INDIPENDENZA A COLPI DI PALLONE PER IL SUDAN DEL SUD

 

I festeggiamenti per l'indipendenza (AFP)

Quando il nation-building passa anche per lo sport: oggi, appena un giorno dopo la sua indipendenza, il Sudan del Sud farà esordire la propria nazionale di calcio contro la squadra kenyota del Tusker FC nel principale stadio della capitale Juba. Domani sarà poi la volta della rappresentativa di pallacanestro che difenderà per la prima volta i colori della neonata nazione in un incontro con l’Uganda. Poco importa che il campo di allenamento per il calcio sia uno spiazzo sconnesso e spesso invaso da capre affamate: Rudolf Andrea Ujika, segretario della nuova Southern Sudan Football Association, sta sognando a occhi aperti il momento storico in cui potrà ascoltare l’inno nazionale e vedere la bandiera del suo paese alzarsi nello stadio. La SSFA ha già espresso l’intenzione di entrare a far parte della CAF, la confederazione calcistica africana, e ha ottenuto la presenza sugli spalti del presidente della FIFA Joseph Blatter in sostegno simbolico agli sforzi del calcio sud sudanese. La SSFA, oltre alla nazionale allenata dal locale Malesh Soro, sta allestendo anche una rappresentativa giovanile, una under 19 e una femminile.

Fin dal referendum che – nel gennaio 2011 – aveva sancito l’indipendenza della regione i dirigenti del paese secessionista hanno sottolineato l’importanza dello sport nel creare un’identità nazionale nella quale possa riconoscersi il Sudan del Sud. Il ministro dello sport Makuac Teny ripone molte speranze in questa visione: “Quello che ci prefiggiamo è di utilizzare lo sport per far finire i conflitti. Può servire ai giovani, perché competano in partite e non più in battaglie, e ci auguriamo che possa servire a eliminare le inimicizie tra le tribù del Sudan del Sud”. Particolari aspettative sono riposte nella pallacanestro, disciplina nella quale il territorio del Sudan meridionale ha prodotto in passato diversi talenti: da Manute Bol, uno dei due uomini più alti ad aver mai giocato in NBA con 231 cm di statura, a Luol Deng, ala piccola dei Chicago Bulls e della nazionale della Gran Bretagna, paese dove la sua famiglia ha trovato asilo mentre era in fuga dalla seconda guerra civile sudanese. Vista l’impossibilità per la squadra sud sudanese di partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012, il presidente del comitato olimpico del Sudan Hashim Haroun ha proposto di dare la cittadinanza agli atleti del sud per permettere loro di prendere parte ai Giochi con la loro vecchia nazione e per “rafforzare le nostre relazioni reciproche”. I giocatori del sud, dopo anni di guerra e dipendenza dal governo di Khartoum, sembrano però più interessati all’opportunità di vestire i colori della loro nuova patria. Colori il cui peso sentono da vicino, come dimostrano le parole del cestista della nazionale Agel Ring Machar: “Mio nonno, mio padre e tutti i miei fratelli sono morti durante la guerra. Poter rappresentare il mio paese sul campo da basket è un’emozione indescrivibile. Se poi dovessimo riuscire a vincere contro l’Uganda, questo ci aiuterà a guarire”.

Damiano Benzoni

AMERICA SOTTO SMACCO

Esattamente cinque anni il Maccabi Tel Aviv divenne la prima squadra europea di basket a sconfiggere una formazione NBA sul suolo americano.

