QUANDO LO SPORT HA FATTO L’ITALIA

Oggi si festeggiano i 150 anni dell’unità nazionale: un secolo e mezzo di storia in cui lo sport ha scritto pagine importanti.

A 150 anni di distanza dalla data simbolica scelta per celebrare l’unità d’Italia possiamo con certezza affermare che lo sport non è stato un fattore neutrale, ma ha contribuito costantemente nel definire e ridefinire l’identità italiana. Del resto siamo il paese in cui il quotidiano più venduto è la Gazzetta dello Sport e l’inno di Mameli e il tricolore sono suonati e sventolati principalmente in occasione di eventi sportivi.

Quali sono stati nel corso della storia i 10 momenti più significativi per l’identità italiana? Ecco una personalissima classifica tenendo conto delle diverse discipline e delle differenti epoche storiche.

 

10 L’ITALIA VINCE LA COPPA DAVIS IN CILE (1976)

Grazie a una generazione d’oro rappresentata da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Antonio Zugarelli e Adriano Panatta, il tennis italiano da sport borghese diventa popolare. Panatta, il D’Artagnan fra i moschettieri azzurri, quell’anno vinse anche gli internazionali di Roma e il Rolland Garros.

Fino alla finale, conquistata sconfiggendo la Yugoslavia, la Svezia, il Regno Unito e l’Australia, il cammino degli azzurri è un’apoteosi; il gota del tennis mondiale si deve inchinare agli alfieri azzurri. Il rivale della finale però crea maggiori problemi dal punto di vista politico che non sportivo. Il Cile di Fillol e Cornejo non fa paura ma pone la questione sull’opportunità di giocare in un paese con cui si sono rotte le relazioni diplomatiche e a pochi metri di distanza da uno stadio usato fino a poco tempo prima come campo di concentramento dal regime di Pinochet.

La società civile si mobilita per chiedere il boicottaggio, il Coni e la Fit si muovono nell’ombra per non perdere una vittoria certa, mentre il governo temporeggia difendendosi dietro lo slogan dell’indipendenza dello sport dalla politica. Alla fine gli azzurri vanno in Cile dove vincono facilmente, ma vengono boicottati da parte della stampa tanto che la provocatoria maglietta rossa indossata da Panatta e Bertolucci nella prima parte del doppio non viene neppure citata nei principali quotidiani sportivi. Il trionfo di Santiago 1976 rappresenta allo stesso tempo l’apice del tennis italiano, ma anche uno dei principali momenti in cui le implicazioni politiche veicolate dallo sport hanno provocato la reazione dell’opinione pubblica.

 

9 I DUE ORI DI ALBERTO TOMBA ALLE OLIMPIADI DI CALGARY (1988)

L’anno precedente aveva vinto un bronzo ai mondiali ma alle Olimpiadi di Calgary Alberto Tomba fece un capolavoro conquistando due ori. Il 25 febbraio sfruttando al meglio il pettorale numero 1 vinse lo slalom gigante con un vantaggio abissale su Strolz e Zurbriggen; due giorni dopo conquistò in rimonta anche lo slalom speciale. In quell’occasione l’Italia intera, Festival di Sanremo compreso, si fermò per accompagnare la discesa di Albertone.

Le vittorie di questo ragazzo degli Appennini cancellarono la credenza per cui  solamente gli abitanti delle valli alpine potevano eccellere in questa disciplina. La saga di “Tomba la Bomba”, che smise ben presto di partecipare ai super giganti e alle discese libere perché “la mamma non vuole”, continuò per tutti gli anni Novanta. Arrivarono altre tre medaglie olimpiche e altrettante mondiali, quattro coppe di specialità, sia in gigante sia nello speciale, e soprattutto la coppa del mondo del 1995.

Più ancora dei trionfi di Zeno Colò e Gustav Thöni  furono soprattutto quelli di Tomba che permisero allo sci di uscire dalle Alpi, diventando in tutto e per tutto lo sport per eccellenza delle vacanze natalizie degli italiani.

 

8 IL MONDIALE DI CALCIO IN GERMANIA (2006)

La vittoria del Mondiale di calcio del 2006 è un fulmine a ciel sereno, una saettata d’orgoglio nazionale: inaspettata, intensa e fugace. Sono passati 5 anni e sembra già un’eternità.

