LIBIA-COMORE 3-0 FRA ASSENZE CELATE E FEDELTÀ A GHEDDAFI

Può esserci ancora spazio per il calcio in un paese in cui una rivolta della società civile contro una dittatura durata 42 anni si trasforma in una guerra (civile e internazionale allo stesso tempo) in cui la fazione lealista è sostenuta da soldati mercenari mentre quella filo-democratica ha ottenuto un tardivo ma decisivo aiuto aereo da alcuni dei più moderni e sviluppati eserciti del mondo? Sembrerebbe impossibile ma è così, del resto anche nelle retrovie durante le guerre mondiali si continuò a giocare a pallone.

Certo il campionato, causa forza maggiore, si è dovuto fermare. Inoltre la Confédération Africaine de Football (CAF) ha prima posposto poi assegnato al Sudafrica il Campionato africano under 20, valido come qualificazione al Mondiale di categoria, che originariamente si sarebbe dovuto tenere proprio in Libia. I giovani calciatori nordafricani, qualificati di diritto, sono stati costretti a cedere quest’opportunità ai loro coetanei sudafricani che nelle fasi di qualificazione erano stati eliminati dal Lesotho.

Il calcio però non si è fermato del tutto, il 18 marzo, il giorno della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha imposto la no-fly zone il reporter Cristiano Tinazzi scriveva da Tripoli “È tutto come se non fosse successo niente; ieri sono andato allo stadio di Tripoli e ho visto che c’erano gli allenamenti della nazionale libica che si preparano per la Coppa d’Africa”. Il 26 marzo invece sedici ragazzi dell’under 23 libica sono arrivati in Sudafrica dove il giorno successivo hanno perso con i pari età dei Bafana Bafana per 4-2, palesando un grave ritardo di condizione.  Il 28 marzo infine sul campo neutro dello stadio 26 marzo di Bamako, capitale del Mali (che ospiterà anche il ritorno fra Libia e Sudafrica Under 23), la Libia ha sconfitto 3-0 le Isole Comore che calcisticamente equivalgono alle Fær Øer.

La Libia non è mai stata una potenza calcistica: fra le nazionali del Maghreb è sicuramente quella con meno risultati, storia e tradizione. Il calcio però è a tutti gli effetti lo sport nazionale. Mai qualificata per i Mondiali (per l’edizione del 1994 le sanzioni ONU ne impedirono la partecipazione al torneo di qualificazione) nel palmares può contare solo due apparizioni alla Coppa d’Africa.

Nell’edizione del 1982 arrivò un sorprendente secondo posto, dopo una finale persa ai rigori col Ghana. Quel torneo, organizzato in casa, non vide la partecipazione dell’Egitto che, già in polemica con la Libia sull’assegnazione, diede forfait dopo l’assassinio del presidente Sadat. Per Gheddafi fu un’ottima vetrina di visibilità e propaganda. Durante la cerimonia d’apertura inveì contro la politica francese in Sudan, accusando i “regimi fantoccio dell’Occidente” e più in generale contro l’imperialismo americano, nel tentativo, poi miseramente fallito, di porsi alla guida di un movimento pan-africanista.

Nel 2014 la Coppa d’Africa dovrebbe tornare in Libia e quasi sicuramente Gheddafi non potrà bissare i suoi oceanici discorsi. Il progetto avrebbe previsto il rinnovo degli stadi 28 marzo di Bengasi e 11 giugno di Tripoli, nonché la costruzione di due impianti nuovi a Tripoli e di uno a Misurata. Molto dipenderà dai danni provocati dalle bombe e dalla lunghezza della guerra, tuttavia la Coppa d’Africa del 2014 potrebbe essere la vetrina per il nuovo Maghreb democratizzato.

La nazionale libica allenata dal brasiliano Marcos Paquetá, che in passato ha vinto col Brasile il Mondiale under 17 e quello under 20 e in seguito ha gestito l’Arabia Saudita dal 2005 al 2007, sembra aver trovato una sua dimensione. Prima della guerra il progetto di Paquetá era stato costruito in funzione della qualificazione al mondiale del 2014. Nelle ultime delle quattro partite finora disputate dall’allenatore brasiliano la Libia è stata imbattuta.

