965) certificano la ritrovata credibilità dell’Italia all’interno della comunità internazionale.

Le Olimpiadi italiane giungono nel pieno del boom economico, mostrano la grandezza architettonica di Pierluigi Nervi e, sfruttando preparati dirigenti e tecnici sportivi (alcuni dei quali nostalgici del regime), portano un bottino di  36 medaglie (13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo). Fra esse brillano quelle di Livio Berruti sui 200 metri, Musso – Benvenuti – de Piccoli nella boxe, del settebello, Delfino nella spada e le sette nel ciclismo.

Anche se le Olimpiadi sono segnate dalla morte del ciclista Enemark Jensen, notizia sostanzialmente taciuta e censurata dalla stampa italiana, l’“Olimpiade dal volto umano” impressiona gli osservatori stranieri per l’efficienza messa in campo da un paese troppo spesso sottovalutato.

 

4 LA TRAGEDIA DEL SUPERGA (1949)

Il 4 maggio del 1949 è una data maledetta. Il trimotore Fiat G 212 di ritorno da Lisbona alle 17.03 si schianta contro il colle che ospita la Basilica di Superga, non ci sono sopravvissuti. Fra le 31 vittime 18 sono calciatori del Torino: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert. Centinaia di migliaia di persone vollero omaggiare quella squadra a cui fu assegnato il 5° scudetto. Un anno più tardi la nazionale di calcio, piuttosto che prendere l’aero, affrontò una lunghissima trasferta in nave.

Dopo la distruzione causata dalla guerra e dall’oppressione del ventennio fascista, dal 1946 a quella luttuosa giornata il “Grande Torino”, con il suo gioco spumeggiante e i suoi successi, aveva incarnato i desideri di rinascita degli italiani.

Lo schianto del 1949 privò il calcio italiano della sua gioventù migliore. Montanelli scrisse: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta»

 

3 LA MARATONA DI DORANDO PIETRI (1908)

Il 24 luglio 1908 si disputa la maratona, gara principale delle Olimpiadi di Londra del 1908; fra i partecipanti c’è un baffuto corridore di Carpi che di mestiere fa il garzone. A dispetto dei pronostici quando entra nel White City Stadium si ritrova con un vantaggio abissale sui rivali e la folla lo accoglie con un’ovazione. Dorando Pietri però non corre più, ciondola accecato dalla stricnina (sostanza allora presa comunemente da tutti i corridori) e prende la direzione sbagliata collassando a terra più volte. Incitato dalla folla e sorretto da un megafonista e da un medico, impiega 10 minuti a compiere gli ultimi metri e dopo aver tagliato la linea del traguardo crolla a terra. L’aiuto ricevuto gli costa la squalifica ma quando l’indomani riprese conoscenza fu ricoperto di elogi, fiori e regali fra cui quello della Regina Alessandra che, poiché non era stato responsabile della propria squalifica, lo omaggiò con una coppa piena di sterline.

La stampa italiana diede per la prima volta grande risalto all’evento e il carpigiano, autore di un’impresa che neppure i giudici poterono cancellare, divenne così la prima leggenda, celebrata tutt’oggi, dello sport italiano.

 

2 IL MONDIALE DI SPAGNA (1982)

Mettiamo da una parte l’immagine di Mussolini che pontifica il successo (con annesso saluto romano) della nazionale italiana ai Mondiali del 1934 (poi ripetuto nel 1938 e alle Olimpiadi del 1936) e dall’altra il presidente della repubblica Sandro Petrini che, dopo aver celebrato il successo azzurro, gioca a scopa con Zoff, Causio e Bearzot; la differenza fra i successi degli anni ‘30 e quello degli anni ‘80 sta tutta qui.

Anche la modalità con cui venne raggiunto questo successo contribuisce ad accrescere il mito del Mondiale dell’82. Dopo un quadriennio di critiche e una qualificazione alla seconda fase ottenuta da tre striminziti pareggi, la squadra italiana fece quadrato, dichiarando il silenzio stampa, e da brutto anatroccolo si trasformò in un cigno. Grazie ai goal di Paolo Rossi e alle serpentine di Bruno Conti l’Italia si laureò per la terza volta campione del mondo, sconfiggendo nell’ordine: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. La vittoria calcistica e il triplice “campioni del mondo” urlato dal telecronista Nando Martellini certificarono la fine della crisi degli anni Settanta e l’inizio di una stagione di benessere diffuso, basato sul debito, e incarnato dalla “Milano da bere”.

