NEL PANTANO DEI GIOCHI DEL COMMONWEALTH

Nella bufera l’edizione che si svolgerà in India, tra ritardi, lacune e corruzione.

Basterà la cerimonia d’apertura a mettere la parola fine alle polemiche che stanno tempestando l’India e gli organizzatori dei Giochi del Commonwealth? Difficile a dirsi; anche perché agli espropri delle case per costruire le nuove avveniristiche strutture sportive – fenomeno che ormai caratterizza tutti i mega-event di paesi non occidentali (vedi Pechino 2008, Sud Africa 2010) e possibile anche in una democrazia come l’India grazie a una legge risalente ancora all’Impero britannico – si sono aggiunti ritardi, carenze strutturali e scandali di corruzione.  Anche il piano emergenziale, posto in essere per finire entro i termini, è stato rallentato dalle forti piogge e dalle epidemie di febbre. Il momento più basso è stato poi raggiunto il 21 settembre, quando un ponte, che avrebbe dovuto collegare il villaggio degli atleti allo stadio, è collassato al suolo, ferendo 23 operai, perché costruito in troppa fretta e con materiali scadenti.

L’intera manifestazione a quel punto è stata sul punto di essere cancellata anche perché, per via delle carenze organizzative, gli allarmi di possibili attacchi terroristici si sono intensificati e numerosi atleti hanno dichiarato che i Giochi non sarebbero essere stati assegnati all’India.

Ma anche nei giorni successivi i problemi relativi al villaggio degli atleti sono apparsi alle volte insormontabili. Bagni inagibili, primi piani allagati, scimmie, serpenti e cani randagi hanno costretto le squadre a ritardare il loro arrivo o ad alloggiare momentaneamente negli alberghi di Dehli.

Dovevano essere la presentazione dell’India al mondo, o quantomeno una prova generale in vista della candidatura alle olimpiadi del 2020, ma si stanno tramutando in un pericoloso boomerang. Molti indiani hanno espresso il loro disappunto per la brutta esposizione internazionale del proprio paese, ma a ben guardare altrettanti non sembrano curarsene. In effetti solo due sport britannici sono veramente entrati nel cuore degli indiani: l’hockey su prato e, soprattutto, il cricket, che attira quasi totalmente l’attenzione dei media.

Del resto l’India, Giochi del Commonwealth o meno, deve confrontarsi quotidianamente con le sue contraddizioni derivate dall’essere una potenza regionale dalle concrete aspirazioni globali ma allo stesso tempo di paese povero. Chi invece potrebbe davvero subire una ferita profonda dal fallimento dei Giochi è il Commonwealth stesso. Senza Husain Bolt e la Regina Elisabetta la manifestazione appariva già dimezzata; le seguenti rinunce individuali e le acide polemiche dei quotidiani anglofoni di mezzo mondo potrebbero contribuire a sfiduciare quasi definitivamente un’organizzazione che ha già perso negli anni gran parte del suo peso politico e sta lentamente perdendo anche la sua influenza simbolica e culturale.

Nicola Sbetti

IL CALCIO AL TEMPO DI PINOCHET

Un libro racconta il rapporto tra il calcio e la dittatura cilena.

“Quando si tratta di calcio, la gente non perdona” Augusto Pinochet

In Cile, diversamente che in Argentina, Uruguay e Brasile, gli altri paesi sudamericani governati da dittature militari tra gli anni Settanta e Ottanta, il calcio non aveva regalato spettacolari soddisfazioni al regime. Ma nonostante i mediocri risultati sportivi, la giunta guidata da Augusto Pinochet aveva assegnato al calcio, nelle fattezze dell’oppio dei popoli più che mai, un ruolo decisivo nella propria politica di governo.

E soprattutto, nei primi anni Ottanta, quando la crisi finanziaria aveva messo a nudo tutti i limiti dell’effimero e relativo benessere economico, ottenuto con paurosi sacrifici alla fine del decennio precedente, per i generali cileni il calcio aveva assunto il compito di distrarre l’opinione pubblica e la popolazione dalla dura realtà di tutti i giorni. Gli esempi delle gemelle dittature circostanti erano incoraggianti, come per l’Argentina, vincitrice del mondiale del 1978, per l’Uruguay, trionfatore al Mundialito del 1981, e per il Brasile, eterno protagonista, indipendentemente dai risultati.

Pinochet era intervenuto nel calcio a gamba tesa, imponendo i suoi fedelissimi nei posti chiave  della federazione e delle altre strutture direzionali, seguendo, forse senza neanche rendersi bene conto, l’esempio della politica sportiva di mussoliniana memoria. Allo stesso tempo aveva indotto il regime ad un’iperattività senza uguali nell’organizzazione di tornei calcistici, soprattutto quadrangolari, strombazzati in pompa magna dal coro univoco della stampa.