Interessanti sembrano i nuovi innesti provenienti dall’estero come il mediano Djamal Mahamat che gioca da 10 anni in Portogallo o l’attaccante Eamon Zayed che, nato in Irlanda da padre libico e madre tunisina, dopo qualche esperienza nelle giovanili irlandesi, ha colto l’opportunità di giocare a livello internazionale con la Libia. La stella della squadra resta comunque il talentuoso trentunenne amante del dribbling Ahmed Sa’ad nato a Bengasi che gioca a Tripoli con l’Al Ahly e che con un gran goal in semi-rovesciata ha deciso la sfida contro lo Zambia.

La partita del 28 è stata la terza del girone di qualificazione alla Coppa d’Africa in cui la Libia è in testa con 7 punti frutto del pareggio col Mozambico per zero a zero e delle vittorie con la Zambia e con le Comore. Fra la partita con lo Zambia e quella con le Comore c’era stato anche il tempo per due successi in amichevole: il 4-1 ai rigori con il Niger e il 3-2 con il Benin.

Il silenzio che circondava la partita con le Comore è stato rotto dall’intervista dell’allenatore Paquetà alla vigilia dell’incontro. Il coach brasiliano, che era fuggito da Tripoli il 23 febbraio e passando per l’Italia era tornato a San Paolo in Brasile, ha raggiunto la Tunisia dove si è tenuto un raduno di fortuna della nazionale. Il giorno prima dell’incontro il tecnico brasiliano ha dichiarato alla stampa di non aver avuto nell’ultimo periodo alcun contatto con Saadi Gheddafi, aggiungendo che avrebbe dovuto fare un importante lavoro psicologico con i suoi giocatori e che si augurava di avere con sé anche i calciatori di Bengasi.

Dal punto di vista politico la partita con le Comore ha dimostrato quanto in Africa Gheddafi possa avere ancora molti alleati. Il Mali è un paese sostenitore del Rais; malgrado le proteste interne della società civile maliana, ha infatti concesso alla nazionale libica lo stadio di Bamako in cui i 20.000 presenti hanno  sostenuto apertamente i calciatori nordafricani inneggiando anche al colonnello. Inoltre anche il presidente delle Comore, Ahmed Abdallah Mohamed Sambi, è un amico personale di Gheddafi tanto che alcuni soldati libici fanno parte della guardia presidenziale delle Comore.

Nonostante le difficoltà logistiche la nazionale libica di Paquetà ha vinto facilmente sulle Comore per 3 a 0 grazie alle reti di Walid Elkhatroushi, Ahmed Wafa e Abdallah Mohamed, curiosamente nessuno di questi tre giocatori era stato utilizzato nelle prime due partite di qualificazione. Pare che ben sette giocatori che si trovano in Cirenaica non abbiano voluto o potuto raggiungere la squadra.

Il capitano libico per questo incontro:  Tariq Ibrahim al-Tayib (anche lui non utilizzato nelle prime due partite di qualificazione) si è dichiarato commosso per il sostegno dei maliani ed ha rilasciato dichiarazioni lealiste affermando che “tutta la squadra sta con Gheddafi”. Ciò dimostra, non tanto il consenso (troppe volte in passato le dichiarazioni di atleti sono state fatte sotto ricatto), ma soprattutto la forza che il Rais ha ancora, quantomeno a Tripoli.

Del resto come scrive James Dorsey autore di un interessante blog sul calcio nel mondo arabo, i calciatori libici, grazie al governo, hanno spesso goduto di uno status privilegiato; il sostegno di almeno una parte della squadra, risponde anche alle dinamiche paternalistiche messe in atto dal dittatore libico nei confronti della nazionale di calcio.

Nonostante la visibilità internazionale di questo incontro le informazioni reperibili sembrano essere vaghe e filtrate, tanto che alla chiusura dell’articolo trovare un tabellino dell’incontro risulta un’impresa pressoché impossibile.

Tuttavia il calcio non sembra essere solamente uno strumento favorevole al regime e alla sua propaganda. Mustafa Abdel Jalil, un ex attaccante della nazionale, è diventato uno dei leader della rivolta contro il regime di Gheddafi. Come molti altri membri della nuova opposizione anche Jalil era un esponente del gabinetto di Gheddafi e uno dei pochi che, prima delle proteste, poteva permettersi di criticare pubblicamente il Rais in virtù della propria fama.