L’Italia calcistica si era trovata nel pieno dello scandalo di corruzione ribattezzato Calciopoli; quella politica si appoggiava sul voto dei senatori a vita per poter legiferare. La vittoria è il trionfo dello stereotipo calcistico italiano costruito su una grande difesa e in cui a risultare decisivi non sono i campioni più attesi (Totti, Del Piero, Toni, Gilardino) bensì i gregari e le seconde linee (Grosso e Materazzi).

Dal punto di vista dell’identità nazionale la vittoria del mondiale appare per alcuni mesi una speranza di rinascita, ancor più perché le vittorie decisive giungono contro Francia e Germania, due paesi verso cui il gap economico tende ad allargarsi, ma non è che un’illusione poiché anche il calcio, nel quinquennio successivo seguirà il declino del paese. Senza un’adeguata programmazione e un investimento sui vivai, il futuro dell’Italia (non solo calcistica) difficilmente potrà essere roseo.

 

7 IL TITOLO MONDIALE DI PRIMO CARNERA (1933)

Primo Carnera è l’atleta che prima di ogni altro ha contribuito al successo del pugilato in Italia. Iniziò la carriera come fenomeno da baraccone funzionale alle esigenze della malavita italo-americana. Col tempo però affinò la tecnica e divenne un ottimo pugile. Grazie alle vittorie su Uzkudum e Schaaf (che morì 4 giorni dopo il combattimento per la somma dei pugni subiti da Carnera e Baer) Carnera smise di essere un simbolo solo per gli italo-americani e venne adottato anche dal regime fascista. Nel 1933 raggiunse l’apice della propria carriera quando sfidò Jack Sharkey al Madison Square Garden per il mondiale, mettendo K.O. il pugile americano alla sesta ripresa, conquistando così il titolo.

Carnera mantenne la corona contro Uzducum ma nel 1934, dopo la sconfitta con Baer, iniziò la sua parabola discendente. Per volere del regime fascista, che aveva scelto il pugile per autorappresentarsi, i giornali ne oscurarono il declino fino a farlo cadere nell’oblio.

Il gigante buono e ingenuo, raggirato dai manager e strumentalizzato dal regime, resta però il capostipite di una tradizione pugilistica italiana che ha prodotto campioni come Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Roberto Cammarelle.

 

6 IL RECORD DEL MONDO DI MENNEA (1979)

Nonostante dei riflessi alla partenza non certo felini e uno stile di corsa giudicata dai puristi brutto, sgraziato e rigido, Pietro Mennea da Barletta, con la sua progressione di corsa inimitabile, è stato il più grande atleta italiano che abbia calpestato le piste d’atletica. Professionista dell’allenamento nel quale si sottoponeva con carichi di lavoro impressionanti, Mennea incarnava la rabbia di un sud Italia povero di infrastrutture ma dalla grande passione sportiva.

Il 12 settembre 1979 alle Universiadi di Città del Messico vinse i 200 metri in 19’’72, un record del mondo che resistette per ben 17 anni quando fu superato da un altro grandissimo della disciplina, Michael Johnson. Mennea certificò quel record aggiudicandosi l’oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980.

Il piccolo velocista bianco capace di competere alla pari con i fenomeni americani oltre a tre medaglie olimpiche, due mondiali e 6 europee, non solo è un pluri-laureato, euro-parlamentare e avvocato di successo, ma probabilmente è stato uno dei grandi dirigenti sportivi mancati del nostro paese.

 

5 LE OLIMPIADI DI ROMA (1960)

Dopo le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 quelle di Roma del 1960 (assegnate nel 1965) certificano la ritrovata credibilità dell’Italia all’interno della comunità internazionale.

Le Olimpiadi italiane giungono nel pieno del boom economico, mostrano la grandezza architettonica di Pierluigi Nervi e, sfruttando preparati dirigenti e tecnici sportivi (alcuni dei quali nostalgici del regime), portano un bottino di  36 medaglie (13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo). Fra esse brillano quelle di Livio Berruti sui 200 metri, Musso – Benvenuti – de Piccoli nella boxe, del settebello, Delfino nella spada e le sette nel ciclismo.

Anche se le Olimpiadi sono segnate dalla morte del ciclista Enemark Jensen, notizia sostanzialmente taciuta e censurata dalla stampa italiana, l’“Olimpiade dal volto umano” impressiona gli osservatori stranieri per l’efficienza messa in campo da un paese troppo spesso sottovalutato.