No, gli Stati Uniti proprio non volevano saperne di ammettere di essere stati sconfitti dai “pivellini” europei. 8 settembre 1978: a Tel Aviv il Maccabi disputa un’amichevole contro i Washington Bullets, vincitori del loro primo – e, finora, unico – titolo NBA. Dick Motta, artefice del miracolo, porta in Israele appena nove giocatori, comprese le stelle Elvin Hayes e Wes Unseld. Ma i campioni americani sono fuori forma e con la testa ancora in vacanza: il raduno inizierà solamente tra un mese. I mediorientali intuiscono che può essere il momento propizio per scrivere una pagina di storia. E così è: Miki Berkovich, indiscusso trascinatore del Maccabi e della nazionale, segna da solo 26 punti. E contribuisce ad una clamorosa vittoria per 98-97. L’Europa batte l’America. O, data la nazionalità del Maccabi, David affossa Golia. Ma l’America non riconosce l’impresa compiuta dagli israeliani, che negli anni immediatamente successivi ottengono altri tre successi contro una selezione NBA, i New Jersey Nets ed i Phoenix Suns. Le amichevoli, però, si sono giocate nel mese di agosto: per il massimo organo cestistico d’oltreoceano le vittorie sono dunque da invalidare. Un boicottaggio che prosegue sino al 1987, anno di istituzione del McDonald’s Open, triangolare prima e quadrangolare poi che manda in pensione la Coppa Intercontinentale. Qui le squadre NBA, forse per la compartecipazione della Federbasket mondiale alla creazione dell’evento, non accettano semplicemente di confrontarsi ancora con avversari del Vecchio Continente: da questo momento, infatti, i confronti tra Europa e America acquisiscono il valore dell’ufficialità. Nello stesso anno la nazionale dell’URSS sconfigge, in amichevole, gli Atlanta Hawks con un pazzesco 132-123. Che facciamo, la riconosciamo? “No, non ancora. Il confronto è impari, è una nazionale opposta ad una franchigia NBA” bofonchiano dall’altra estremità dell’Atlantico. Le prime europee a sfiorare, questa volta sì, l’impresa sono le italiane: la Tracer Milano dà il via ai confronti ufficiali sull’asse America-Europa e la Scavolini Pesaro si arrende soltanto ai supplementari ai Knicks nel corso della quarta edizione del Mc Donald’s Open. Passano quattordici anni e la Benetton Treviso rischia un colpo ancor più grosso, perdendo 86-83 all’Air Canada Centre di Toronto contro i Raptors. La lacuna sembra ormai colmata.

17 ottobre 2005. Stesso scenario, stesso avversario. L’Europa lancia ancora il guanto di sfida ai Raptors e nella circostanza si affida alla vincitrice dell’Eurolega, il Maccabi Tel Aviv, seguito sugli spalti dell’arena canadese dalla numerosa comunità ebrea. Per quanto sia un’amichevole, il coach americano Sam Mitchell non vuol passare per il buon samaritano e fin da subito schiera Chris Bosh, Morris Peterson e Jalen Rose, i giocatori più talentuosi della sua squadra. Pini Gershon replica con un dispiegamento di forze tutt’altro che inferiore: Nikola Vujčić, Anthony Parker e l’ex di turno Maceo Baston sono della partita già dal primo minuto.
La trama dell’amichevole è paragonabile a quei libri gialli in cui nelle pagine iniziali si deduce già il nome dell’assassino, perché i Raptors mantengono sempre la situazione a proprio vantaggio e chiudono il primo quarto avanti per 24-20. Il Maccabi non abbassa la guardia e, anzi, durante il successivo parziale pareggia temporaneamente con una schiacchiata di Anthony Parker. I canadesi riordinano presto le loro idee: nella seconda metà del quarto segnano diciassette punti, concedendone appena sette, e arrivano così all’intervallo lungo con dieci lunghezze di vantaggio (56-46).

In America, esattamente in occasione del titolo NBA di Washington di ventisette anni prima, fu coniata una massima divenuta assai presto di uso comune: “L’opera non è finita fino a quando canta la donna grassa”. Mai darsi per spacciati nello sport, almeno fino a quando il direttore di gara non fischia la fine della contesa. Il Maccabi, sospinto dal calore degli ebrei canadesi, prova a giocarsi le sue carte vincenti anche quando si trova a dover saldare un debito da quattordici punti. Due tiri liberi di Baston avvicinano nuovamente gli israeliani che hanno il merito di decurtare di sei punti lo scarto: l’impresa non appare più così impossibile da portare a compimento. E, quando il tabellone dell’Air Canada Centre ricorda che ci sono meno di tre minuti da giocare, il Maccabi passa per la prima volta in vantaggio (95-93), spinto da una tripla di Will Solomon. Una prodezza preceduta dalla monumentale difesa di Yaniv Green, vigile custode del canestro israeliano che stoppa un tiro in sospensione di Mike James e, soprattutto, rende nullo il tentativo di lay-up di Rose. Le certezze dei canadesi si sono sgretolate, oramai si lotta punto su punto.