QUANDO LO SPORT HA FATTO L’ITALIA

Oggi si festeggiano i 150 anni dell’unità nazionale: un secolo e mezzo di storia in cui lo sport ha scritto pagine importanti.

A 150 anni di distanza dalla data simbolica scelta per celebrare l’unità d’Italia possiamo con certezza affermare che lo sport non è stato un fattore neutrale, ma ha contribuito costantemente nel definire e ridefinire l’identità italiana. Del resto siamo il paese in cui il quotidiano più venduto è la Gazzetta dello Sport e l’inno di Mameli e il tricolore sono suonati e sventolati principalmente in occasione di eventi sportivi.

Quali sono stati nel corso della storia i 10 momenti più significativi per l’identità italiana? Ecco una personalissima classifica tenendo conto delle diverse discipline e delle differenti epoche storiche.

 

10 L’ITALIA VINCE LA COPPA DAVIS IN CILE (1976)

Grazie a una generazione d’oro rappresentata da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Antonio Zugarelli e Adriano Panatta, il tennis italiano da sport borghese diventa popolare. Panatta, il D’Artagnan fra i moschettieri azzurri, quell’anno vinse anche gli internazionali di Roma e il Rolland Garros.

Fino alla finale, conquistata sconfiggendo la Yugoslavia, la Svezia, il Regno Unito e l’Australia, il cammino degli azzurri è un’apoteosi; il gota del tennis mondiale si deve inchinare agli alfieri azzurri. Il rivale della finale però crea maggiori problemi dal punto di vista politico che non sportivo. Il Cile di Fillol e Cornejo non fa paura ma pone la questione sull’opportunità di giocare in un paese con cui si sono rotte le relazioni diplomatiche e a pochi metri di distanza da uno stadio usato fino a poco tempo prima come campo di concentramento dal regime di Pinochet.

La società civile si mobilita per chiedere il boicottaggio, il Coni e la Fit si muovono nell’ombra per non perdere una vittoria certa, mentre il governo temporeggia difendendosi dietro lo slogan dell’indipendenza dello sport dalla politica. Alla fine gli azzurri vanno in Cile dove vincono facilmente, ma vengono boicottati da parte della stampa tanto che la provocatoria maglietta rossa indossata da Panatta e Bertolucci nella prima parte del doppio non viene neppure citata nei principali quotidiani sportivi. Il trionfo di Santiago 1976 rappresenta allo stesso tempo l’apice del tennis italiano, ma anche uno dei principali momenti in cui le implicazioni politiche veicolate dallo sport hanno provocato la reazione dell’opinione pubblica.

 

9 I DUE ORI DI ALBERTO TOMBA ALLE OLIMPIADI DI CALGARY (1988)

L’anno precedente aveva vinto un bronzo ai mondiali ma alle Olimpiadi di Calgary Alberto Tomba fece un capolavoro conquistando due ori. Il 25 febbraio sfruttando al meglio il pettorale numero 1 vinse lo slalom gigante con un vantaggio abissale su Strolz e Zurbriggen; due giorni dopo conquistò in rimonta anche lo slalom speciale. In quell’occasione l’Italia intera, Festival di Sanremo compreso, si fermò per accompagnare la discesa di Albertone.

Le vittorie di questo ragazzo degli Appennini cancellarono la credenza per cui  solamente gli abitanti delle valli alpine potevano eccellere in questa disciplina. La saga di “Tomba la Bomba”, che smise ben presto di partecipare ai super giganti e alle discese libere perché “la mamma non vuole”, continuò per tutti gli anni Novanta. Arrivarono altre tre medaglie olimpiche e altrettante mondiali, quattro coppe di specialità, sia in gigante sia nello speciale, e soprattutto la coppa del mondo del 1995.

Più ancora dei trionfi di Zeno Colò e Gustav Thöni  furono soprattutto quelli di Tomba che permisero allo sci di uscire dalle Alpi, diventando in tutto e per tutto lo sport per eccellenza delle vacanze natalizie degli italiani.

 

8 IL MONDIALE DI CALCIO IN GERMANIA (2006)

La vittoria del Mondiale di calcio del 2006 è un fulmine a ciel sereno, una saettata d’orgoglio nazionale: inaspettata, intensa e fugace. Sono passati 5 anni e sembra già un’eternità.