 

4 LA TRAGEDIA DEL SUPERGA (1949)

Il 4 maggio del 1949 è una data maledetta. Il trimotore Fiat G 212 di ritorno da Lisbona alle 17.03 si schianta contro il colle che ospita la Basilica di Superga, non ci sono sopravvissuti. Fra le 31 vittime 18 sono calciatori del Torino: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert. Centinaia di migliaia di persone vollero omaggiare quella squadra a cui fu assegnato il 5° scudetto. Un anno più tardi la nazionale di calcio, piuttosto che prendere l’aero, affrontò una lunghissima trasferta in nave.

Dopo la distruzione causata dalla guerra e dall’oppressione del ventennio fascista, dal 1946 a quella luttuosa giornata il “Grande Torino”, con il suo gioco spumeggiante e i suoi successi, aveva incarnato i desideri di rinascita degli italiani.

Lo schianto del 1949 privò il calcio italiano della sua gioventù migliore. Montanelli scrisse: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta»

 

3 LA MARATONA DI DORANDO PIETRI (1908)

Il 24 luglio 1908 si disputa la maratona, gara principale delle Olimpiadi di Londra del 1908; fra i partecipanti c’è un baffuto corridore di Carpi che di mestiere fa il garzone. A dispetto dei pronostici quando entra nel White City Stadium si ritrova con un vantaggio abissale sui rivali e la folla lo accoglie con un’ovazione. Dorando Pietri però non corre più, ciondola accecato dalla stricnina (sostanza allora presa comunemente da tutti i corridori) e prende la direzione sbagliata collassando a terra più volte. Incitato dalla folla e sorretto da un megafonista e da un medico, impiega 10 minuti a compiere gli ultimi metri e dopo aver tagliato la linea del traguardo crolla a terra. L’aiuto ricevuto gli costa la squalifica ma quando l’indomani riprese conoscenza fu ricoperto di elogi, fiori e regali fra cui quello della Regina Alessandra che, poiché non era stato responsabile della propria squalifica, lo omaggiò con una coppa piena di sterline.

La stampa italiana diede per la prima volta grande risalto all’evento e il carpigiano, autore di un’impresa che neppure i giudici poterono cancellare, divenne così la prima leggenda, celebrata tutt’oggi, dello sport italiano.

 

2 IL MONDIALE DI SPAGNA (1982)

Mettiamo da una parte l’immagine di Mussolini che pontifica il successo (con annesso saluto romano) della nazionale italiana ai Mondiali del 1934 (poi ripetuto nel 1938 e alle Olimpiadi del 1936) e dall’altra il presidente della repubblica Sandro Petrini che, dopo aver celebrato il successo azzurro, gioca a scopa con Zoff, Causio e Bearzot; la differenza fra i successi degli anni ‘30 e quello degli anni ‘80 sta tutta qui.

Anche la modalità con cui venne raggiunto questo successo contribuisce ad accrescere il mito del Mondiale dell’82. Dopo un quadriennio di critiche e una qualificazione alla seconda fase ottenuta da tre striminziti pareggi, la squadra italiana fece quadrato, dichiarando il silenzio stampa, e da brutto anatroccolo si trasformò in un cigno. Grazie ai goal di Paolo Rossi e alle serpentine di Bruno Conti l’Italia si laureò per la terza volta campione del mondo, sconfiggendo nell’ordine: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. La vittoria calcistica e il triplice “campioni del mondo” urlato dal telecronista Nando Martellini certificarono la fine della crisi degli anni Settanta e l’inizio di una stagione di benessere diffuso, basato sul debito, e incarnato dalla “Milano da bere”.

 

1 GINO BARTALI CHE VINCENDO IL TOUR “SALVA” L’ITALIA DALLA GUERRA CIVILE (1948)

Bartali, come Carnera, è stato uno di quei simboli sportivi che il fascismo aveva fatto propri. Ginettaccio però, vicino all’Azione Cattolica, non sostenne mai, neppure simbolicamente il partito fascista, evitando di posare in camicia nera o di prestarsi al saluto romano. Nel 1938, quando vinse il suo primo Tour de France, venne ampiamente strumentalizzato dal regime fascista.

La guerra privò Bartali dei suoi anni migliori ma portò in Italia la democrazia. Il dopoguerra di Ginettaccio fu segnato dal rifiuto di candidarsi con la DC, dalla rivalità (più nell’immaginario collettivo che non nella realtà) con Fausto Coppi e da un sogno: rivincere il Tour de France a 10 anni di distanza. “È troppo vecchio” dissero in tanti, ma le critiche aprioristiche non fecero altro che caricare la cattiveria agonistica del testardo campione toscano.