Diciannove secondi alla conclusione. James ha appena messo dentro il canestro del 103-103. Il Maccabi gestisce l’ultima azione dell’incontro. Gli israeliani puntano tutto su Anthony Parker, miglior giocatore dell’Eurolega vinta dai gialloblù di Tel Aviv. Lui è nato a Naperville, Illinois, ha giocato a Philadelphia e Orlando, il basket americano non è certo un mistero per lui. E la guardia del Maccabi si mette in testa di diventare un eroe. Otto decimi alla conclusione: Parker, tutto isolato in un angolo, mira il tabellone e spicca il volo, Peterson prova ad oscurargli la visuale ma invano. Il pallone si accoccola tra le maglie della retina. Canestro. 105-103. Il Maccabi riscrive la storia del basket: mai una formazione europea aveva sconfitto una franchigia NBA sul suolo americano. Gli Stati Uniti erano usciti malconci dai Mondiali di Indianapolis e dai Giochi olimpici di Atene, ma con le squadre di club avevano sempre salvato l’onore. Adesso no, non più. Inutili i puerili tentativi della NBA di occultare, sul proprio sito web, anche questa sconfitta, stavolta sì ufficiale: l’ultimo baluardo è stato abbattuto.

Simone Pierotti

IERI & OGGI: LA SCONFITTA DI MONACO ’72 È ANCORA INDIGESTA PER GLI USA

Proprio oggi la controversa finale di basket delle olimpiadi di Monaco 1972 tra Stati Uniti e Unione Sovietica compie i suoi 38 anni.

Si era trattato di una sorta di Miracle on ice a parti rovesciate, in cui il gigante, questa volta americano, era stato sconfitto quasi all’ultimo secondo e sul filo di lana da un piccolo Davide travestito da cosacco. Inutile dire che, diversamente dalla finale di hockey su ghiaccio di Lake Placid ’80, ad Hollywood si sono sempre guardati bene dal produrre una fiction su questo autentico Miracle on parquet.

Riassumendo brevemente i fatti, quel 9 settembre 1972, al mostruoso orario d’inizio delle 23.45 (dal lato del loro fuso orario, i munifici network televisivi americani avevano reclamato e ottenuto la diretta in prima serata) a Monaco di Baviera si erano affrontate per la finale di basket USA e URSS, le due superpotenze nella geopolitica dell’epoca.

Fin dalle olimpiadi di Berlino ’36 la medaglia d’oro nel basket era sempre stata conquistata dalla nazionale statunitense, nonostante questa presentasse rappresentative universitarie, dal momento che i grandi professionisti della NBA erano ancora banditi dalle competizioni olimpiche.

Ad appena tre secondi dalla fine del match, il gigante USA conduceva con un punto di vantaggio, 50-49. Ma, al termine di una rocambolesca serie di confusioni arbitrali sul residuo tempo da giocare, un lunghissimo passaggio perfetto era volato dal limite del campo sovietico fino a sotto il canestro statunitense, dove il ventenne Alexander Belov aveva realizzato quei due punti necessari a capovolgere il punteggio.

Era il 1972, nel pieno della guerra fredda, e la supremazia dei cestisti americani era stata stroncata; e per ironia della sorte, proprio all’ultimo istante e con un coup de theatre, dagli eterni cattivissimi della celluloide hollywoodiana. Le polemiche non erano mancate, e per anni gli statunitensi hanno masticato bile per quei tre secondi in più, che a loro parere, l’arbitro brasiliano Renato Righetto, non avrebbe dovuto concedere.

Proprio oggi a Istanbul si è giocata la semifinale dei campionati mondiali tra gli Stati Uniti e la Russia. E nonostante la Russia non sia altro che un’erede della fu-Unione Sovietica e viviamo in un presente ormai del tutto deideologizzato, l’antica acredine non è stata ancora del tutto sopita. Così, alla vigilia dell’incontro, l’allenatore della nazionale americana Mike Krzyzewski, scandalizzato da una precedente dichiarazione del suo omologo nella nazionale russa, David Blatt (altra ironia della sorte, Blatt ha un doppio passaporto: americano ed israeliano), che aveva osato definire corretto lo svolgimento di quella contestata finale di trentotto anni fa, è andato su tutte le furie.

È ovvio che David Blatt abbia detto questo: lui è un russo” è stato il suo velenoso commento.

Anche Jack McCallum, l’inviato della rivista statunitense Sports Illustrated, non ha dimostrato meno acredine di Krzyzewski, e ha rilanciato la teoria del complotto internazionale, rimarcando che il doveroso, secondo lui, ricorso degli USA per invalidare quell’ultimo canestro di Belov, era stato respinto per 3-2 dalla FIBA proprio grazie ai tre voti dei rappresentanti dei paesi comunisti.