La storia di questo intreccio tra lo sport più seguito al mondo ed una delle dittature più feroci della storia recente, che abbraccia il periodo tra il 1973, anno del golpe militare contro il presidente Salvador Allende, e il ritorno alla democrazia nel 1990, è stata raccontata nel libro “A Discreción – Viaje al corazon del futbol chileno bajo la dictatura militar” (“L’arbitrio – Viaggio al centro del calcio cileno sotto la dittatura militare”).

A Discreción è l’opera prima di due giovanissimi neo giornalisti cileni: il ventiseienne Carlos Gonzáles Lucay e il ventiquattrenne Braian Quezada, che in due anni di lavoro hanno ricostruito gli avvenimenti, in particolare attraverso ventidue interviste a protagonisti dell’industria calcistica dell’epoca, ex militari, giocatori, giornalisti, presidenti di club e sociologi. Il libro, ovviamente in spagnolo, è stato presentato alla fine della scorsa settimana a Santiago del Cile, in contemporanea con l’uscita nelle librerie cilene.

Giuseppe Ottomano

LA STRAGE DELL’HEYSEL VISTA DA KENNY DALGLISH NELLA SECONDA AUTOBIOGRAFIA

Quattordici anni dopo la pubblicazione del primo libro autobiografico dell’ex campione scozzese Kenny Dalglish, domani uscirà nelle librerie britanniche il secondo, e probabilmente neanche ultimo: “My Liverpool Home – Then and Now”.

Già dal titolo si intende inequivocabilmente che l’oggi cinquantanovenne ex attaccante degli anni settanta e ottanta ha dettagliatamente relazionato, in 352 pagine, il proprio rapporto con la squadra dei Reds, nella quale ha militato ininterrottamente dal 1977 al 1990, conquistando la bellezza di otto campionati, più tre Coppe dei Campioni.

In quell’epoca il Liverpool balzò agli onori delle cronache per le strepitose vittorie e per i fuoriclasse del calibro di Graeme Souness, Phil Neal, Ronnie Whelan, Ian Rush, il portiere Bruce Grobbelaar, oltre ovviamente allo stesso Dalglish. A far balzare la squadra ai disonori delle cronache ci pensarono invece i suoi tifosi, i famigerati hooligans della curva Kop, colpevoli di avere innescato la strage dell’Heysel nel 1985, e a loro volta vittime quattro anni dopo nell’altra strage dello stadio Hillsborough di Sheffield.

E proprio sulla tragedia dell’Heysel, secondo gli stralci riportati in anteprima dalla stampa d’oltremanica, Kenny Dalglish ha raccontato la propria esperienza diretta, ricordando che la mattina successiva un folto gruppo di tifosi juventini, addolorati ed inferociti allo stesso tempo, erano arrivati sotto l’albergo dove alloggiava la squadra inglese. E, salendo sul pullman, Dalglish li aveva osservati, rimanendo impressionato dal grande dolore che si celava sotto la loro rabbia.

Ho visto i tifosi italiani piangere, mentre, a mani nude, colpivano il nostro pullman; e percepivo la crudezza delle loro emozioni “.

Poi, ha aggiunto, ricordando una delle tante massime del grande allenatore del Liverpool degli anni sessanta e settanta, Bill Shankly: “Il calcio non è una questione di vita o di morte. È una cosa molto più importante”.

Non ho mai smesso di stimare Shankly. Ha osservato Dalglish. “Ma questa volta aveva sbagliato. Il calcio non può essere mai una cosa più importante”.

Giuseppe Ottomano

LA REGATA STORICA DI VENEZIA, TRA SPORT E FOLKLORE

A Venezia si svolge oggi la Regata Storica, evento che affonda le radici oltre un secolo fa.

Rappresentazione ludica, sport o semplice parata per turisti? È l’interrogativo che emerge periodicamente ogniqualvolta ci si trovi davanti alla Regata Storica, al Palio di Siena, a una rappresentazione di calcio fiorentino o di altri giochi folkloristici così diffusi nella nostra penisola.

A Venezia, città d’acqua per eccellenza, le regate sono  state una delle prime forme di sport apparse in città. Le regate si disputavano spesso in occasione di importanti ricorrenze, feste o per rendere omaggio a celebrità in visita. Tuttavia esse non si svolgevano nei canali cittadini ma in aperta laguna.