Nell’aprile del 1948 si erano tenute le prime elezioni della Repubblica italiana, vinte dalla Democrazia Cristiana ma le tensioni interne e internazionali contribuivano ad accrescere il clima di divisione in seno al paese. Gino partì alla volta del Tour, accordandosi con Binda, suo “direttore sportivo”, per una partenza lenta volta a far credere che Bartali fosse fuori forma. Irritato per la poca considerazione nei suoi confronti e accusato da alcuni ciclisti di essere troppo vecchio, Gino andò a vincere la prima tappa facendo infuriare Binda. Dopo questa “bravata iniziale” Bartali seguì le direttive del suo stratega per far sì che i rivali, Bobet e Robic, si scannassero fra di loro. Dopo aver accumulato nelle prime tappe un ritardo di 20 minuti il campione toscano conquistò due importanti successi a Lourdes e a Tolosa, ma il 13 luglio, complice una foratura, finì vittima di una trappola ordita dai francesi che si allearono “fregandolo come un bischero” e ricacciandolo nuovamente a più di 20 minuti di ritardo.

Il giorno successivo era previsto riposo e, mentre Bartali rimuginava sulla tappa di Cannes, a Roma Antonio Pallante scaricò quattro colpi di rivoltella sul segretario del PCI Palmiro Togliatti, che, tifoso di Bartali, nei giorni precedenti si era personalmente assicurato che l’Unità sostenesse il ciclista toscano al di là dello stereotipo secondo cui la rivalità Coppi/Bartali fosse anche politica. Con Togliatti in fin di vita, le piazze si  riempirono e la Cigl proclamò lo sciopero generale. Non appena la notizia di un pericolo rivoluzionario arrivò a Cannes, i giornalisti italiani lasciarono il Tour e i gregari di Bartali, preoccupati per le loro famiglie, spinsero a fare altrettanto. Il toscanaccio era ormai convinto di aver perso il suo sogno di poter rivincere il Tour quando arrivò una telefonata di Alcide de Gasperi che chiese: «Pensi di poter vincere ancora il Tour? Sai, sarebbe importante. Non soltanto per te». Il giorno successivo Bartali fece l’impresa scalando in modo imperioso l’Izoard e recuperando quasi tutto il distacco su Bobet. Il 16 luglio era nuovamente in maglia gialla che portò orgogliosamente fino a Parigi.

Togliatti, che nel frattempo si era ripreso, dall’ospedale predicò la calma contribuendo in modo decisivo a smorzare il clima di guerra civile, ma chiese anche notizie di Bartali al Tour. La retorica cattolica non poteva certo concedere al proprio rivale politico il merito di aver salvato la democrazia dalla guerra civile; Bartali era un simbolo molto più adatto e per di più era amato, nonostante i niet dogmatici, anche a sinistra. Fu così che man mano che la minaccia rivoluzionaria retrocedeva, il mito di Bartali come salvatore della patria prese forma e si cristallizzò come leggenda nella storia italiana.

Articolo scritto per www.thepostinternazionale.it e pubblicato anche per www.pianeta-sport.net e www.centrostudiconi.it
(Le citazioni su Bartali sono tratte da Turrini, Bartali, L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano, Mondadori, 2004 e Facchinetti, Bartali e Togliatti, Roma, Campagna Editoriale, 1981)

IERI & OGGI: BARTALI TRIONFA A AIX-LES-BAINS E L’ITALIA SI PLACA

Il trionfo di Bartali sulle strade del Tour nei giorni dell’attentato a Togliatti: era il 16 luglio 1948 quando Ginettaccio ipotecò la vittoria nella Grande Boucle.

Gino BartaliEstate del 1948. Le prime elezioni che si sono svolte il 18 marzo di quello stesso anno in un clima arroventato tra fantasmi di cosacchi che abbeverano i cavalli in Piazza San Pietro e di servi del nemico a stelle e strisce hanno diviso l’Italia e la netta vittoria della Democrazia Cristiana ha portato alla guida del governo Alcide De Gasperi mentre Palmiro Togliatti, superando la sua base, in una responsabile scelta sulla via della normalizzazione della situazione ha accettato di guidare una opposizione accorta ed oculata. La situazione esplode nuovamente il 14 luglio quando Antonio Pallante, studente venticinquenne, esplode quattro colpi di pistola ferendo in modo grave il segretario del Partito Comunista. Alla notizia in tutta Italia partono manifestazioni spontanee che portano a gravi incidenti in molte città, la situazione sembra sfuggire di mano al governo. A Genova i dimostranti disarmano la polizia, a Torino sequestrano l’amministratore delegato della Fiat, Vittorio Valletta.