Già, anche i paesi comunisti si erano messi di mezzo trentotto anni esatti fa. E senza quel maledetto canestro del povero Belov, che perse la vita solo sei anni dopo per un male incurabile, magari negli studios si sarebbe potuto ricamarci sopra un altro bel film a lieto fine.

Giuseppe Ottomano

IERI & OGGI: E IL LIBANO SOTTO ASSEDIO SCONFISSE LA FRANCIA

Nel corso della storia non sono mai mancate, in occasione di Giochi Olimpici o Mondiali, sfide sportive che mettevano di fronte colonizzatori e colonizzati. Ma questa aveva un fascino tutto particolare.

Libano-FranciaNel corso della storia non sono mai mancate, in occasione di Giochi Olimpici o Mondiali, sfide sportive che mettevano di fronte colonizzatori (europei) e colonizzati (africani, americani o asiatici). Ma questa aveva un fascino tutto particolare.

È il 23 agosto del 2006 ed in Giappone si gioca la penultima giornata del girone A dei Mondiali di basket maschile. A Sendai si affrontano due squadre che, in comune, hanno forse la lingua parlata. Da una parte c’è la Francia terza classificata agli Europei di un anno prima che, pur priva della stella Tony Parker, può schierare un parterre de roi di assoluto rispetto: Gomis e Florent Piétrus hanno vinto il campionato spagnolo con l’Unicaja Málaga, mentre sono ben quattro i giocatori – Diaw, Petro, Mickaël Piétrus e Turiaf – impegnati nella NBA. Dall’altra c’è il Libano, alla seconda partecipazione mondiale della sua storia, guidato in panchina da un allenatore giramondo, lo statunitense Paul Coughter. I suoi uomini giocano tutti in patria. Per la nazionale mediorientale non è una partita qualsiasi. Perché una vittoria potrebbe far avvicinare la squadra allo storico traguardo degli ottavi di finale. Perché, nel lungo arco temporale compreso tra i due conflitti mondiali, il Libano era un protettorato francese. E, soprattutto, perché il loro paese è in guerra da oltre un mese con Israele: a dir la verità da nove giorni è entrato in vigore il cessate il fuoco, ma è solo con la fine del blocco navale imposto dagli israeliani che, a settembre, calerà definitivamente il sipario su un’altra pagina di sangue in Medio Oriente. La preparazione ai Mondiali è stata un vero incubo per i giocatori, che si allenavano sapendo che gli F16 israeliani sorvolavano sulle loro case. E poi l’odissea per raggiungere Turchia e Slovenia, per disputare due tornei di preparazione, tra aeroporti bombardati ed autostrade danneggiate che, di fatto, avevano isolato il paese. I giocatori non volevano saperne di andare al Mondiale: troppo importante la vita dei loro familiari. Ma, alla fine, la spedizione libanese parte alla volta della terra del Sol Levante: dopo la vittoria all’esordio contro il Venezuela, i mediorientali hanno perso contro Serbia-Montenegro ed Argentina. E adesso ci sono loro, i colonizzatori.

Il parquet di Sendai sovverte inizialmente il pronostico che vede la Francia favorita: la stella Fadi El Khatib trascina il Libano con le sue giocate, sul fronte francese l’assenza dell’infortunato Jeanneau si traduce in una fase offensiva molto compassata e stagnante. Dopo il sostanziale equilibrio delle battute iniziali, il Libano prende il largo grazie ad un paio di tiri liberi di Roy Samaha: le due squadre chiudono così il primo quarto sul 21-14. Anche nel successivo la Francia non fa molto per arginare le folate libanesi: una schiacchiata di Mickaël Piétrus riduce il distacco a due sole lunghezze, ma un lay-up di El Khatib e le bordate di Rony Fahed, complesa una tripla, riportano avanti la nazionale mediorientale che va al riposo con il massimo vantaggio (43-30).