L’Italia calcistica si era trovata nel pieno dello scandalo di corruzione ribattezzato Calciopoli; quella politica si appoggiava sul voto dei senatori a vita per poter legiferare. La vittoria è il trionfo dello stereotipo calcistico italiano costruito su una grande difesa e in cui a risultare decisivi non sono i campioni più attesi (Totti, Del Piero, Toni, Gilardino) bensì i gregari e le seconde linee (Grosso e Materazzi).

Dal punto di vista dell’identità nazionale la vittoria del mondiale appare per alcuni mesi una speranza di rinascita, ancor più perché le vittorie decisive giungono contro Francia e Germania, due paesi verso cui il gap economico tende ad allargarsi, ma non è che un’illusione poiché anche il calcio, nel quinquennio successivo seguirà il declino del paese. Senza un’adeguata programmazione e un investimento sui vivai, il futuro dell’Italia (non solo calcistica) difficilmente potrà essere roseo.

 

7 IL TITOLO MONDIALE DI PRIMO CARNERA (1933)

Primo Carnera è l’atleta che prima di ogni altro ha contribuito al successo del pugilato in Italia. Iniziò la carriera come fenomeno da baraccone funzionale alle esigenze della malavita italo-americana. Col tempo però affinò la tecnica e divenne un ottimo pugile. Grazie alle vittorie su Uzkudum e Schaaf (che morì 4 giorni dopo il combattimento per la somma dei pugni subiti da Carnera e Baer) Carnera smise di essere un simbolo solo per gli italo-americani e venne adottato anche dal regime fascista. Nel 1933 raggiunse l’apice della propria carriera quando sfidò Jack Sharkey al Madison Square Garden per il mondiale, mettendo K.O. il pugile americano alla sesta ripresa, conquistando così il titolo.

Carnera mantenne la corona contro Uzducum ma nel 1934, dopo la sconfitta con Baer, iniziò la sua parabola discendente. Per volere del regime fascista, che aveva scelto il pugile per autorappresentarsi, i giornali ne oscurarono il declino fino a farlo cadere nell’oblio.

Il gigante buono e ingenuo, raggirato dai manager e strumentalizzato dal regime, resta però il capostipite di una tradizione pugilistica italiana che ha prodotto campioni come Nino Benvenuti, Patrizio Oliva e Roberto Cammarelle.

 

6 IL RECORD DEL MONDO DI MENNEA (1979)

Nonostante dei riflessi alla partenza non certo felini e uno stile di corsa giudicata dai puristi brutto, sgraziato e rigido, Pietro Mennea da Barletta, con la sua progressione di corsa inimitabile, è stato il più grande atleta italiano che abbia calpestato le piste d’atletica. Professionista dell’allenamento nel quale si sottoponeva con carichi di lavoro impressionanti, Mennea incarnava la rabbia di un sud Italia povero di infrastrutture ma dalla grande passione sportiva.

Il 12 settembre 1979 alle Universiadi di Città del Messico vinse i 200 metri in 19’’72, un record del mondo che resistette per ben 17 anni quando fu superato da un altro grandissimo della disciplina, Michael Johnson. Mennea certificò quel record aggiudicandosi l’oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980.

Il piccolo velocista bianco capace di competere alla pari con i fenomeni americani oltre a tre medaglie olimpiche, due mondiali e 6 europee, non solo è un pluri-laureato, euro-parlamentare e avvocato di successo, ma probabilmente è stato uno dei grandi dirigenti sportivi mancati del nostro paese.

 

5 LE OLIMPIADI DI ROMA (1960)

Dopo le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 quelle di Roma del 1960 (assegnate nel 1965) certificano la ritrovata credibilità dell’Italia all’interno della comunità internazionale.

Le Olimpiadi italiane giungono nel pieno del boom economico, mostrano la grandezza architettonica di Pierluigi Nervi e, sfruttando preparati dirigenti e tecnici sportivi (alcuni dei quali nostalgici del regime), portano un bottino di  36 medaglie (13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo). Fra esse brillano quelle di Livio Berruti sui 200 metri, Musso – Benvenuti – de Piccoli nella boxe, del settebello, Delfino nella spada e le sette nel ciclismo.