Le cronache narrano che Alcide De Gasperi, la sera del 14 luglio preoccupato per l’evolversi della situazione, riesca a pensare anche ad un uso dello sport come diversivo sociale e telefoni a Cannes dove la squadra italiana impegnata nel Tour de France sta vivendo la giornata di riposo prevista dal calendario chiedendo ad un Gino Bartali, preoccupatissimo per le sorti della sua famiglia, una grande impresa.

Il toscano a 34 anni è ritornato al Tour dopo la vittoria del 1938 e arriva alla giornata di riposo con un fardello di 21′ di distacco dalla maglia gialla, il bretone Louison Bobet. Il giorno successivo è in programma il primo dei tre tapponi alpini, la Cannes – Briançon con Allos, Vars e Izoard ad arricchire l’altimetria di 274 km di corsa. In una giornata di grande freddo, Bartali va all’attacco sul Vars e sull’Izoard: all’arrivo saranno sei i minuti di distacco del secondo, il belga Schotte, terzo l’italiano Camellini a nove minuti. Bobet arriverà con più di 18′ di ritardo e Bartali balza al secondo posto della classifica a 1’06” dal bretone. In una tesissima Piazza del Duomo dove sarebbe bastata una scintilla per scatenare una nuova guerra civile, la radio porta la notizia e la tensione, per qualche minuto, si scioglie.

Ma Bartali racconta di aver promesso a De Gasperi non solo la vittoria di una tappa ma la vittoria finale e il 16 luglio 1948 Ginettaccio si scatena. E’ una giornata da tregenda che prevede 5 passi alpini da Briancon a Aix-Les-Bains: il Galibier in mezzo ad una tormenta di neve, la Croix-de-Fer in un mare di fango, il Col de Porte nella nebbia e Cucheron e Granier sotto la neve. Bartali lascia sfogare Bobet sul Galibier e passa sulla vetta in un gruppetto a 2′ dalla testa della corsa che nella discesa opera il ricongiungimento.  E’ sulla Croix-de-Fer che parte l’attacco alla maglia gialla: Bartali scatta a 23 km dalla vetta e solo Bobet e l’altro francese Brulè gli stanno dietro mentre i distacchi iniziano a farsi abissali. L’italiano vince il Gran Premio della Montagna e guadagna 1′ di abbuono mentre Bobet si deve accontentare di 30″. Nella discesa una foratura ferma Gino mentre i due francesi filano via.

I corridori sono attesi dalla valle della Romanche sferzata da un forte vento contrario; in un capolavoro di tattica, Alfredo Binda suggerisce a Bartali di attendere gli inseguitori (Schotte, Ockers, Van Dijck, Camellini e Kirchen).  L’inseguimento (6 contro 2 in una anomala crono a squadre controvento) riesce  e il gruppetto si ritrova compatto all’attacco del col de Porte. Bartali piazza un altro attacco dei suoi e nessuno riesce a contrastarlo; un Bobet distrutto dalla fatica non resista neanche all’attacco di Ockers a 2 km dalla vetta dove l’italiano transita con 6’22” di vantaggio sul bretone indossando ormai la maglia gialla virtuale. L’arrivo a Aix-les-Bains è trionfale: 6′ minuti di vantaggio su Ockers, più di 7′ su Bobet. La maglia gialla è sulle spalle di Bartali che ha messo una seria ipoteca sulla vittoria finale. A mettere il sigillo finale arriveranno ancora le vittorie di tappa il giorno successivo a Losanna e nell’ultima settimana a Liegi.

Sul traguardo di Parigi, Bartali trionfa con un vantaggio di 26’16” sul belga Schotte e di 28’48” sul francese Lapébie. Louison Bobet si deve accontentare del quarto posto a 32’59” dall’italiano ma si rifarà vincendo tre Grande Boucle consecutive dal 1953 al 1955.

Al ritorno in Italia, Bartali è accolto come un eroe da Alcide De Gasperi: ancora una volta, come molte altre in futuro, lo sport è servivo come ottimo diversivo sociale.

Massimo Brignolo