 

1 GINO BARTALI CHE VINCENDO IL TOUR “SALVA” L’ITALIA DALLA GUERRA CIVILE (1948)

Bartali, come Carnera, è stato uno di quei simboli sportivi che il fascismo aveva fatto propri. Ginettaccio però, vicino all’Azione Cattolica, non sostenne mai, neppure simbolicamente il partito fascista, evitando di posare in camicia nera o di prestarsi al saluto romano. Nel 1938, quando vinse il suo primo Tour de France, venne ampiamente strumentalizzato dal regime fascista.

La guerra privò Bartali dei suoi anni migliori ma portò in Italia la democrazia. Il dopoguerra di Ginettaccio fu segnato dal rifiuto di candidarsi con la DC, dalla rivalità (più nell’immaginario collettivo che non nella realtà) con Fausto Coppi e da un sogno: rivincere il Tour de France a 10 anni di distanza. “È troppo vecchio” dissero in tanti, ma le critiche aprioristiche non fecero altro che caricare la cattiveria agonistica del testardo campione toscano.

Nell’aprile del 1948 si erano tenute le prime elezioni della Repubblica italiana, vinte dalla Democrazia Cristiana ma le tensioni interne e internazionali contribuivano ad accrescere il clima di divisione in seno al paese. Gino partì alla volta del Tour, accordandosi con Binda, suo “direttore sportivo”, per una partenza lenta volta a far credere che Bartali fosse fuori forma. Irritato per la poca considerazione nei suoi confronti e accusato da alcuni ciclisti di essere troppo vecchio, Gino andò a vincere la prima tappa facendo infuriare Binda. Dopo questa “bravata iniziale” Bartali seguì le direttive del suo stratega per far sì che i rivali, Bobet e Robic, si scannassero fra di loro. Dopo aver accumulato nelle prime tappe un ritardo di 20 minuti il campione toscano conquistò due importanti successi a Lourdes e a Tolosa, ma il 13 luglio, complice una foratura, finì vittima di una trappola ordita dai francesi che si allearono “fregandolo come un bischero” e ricacciandolo nuovamente a più di 20 minuti di ritardo.

Il giorno successivo era previsto riposo e, mentre Bartali rimuginava sulla tappa di Cannes, a Roma Antonio Pallante scaricò quattro colpi di rivoltella sul segretario del PCI Palmiro Togliatti, che, tifoso di Bartali, nei giorni precedenti si era personalmente assicurato che l’Unità sostenesse il ciclista toscano al di là dello stereotipo secondo cui la rivalità Coppi/Bartali fosse anche politica. Con Togliatti in fin di vita, le piazze si  riempirono e la Cigl proclamò lo sciopero generale. Non appena la notizia di un pericolo rivoluzionario arrivò a Cannes, i giornalisti italiani lasciarono il Tour e i gregari di Bartali, preoccupati per le loro famiglie, spinsero a fare altrettanto. Il toscanaccio era ormai convinto di aver perso il suo sogno di poter rivincere il Tour quando arrivò una telefonata di Alcide de Gasperi che chiese: «Pensi di poter vincere ancora il Tour? Sai, sarebbe importante. Non soltanto per te». Il giorno successivo Bartali fece l’impresa scalando in modo imperioso l’Izoard e recuperando quasi tutto il distacco su Bobet. Il 16 luglio era nuovamente in maglia gialla che portò orgogliosamente fino a Parigi.

Togliatti, che nel frattempo si era ripreso, dall’ospedale predicò la calma contribuendo in modo decisivo a smorzare il clima di guerra civile, ma chiese anche notizie di Bartali al Tour. La retorica cattolica non poteva certo concedere al proprio rivale politico il merito di aver salvato la democrazia dalla guerra civile; Bartali era un simbolo molto più adatto e per di più era amato, nonostante i niet dogmatici, anche a sinistra. Fu così che man mano che la minaccia rivoluzionaria retrocedeva, il mito di Bartali come salvatore della patria prese forma e si cristallizzò come leggenda nella storia italiana.