La Francia, tuttavia, si risveglia brutalmente nella seconda metà dell’incontro: gli uomini di Claude Bergeaud assestano un parziale di 9-0 e poi, grazie al canestro del madridista Gelabale, ancora una volta si portano a due punti di ritardo dal Libano. Dilapidato il prezioso vantaggio, i mediorientali rialzano la testa ed è il solito El Khatib a mantenerli in vita con i suoi punti. Ma è soprattutto Florent Piétrus il protagonista dell’ultimo quarto: il giocatore dell’Unicaja regala spettacolo con rimbalzi e schiacchiate. Regala soprattutto punti preziosi alla Francia che consentono di risalire la china: mediorientali e transalpini giocano a rincorrersi, con i primi che viaggiano a una media di quattro punti di vantaggio. Fino a quando Boris Diaw, pure lui uscito dal guscio dell’anonimato nella seconda parte, non fissa il risultato sul 68-68. La gioia per aver agganciato, dopo un lungo inseguimento, il Libano dura tuttavia il breve spazio di una dozzina di secondi: Rony Fahed mette dentro una tripla e dà nuovamente il vantaggio alla sua squadra. Manca un minuto e mezzo alla fine. E la Francia deve recuperare tre punti. Florent Piétrus non fallisce dalla lunetta e così pure Foirest: adesso sono i libanesi a dover inseguire (72-71) quando mancano quaranta secondi. Ti aspetti una giocata decisiva di El Khatabi – a fine gara sarà il miglior marcatore con 29 punti personali – e invece è Joseph “Joe” Vogel, centro di origini statunitensi, a scrivere la storia del basket: riceve palla, si gira, segna subendo fallo e poi realizza il tiro libero aggiuntivo. 74-72. L’appuntamento con la storia è lì a ventiquattro secondi, ma c’è ancora da soffrire: Diaw va in lunetta, può riequilibrare nuovamente le sorti dell’incontro a sei secondi dalla conclusione. Mette dentro il primo: 74-73. Prosegue con il secondo. Il tiro è corto, la palla tocca il ferro e torna in campo: all’ultimo secondo finisce tra i palmi di Foirest che tenta il tiro della disperazione. Palla fuori bersaglio. Fischio finale. Vince il Libano delle famiglie sotto assedio, vince il Libano senza giocatori nella NBA, vince il Libano umile contro una Francia presuntuosa. “Siamo stati davvero deludenti e non abbiamo preso abbastanza sul serio la partita – ammette a fine partita Bergeaud – questo è un momento storico per noi perché non abbiamo rispettato i nostri avversari”. Con il sorriso fanciullesco di chi ha appena compiuto un’impresa, Khalaf commenta una vittoria inattesa: “Questa vittoria, comunque, non significa nulla se domani non facciamo risultato contro la Nigeria. Per me, quella partita è più importante del successo di oggi”.

Ma il miracolo non si ripeterà: il Libano esce sconfitto 95-72 contro la formazione africana, fallendo così la qualificazione al turno successivo. La Francia avanza e chiuderà al quinto posto la sua avventura in terra nipponica. Ma sulle maglie dei transalpini rimarrà per sempre incancellabile la macchia della sconfitta contro i libanesi. I quali tornano comunque a casa con una storia da poter raccontare ai propri figli, nel frattempo tornati alla normale vita di tutti i giorni dopo il cessate il fuoco del 14 agosto. Eccola, la vittoria più bella, da aggiungere al 74-73 di Sendai.

Simone Pierotti

LA NUOVA ITALBASKET AGLI ORDINI DI PIANIGIANI

Primo raduno dell’Italbasket: sotto la guida del vincente Pianigiani, la nazionale dovrà dimostrare qualcosa fin da subito

La novità più interessante dell’Italia che si è radunata pochi giorni fa per preparare le qualificazioni all’Europeo del 2011, è sicuramente la nomina di Simone Pianigiani, allenatore della Montepaschi Siena, squadra che da quattro anni domina il campionato italiano. Pianigiani è riconosciuto anche in Europa come uno degli allenatori più bravi e preparati e col suo arrivo vengono a mancare gli alibi ai giocatori: adesso anche Bargnani e Belinelli (criticati un anno fa, anche se venne contestata soprattutto la confusionaria gestione dell’ex CT Recalcati) dovranno uscire allo scoperto, dimostrando di essere giocatori che fanno la differenza in Nazionale. A parte Danilo Gallinari (che ha ottenuto un’estate libera da impegni, dopo che nelle ultime tre estati non ha potuto giocare con la nazionale a causa di infortuni), ci sono tutti i migliori giocatori italiani, poche storie. Con la nomina di quello che personalmente considero il secondo miglior allenatore italiano (il migliore resta Ettore Messina), si vedrà se effettivamente i fallimenti degli ultimi anni erano esclusivamente colpa dell’ex CT Recalcati. Come detto, sono finiti gli alibi.