Nonostante la fine della Serenissima, le regate continuarono anche sotto il dominio francese e austriaco. Proprio sotto il dominio asburgico, a partire dal 1841, fu istituita, con fondi pubblici, una regata annuale lungo il Canal Grande come quella che si disputa oggigiorno. Dopo aver soffocato i moti insurrezionali del 1848 guidati da Daniele Manin, gli austriaci non ritennero però di dover proseguire con l’organizzazione dell’evento che riprese solo a partire dal 1866 con l’annessione di Venezia al Regno d’Italia. La Regata come la si vede oggi, col corteo a fungere da preludio alle competizioni, è stata concepita a fine dell’Ottocento, in occasione della terza Biennale d’Arte, per offrire un’ulteriore attrattiva turistica.

Benché la Regata Storica non sia l’unica regata della stagione sportiva di voga alla veneta, essa rappresenta il momento più alto nella carriera di ogni regatante. I primi quattro equipaggi classificati ricevono, oltre a premi in denaro, delle bandiere: rosse ai primi, bianche ai secondi, verdi ai terzi e blu ai quarti. Per un vogatore infatti vincere in Canal Grande equivale ad un oro olimpico. I pochissimi vogatori in grado di conquistare cinque vittorie consecutive possono fregiarsi del titolo di “re del remo”. Allo stesso tempo però, il corteo storico che anticipa le regate rimane un fondamentale specchietto per le allodole capace di attirare mass media e frotte di turisti.

Dopo il corteo però si inizia a far sul serio, partono prima i ragazzini seguiti dai giovanissimi sui pupparini, barche veloci un tempo usate per la vigilanza marittima. Le donne invece gareggiano in coppie su mascarete, un sandalo storicamente usato per la pesca. La penultima regata è quella delle caorline a sei remi che rappresentano i sestrieri (i quartieri della città). La caorlina è una barca tozza usata per la pesca ma soprattutto per il trasporto. Di recente è stata introdotta, sul modello delle sfide fra università anglosassoni, la sfida fra le due università cittadine (Iuav e Ca’ Foscari). La gara più attesa però resta sempre quella dei gondolini (le formula 1 della laguna) versione più leggera e veloce della celebre gondola.

Per prendere parte a questa competizione i migliori vogatori vengono scremati con una lunga e faticosa selezione di regate secondarie. I gondolini sono barche altamente instabili e l’esperienza gioca un ruolo fondamentale. Non è un caso che negli ultimi vent’anni la vittoria è stata una sfida a due. Dal 1992 al 1995 la vittoria andò alla coppia Franco Dei Rossi Strigheta / Giampaolo D’Este. Nel 1995 incominciò l’epopea dei fratelli Vignotto con 8 vittorie in 11 anni. Nel 1999 però è ancora Giampaolo “Super” D’Este, questa volta con Dei Rossi Strigheta, a vincere privando i due fratelli di Sant’Erasmo del prestigioso titolo di “Re del Remo” e facendo nascere nell’immaginario collettivo una grande rivalità. Altro che Coppi & Bartali! Se sei cresciuto in laguna il dualismo per eccellenza è D’Este Vs. Vignotto.

Dal 2002 D’Este ha trovato in Ivo Redolfi Tezzat un compagno d’avventura in grado di mettere fina al predominio dei Vignotto. Nel nuovo secolo, fra polemiche, tifoserie organizzate, risse, e clamorosi tonfi in acqua, le due coppie si sono divise i trionfi (4 per i Vignotto, 5 per D’Este/Tezzat) ma nessuno di questi quattro formidabili vogatori è mai riuscito a fregiarsi del titolo di re del remo.

IL PROGRAMMA

Ore 16.00: Corteo Storico – Sportivo

Ore 16.45: Regata de le maciarele (Categorie U12 e U14)

Ore 16.50: Regata dei giovanissimi su pupparini a due remi – favoriti: Alvise D’Este – Denis Zanella

Ore 17.10: Regata delle donne su mascarete a due remi – favorite: Luisella Schiavon – Giorgia Ragazzi

Ore 17.40: Regata delle caorline a sei remi – favoriti: l’arancio della Giudecca

Ore 18.00: Sfida Remiera delle Università

Ore 18.10: Regata dei gondolini a due remi – favoriti: Rudi e Igor Vignotto  vs Giampaolo D’Este e Ivo Tezzat

Nicola Sbetti

LA PRIMA GUERRA DELLA PALLANUOTO

Gli innumerevoli conflitti nei Balcani vissuti attraverso uno degli sport più popolari della regione: la pallanuoto.