Articolo scritto per www.thepostinternazionale.it e pubblicato anche per www.pianeta-sport.net e www.centrostudiconi.it
(Le citazioni su Bartali sono tratte da Turrini, Bartali, L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano, Mondadori, 2004 e Facchinetti, Bartali e Togliatti, Roma, Campagna Editoriale, 1981)

LA TERRA TREMA, IL CALCIO SI FERMA

Annullate in Giappone per tutto il mese di marzo le partite della J.League a seguito del terribile terremoto.

Ventidue ragazzi corrono dietro ad un pallone da calcio, in Giappone, su un campo dalla morfologia bizzarra, quasi fosse una collina. La loro partita viene trasmessa in diretta tv nazionale, con un appassionato telecronista a raccontare le loro gesta. Una squadra, proveniente dalla città di Fujisawa, schiera i due più grandi talenti del calcio nipponico: il primo, Genzo Wakabayashi, è un portiere dalle doti straordinarie, pressoché imbattibile nei tiri dalla distanza; il secondo, Tsubasa Ozora, è un attaccante eclettico dalle maniere gentili e dal carisma innato. Il calcio è, prima di tutto, un gioco, un divertimento. E, sovente, ripete a compagni di squadra ed avversari: “Il pallone è tuo amico”.

Ma la realtà odierna del Giappone non è il quadro idilliaco e gioioso che Yoichi Takasahi aveva disegnato nel suo popolarissimo manga, poi divenuto un cartone animato di successo sbarcato in Italia con il nome di “Holly e Benji”. Il pallone è amico dei bambini, eppure ha smesso di rotolare dopo la tragedia che venerdì 11 marzo ha colpito il paese del Sol Levante. Due minuti e una scossa di terremoto di 9 gradi della scala Richter – cui fa seguito un terrificante tsunami – devasta un’intera nazione: oltre 10mila le vittime (stimate) del movimento tellurico, il quarto più forte di sempre nella storia dell’umanità. Un dramma che non risparmia nemmeno il calcio, la cui stagione è ripartita da appena una settimana.

Tutto inizia alle 14.56 di venerdì (in Italia sono solamente le 6.56): nell’Oceano Pacifico, 130 km a largo di Sendai, città che ospitò il ritiro della nazionale italiana di calcio ai Mondiali nippocoreani, la terra trema. Eccome se trema: 9 gradi della scala Richter. Due minuti di scosse, un’infinità per quanti vedono i mobili cadere improvvisamente al suolo e le pareti degli edifici oscillare. Ma l’apocalisse è appena iniziata. Segue una sessantina di scosse di assestamento a Tōkyō e nelle prefetture bagnate dal Pacifico. E, soprattutto, il terremoto genera uno tsunami da film catastrofista: le onde raggiungono ben presto la mostruosa altezza di dieci metri, sbriciolando gli edifici di alcune città della costa nord-orientale. I danni maggiori si registrano a Sendai, dove l’aeroporto viene invaso dalle acque e dove centinaia di cadaveri vengono ritrovati sulla spiaggia. La capitale, invece, va in black-out: i treni metropolitani si bloccano, l’energia elettrica inizia a scarseggiare, la rete telefonica isola la popolazione. E poi c’è la prefettura di Fukushima, dove crolla una diga e dove si verifica un’esplosione alla centrale nucleare dell’omonima città: qualcuno paventa il rischio di pioggia radioattiva. Di pioggia sporca, come il titolo del film che Ridley Scott girò – guarda caso – ad Ōsaka, in un Giappone ormai invaso dal consumismo di massa dell’America degli yuppies. Ma c’è anche chi cerca di sgombrare il campo dai falsi allarmismi e di tranquillizzare l’opinione pubblica, perché la situazione, in fondo, è sotto controllo.