Questi i convocati:

PLAYMAKER
Jacopo Giachetti (07.12.1983 – Lottomatica Roma)
Giuseppe Poeta (12.09.1985 – BancaTercas Teramo)
Antonio Maestranzi (01.07.1984 – Sigma Montegranaro)

Alla ricerca di un leader: nel ruolo chiave, non sembra che ci sia un titolare sicuro del posto, ma potrebbe nascere un play a tre teste, per cercare di sfruttare i pregi dei giocatori, arginandone i difetti. Giachetti ha cominciato la stagione a Roma da separato in casa e l’ha finita come una specie di salvatore della patria alla quale tutti si aggrappavano: la verità sta nel mezzo. Poeta è stato criticato per un’annata sottotono: le cifre confermano questa impressione, ma in questa stagione ha cercato di ragionare di più frenando i suoi istinti. Una trasformazione importante, sebbene faticosa, che quest’estate potrebbe regalargli un contratto in una squadra prestigiosa. Maestranzi invece si è meritato il posto in nazionale grazie alle ottime prestazioni con la casacca di Montegranaro: una bella soddisfazione per Tony, nato a Chicago, tiratore bestiale che fino all’anno scorso giocava in Lega A2.

GUARDIE
Marco Belinelli (26.03.1986 – Toronto Raptors)
Luca Vitali (09.05.1986 – Lottomatica Roma)
Daniele Cavaliero (10.01.1984 – Sigma Montegranaro)
Marco Mordente (07.01.1979 – Armani Jeans Milano)

Tante soluzioni, ma il giocatore più importante rimane Marco Belinelli: è uno che per la nazionale è sempre stato disponibile e anche quest’anno dovrà essere un trascinatore. Luca Vitali giocava insieme a Belinelli nelle giovanili della Virtus Bologna, prima che questi andasse a giocare in NBA, e fatica sempre ad esplodere definitivamente; essendo alto 2 metri può creare tanti problemi ai giocatori che lo devono marcare, deve solo trovare la continuità. Dalla panchina l’energia e la follia di Cavaliero, e la difesa, l’esperienza, la grinta di Marco Mordente.

ALI
Stefano Mancinelli (17.03.1983 – Armani Jeans Milano)
Angelo Gigli (04.06.1983 – Lottomatica Roma)
Luigi Datome (27.11.1987 – Lottomatica Roma)
Pietro Aradori (09.12.1988 – Angelico Biella)
Marco Carraretto (27.10.1977 – Montepaschi Siena)

Tanti giocatori interscambiabili in questo settore, caratteristica che piace un po’ a tutti gli allenatori e che certo Pianigiani non disprezza. Il ruolo di ala forte se lo giocheranno Mancinelli e Gigli (ma non è escluso anche un assetto più pesante con Bargnani ad occupare il ruolo), mentre Aradori sarà l’ala piccola titolare: è stato di gran lunga il migliore italiano dell’ultimo campionato ed è uno dei primi acquisti di Siena. Delle qualificazioni europee giocate a grande livello potrebbero consacrarlo definitivamente. Si spera anche di poter contare su Gigi Datome, giovane che spesso è stato frenato dagli infortuni. Da segnalare anche la presenza di Carraretto, uno dei pochi italiani di Siena, giocatore quindi che Pianigiani conosce molto bene.

CENTRI
Andrea Bargnani (26.10.1985 – Toronto Raptors)
Andrea Crosariol (11.10.1984 – Lottomatica Roma)
Marco Cusin (28.02.1985 – Vanoli Cremona)
Luca Lechthaler (23.02.1986 – Sigma Montegranaro)

Forse, Bargnani a parte, è il reparto in cui la nazionale è più carente. Sia Cusin che Lechthaler sono ragazzi che hanno fatto bene nel campionato italiano, ma sarà da vedere quale sarà il loro impatto a livelli più importanti. Crosariol rimane un mistero: fisicamente è imponente, ma è ancora molto ingenuo e spesso è costretto in panchina a causa dei tanti falli che commette. Temo che Bargnani sarà chiamato a fare gli straordinari…

Andrea Marchesi