Quando, nel 1926, si svolsero a Budapest i primi campionati europei riservati agli sport acquatici, la Jugoslavia era un’unica entità nazionale: all’epoca si chiamava Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni ed inglobava anche gli attuali territori di Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Montenegro. Di lì a tre anni sarebbe diventato, più semplicemente, Regno di Jugoslavia. La prima medaglia della nazionale di pallanuoto, tuttavia, arriva solamente nel 1950 ed è un bronzo: nel frattempo è nuovamente cambiata la situazione sul piano geopolitico. Pochi mesi dopo la conclusione della seconda Guerra Mondiale, infatti, era stata proclamata la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, anche se la transizione dalla monarchia alla nuova forma di governo era già avvenuta negli anni precedenti.

Una volta conquistato il bronzo a Vienna – strano scherzo del destino, giacché parte dei territori jugoslavi erano stati, un tempo, sotto il dominio dell’impero austro-ungarico -, la nazionale di pallanuoto siede fin da subito al tavolo delle grandi del Vecchio Continente: il settebello slavo salirà sul podio per ben otto edizioni consecutive, portando a casa quattro medaglie d’argento. Quasi sempre la squadra deve cedere il passo alle altre due potenze pallanotistiche d’Oltrecortina, Ungheria ed Unione Sovietica, ma si vede che manca poco per compiere il salto definitivo.

I primi successi. Negli anni Ottanta, quando iniziano i primi fermenti nazionalisti in seguito alla morte del maresciallo Tito, la Jugoslavia raggiunge finalmente l’apice sotto la guida del santone Ratko Rudić (nella foto a destra): ben due ori olimpici (1984 e 1988, entrambi conquistati ai danni degli Stati Uniti) ed il primo trionfo mondiale, nel 1986 a Madrid con una vittoria all’ultimo secondo sull’Italia. Ed è proprio sulla panchina del Settebello che andrà Rudić, lasciando spazio a Nikola Stamenić. Il nuovo allenatore si guadagna subito la stima dei vertici federali, vincendo nel gennaio 1991 i Mondiali a Perth: in finale la Jugoslavia supera di misura (9-8) la nascente Spagna dei vari Estiarte, Rollán e Sans. La forza della nazionale si basa tutta su due blocchi, quello serbo e quello croato, con il montenegrino Mirko Vičević, protagonista in Italia con la calottina del Savona, come unica eccezione.

Ma, proprio quando sembra che la nazionale balcanica non abbia avversari in grado di contrastarla, ecco piovere dal cielo una nuova tegola: la vittoria, avvenuta l’anno precedente, dei partiti anticomunisti di Jože Pučnik in Slovenia e, soprattutto, di Franjo Tuđman in Croazia. Iniziano le prime rivendicazioni di indipendenza, la situazione precipita e nell’estate del 1991 le autorità sportive croata e slovena proibiscono ai loro atleti di partecipare alle varie competizioni con la selezione jugoslava. Di lì a pochi giorni si aprono gli Europei ad Atene e la squadra di Stamenić, fresca vincitrice del Mondiale, deve rinunciare a cinque pezzi pregiati come Mislav Bezmalinović, Perica Bukić (oggi presidente della federpallanuoto croata), Ranko Posinković, Dubravko Šimenc e persino Ante Vasović, padre serbo e madre croata, appiedato dal suo club, lo Jadran Spalato. I sostituti, comunque, si rivelano all’altezza della situazione e la Jugoslavia sale per la prima volta sul tetto d’Europa: pochi mesi dopo Perth, in finale è nuovamente duello con la Spagna, battuta ancora una volta sul filo di lana (11-10). Croazia e Slovenia si separano. È, comunque, il canto del cigno della nazionale della Jugoslavia unita, giacché l’anno successivo nessuna delle selezioni balcaniche figurerà tra le partecipanti ai Giochi olimpici di Barcellona dove, peraltro, arrivano in finale due allenatori croati: da una parte Ratko Rudić sulla panchina dell’Italia, dall’altra Dragan Matutinović su quella della Spagna. Nel frattempo scoppia la guerra nei Balcani e Bosnia, Croazia, Macedonia e Slovenia ottengono l’agognata indipendenza: la vecchia Jugoslavia di Tito si sgretola, dalla bandiera viene rimossa la celebre stella rossa e a rappresentare la vecchia repubblica federale restano solo Serbia, Montenegro e Kosovo. La nuova nazionale, che rimane sotto la guida di Stamenić, soffre il definitivo addio della componente croata ed impiega qualche anno per rimettere al proprio posto i suoi pezzi: nel 1997, agli Europei di Siviglia, deve accontentarsi dell’argento e l’anno successivo finisce terza ai Mondiali di Perth. Inizia il nuovo millennio e, a dieci anni esatti dal primo trionfo continentale, la Jugoslavia torna nuovamente a dettar legge: chiusa la lunga era di Stamenić, è Nenad Manojlović il nuovo selezionatore. A Budapest serbi e montenegrini battono in finale l’Italia del nuovo corso di Sandro Campagna, che ha preso il posto di Rudic: l’argento in terra magiara rimane, tuttora, l’ultimo podio del Settebello agli Europei.