Anche il mondo dello sport rimane bruscamente coinvolto e con un breve comunicato la JFA, la Federcalcio nipponica, dirama la notizia che tutte le partite della J. League della seconda giornata, in programma nel fine-settimana, sono annullate. E non è un semplice atto doveroso verso il proprio paese che piange la morte dei suoi figli: alcune squadre sono diventate vere e proprie vittime del terremoto. Come il Vegalta Sendai, squadra del massimo campionato in cui gioca l’ex sampdoriano e messinese Atsushi Yanagisawa: il presidente Shirahata Yoichi comunica a Kazumi Ohigashi, numero della Federcalcio, che lo stadio e le strutture per gli allenamenti sono andati distrutti. I giocatori stranieri – i brasiliani Marquinhos e Max ed i sudcoreani Cho Byung-Kuk e Park Joo-Sung – tornano a casa, i giapponesi provenienti da altre regioni li seguono e raggiungono i rispettivi familiari. Nessuno vuol restare a Sendai.

Passano tre giorni: i morti non accennano a diminuire. Tutt’altro. È una strage. La JFA annuncia un’altra notizia: tutte le partite in programma nell’intero mese di marzo sono cancellate e rinviate a data da destinarsi. Probabilmente a luglio, quando la nazionale di Alberto Zaccheroni – pure lui rientrato in Italia dopo aver toccato con mano i danni del terremoto nel suo appartamento di Tōkyō – sarà impegnata nella Coppa America. Anche la AFC, il massimo organo calcistico continentale, annulla tutte le partite della Champions League asiatica previste sul suolo giapponese: tra queste c’è anche l’attesa sfida tra il Kashima Antlers, la più titolata tra le squadre della J.League, e gli australiani del Sydney FC. Kashima è una città medio-piccola inglobata nella Grande area della capitale: al pari di molte altre, non è rimasta estranea ai movimenti della crosta terrestre nell’Oceano Pacifico. Anche il primo turno della Yamazaki Nabisco Cup, la coppa nazionale, viene rinviato: il calcio d’inizio era previsto per domani. E adesso sono in forte dubbio anche le già pianificate amichevoli di fine mese contro Montenegro e Nuova Zelanda, in programma a Shizuoka e a Tōkyō.

Ma non è solo il calcio a bloccarsi: nella giornata di venerdì, a Yokohama, viene sospesa al settimo inning la sfida di baseball tra Bay Stars e Yakult Swallows. Daisuke Miura, stella della squadra di casa, ed alcuni compagni di squadra non riescono a rientrare a casa, tanto è il traffico che ingorga le strade della Grande area di Tōkyō: trascorrono la notte allo stadio. A Yokohama, poi, identica sorte tocca ad una competizione di golf riservata alle donne: la Tire PRGR Ladies Cup, iniziata il giorno dell’apocalisse, si ferma subito. La prefettura di Fukushima, quella dove si è verificata l’esplosione nella centrale nucleare, avrebbe dovuto ospitare le finali scudetto dell’Asia League di hockey su ghiaccio: non se ne fa di niente. Saltano anche boxe, corse automobilistiche, pallacanestro, persino la maratona internazionale femminile di Nagoya: l’ultimo precedente risale al gennaio 1995, quando la terra si aprì a Kōbe e inghiottì oltre 6mila vittime. All’epoca la J.League, nata solamente due anni prima, non si fermò: il Vissel, squadra della città colpita dal terremoto, disputò qualche mese più tardi un’amichevole a scopo benefico a Seattle – prima squadra nipponica a giocare in territorio americano – e a Tōkyō andò in scena un’altra partita, tra due selezioni miste, per ricordare le vittime di Kōbe. C’è, tuttavia, un’inquietante analogia: nell’autunno del 1923 il campionato nazionale di calcio, riservato a scuole ed università e giunto appena alla sua terza stagione, viene annullato e rinviato al febbraio successivo. Alla base della decisione il grande terremoto del Kantō che il 1° settembre fece crollare il suolo nella capitale e nelle prefetture di Chiba, Kanagawa e Shizuoka: le vittime stimate furono 142mila. La scossa più devastante nella storia del Giappone. Fino allo scorso venerdì.