La battaglia di Kranj. Sebbene gli anni Novanta siano stati quelli che hanno deciso in via definitiva le sorti dei Balcani, è nella successiva decade che sport e politica incrociano maggiormente le loro strade. Lo scenario “perfetto” è quello disegnato dagli Europei del 2003: si gioca a Kranj, in Slovenia, ed in finale arrivano la Croazia e la neonata Serbia-Montenegro (che però sulle calottine riporta ancora la sigla YUG). In acqua ed in tribuna non mancano le scintille: una finale è pur sempre una finale e si affrontano due paesi separati un tempo da un odio reciproco. Alcuni tifosi croati forzano gli ingressi ed entrano senza pagare regolarmente il biglietto La Croazia conduce per lungo tempo l’incontro e arriva fino al 7-4, ma dall’altra parte c’è un avversario indomito che riesce a prolungare la sfida ai tempi supplementari, intervallati dalle medicazioni all’arbitro slovacco Kratovchil, colpito alla testa da un bullone: nella prima delle due proroghe il serbo Šapić segna il gol del definitivo 9-8. Sugli spalti si scatena l’inferno, complice un servizio di sicurezza inadeguato per la circostanza (appena quaranta gli agenti impiegati per controllare quasi tremila persone): gli uligani croati, molti dei quali ubriachi, sradicano i seggiolini e li lanciano con veemenza in acqua e verso le panchine. Un altro gruppo si avvicina alla zona delle tv e danneggia impianti e materiali, interrompendo per alcuni minuti il collegamento Rai. A rinfocolare gli animi ci pensano persino le autorità, con i ministri serbi Boris Tadić e Goran Svilanović che si danno alla pazza gioia: quest’ultimo addirittura si tuffa in acqua per festeggiare la squadra. Non è tutto: a Belgrado i tifosi scendono in strada per festeggiare ma, una volta viste le immagini in tv, si dirigono all’ambasciata croata. Vetri infranti, muri imbrattati, la bandiera a scacchi bianchi e rossi bruciata e sostituita con il tricolore serbo-montenegrino. Analoga situazione a Novi Sad, dove la folla inneggia addirittura ai criminali di guerra Mladić e Karadžić. Scoppia il caso diplomatico: Milan Simurdić, ambasciatore serbo in Croazia, viene convocato d’urgenza dal governo di Zagabria mentre il ministro degli Esteri Tonino Picula annulla una visita in Montenegro.

Dall’ex Jugoslavia alla Serbia. Passano tre anni: gli Europei si svolgono ancora nei Balcani, a Belgrado. Vince la Serbia padrona di casa, orfana però dei giocatori montenegrini: pochi mesi prima (21 maggio) un referendum aveva infatti sancito l’indipendenza del Montenegro, comunque riconosciuta dal governo serbo. Tuttavia, prima della scissione, sotto la bandiera delle due nazioni ancora unite la squadra aveva vinto la sua seconda World League, torneo che solitamente serve come banco di prova in vista degli eventi più importanti. E così la nazionale serba, ora allenata da Dejan Udovičić, passa alla storia per aver vinto quattro volte il titolo europeo con altrettante, diverse denominazioni. L’ultimo episodio degli intrecci tra sport e politica nei Balcani risale all’estate 2008, alla vigilia dei Giochi olimpici di Pechino: a Málaga arrivano in finale proprio Serbia e Montenegro, con vittoria, neanche poi sorprendente, di questi ultimi. La saga si è recentemente arricchita di un nuovo capitolo: a Zagabria indosserà la calottina montenegrina l’esperto portiere Denis Šefik, fino al 2008 in forza alla nazionale serba. La sua ultima apparizione risale ai Giochi di Pechino: qui si rese protagonista di un acceso diverbio (poi degenerato in rissa) all’interno del villaggio olimpico con Aleksandar Šapić, che accusò Šefik di essere stato corrotto proprio dai montenegrini in occasione della finale di Málaga. Le due nazionali non figurano nello stesso girone, ma chissà che il destino non decida di porle nuovamente una di fronte all’altra come nella recente finale di World League e, chissà, regalare altre storie da raccontare.

(Articolo pubblicato sul Numero 1 di Pianeta Sport)