Anche se le Olimpiadi sono segnate dalla morte del ciclista Enemark Jensen, notizia sostanzialmente taciuta e censurata dalla stampa italiana, l’“Olimpiade dal volto umano” impressiona gli osservatori stranieri per l’efficienza messa in campo da un paese troppo spesso sottovalutato.

 

4 LA TRAGEDIA DEL SUPERGA (1949)

Il 4 maggio del 1949 è una data maledetta. Il trimotore Fiat G 212 di ritorno da Lisbona alle 17.03 si schianta contro il colle che ospita la Basilica di Superga, non ci sono sopravvissuti. Fra le 31 vittime 18 sono calciatori del Torino: Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert. Centinaia di migliaia di persone vollero omaggiare quella squadra a cui fu assegnato il 5° scudetto. Un anno più tardi la nazionale di calcio, piuttosto che prendere l’aero, affrontò una lunghissima trasferta in nave.

Dopo la distruzione causata dalla guerra e dall’oppressione del ventennio fascista, dal 1946 a quella luttuosa giornata il “Grande Torino”, con il suo gioco spumeggiante e i suoi successi, aveva incarnato i desideri di rinascita degli italiani.

Lo schianto del 1949 privò il calcio italiano della sua gioventù migliore. Montanelli scrisse: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta»

 

3 LA MARATONA DI DORANDO PIETRI (1908)

Il 24 luglio 1908 si disputa la maratona, gara principale delle Olimpiadi di Londra del 1908; fra i partecipanti c’è un baffuto corridore di Carpi che di mestiere fa il garzone. A dispetto dei pronostici quando entra nel White City Stadium si ritrova con un vantaggio abissale sui rivali e la folla lo accoglie con un’ovazione. Dorando Pietri però non corre più, ciondola accecato dalla stricnina (sostanza allora presa comunemente da tutti i corridori) e prende la direzione sbagliata collassando a terra più volte. Incitato dalla folla e sorretto da un megafonista e da un medico, impiega 10 minuti a compiere gli ultimi metri e dopo aver tagliato la linea del traguardo crolla a terra. L’aiuto ricevuto gli costa la squalifica ma quando l’indomani riprese conoscenza fu ricoperto di elogi, fiori e regali fra cui quello della Regina Alessandra che, poiché non era stato responsabile della propria squalifica, lo omaggiò con una coppa piena di sterline.

La stampa italiana diede per la prima volta grande risalto all’evento e il carpigiano, autore di un’impresa che neppure i giudici poterono cancellare, divenne così la prima leggenda, celebrata tutt’oggi, dello sport italiano.

 

2 IL MONDIALE DI SPAGNA (1982)

Mettiamo da una parte l’immagine di Mussolini che pontifica il successo (con annesso saluto romano) della nazionale italiana ai Mondiali del 1934 (poi ripetuto nel 1938 e alle Olimpiadi del 1936) e dall’altra il presidente della repubblica Sandro Petrini che, dopo aver celebrato il successo azzurro, gioca a scopa con Zoff, Causio e Bearzot; la differenza fra i successi degli anni ‘30 e quello degli anni ‘80 sta tutta qui.

Anche la modalità con cui venne raggiunto questo successo contribuisce ad accrescere il mito del Mondiale dell’82. Dopo un quadriennio di critiche e una qualificazione alla seconda fase ottenuta da tre striminziti pareggi, la squadra italiana fece quadrato, dichiarando il silenzio stampa, e da brutto anatroccolo si trasformò in un cigno. Grazie ai goal di Paolo Rossi e alle serpentine di Bruno Conti l’Italia si laureò per la terza volta campione del mondo, sconfiggendo nell’ordine: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest. La vittoria calcistica e il triplice “campioni del mondo” urlato dal telecronista Nando Martellini certificarono la fine della crisi degli anni Settanta e l’inizio di una stagione di benessere diffuso, basato sul debito, e incarnato dalla “Milano da bere”.

 

1 GINO BARTALI CHE VINCENDO IL TOUR “SALVA” L’ITALIA DALLA GUERRA CIVILE (1948)

Bartali, come Carnera, è stato uno di quei simboli sportivi che il fascismo aveva fatto propri. Ginettaccio però, vicino all’Azione Cattolica, non sostenne mai, neppure simbolicamente il partito fascista, evitando di posare in camicia nera o di prestarsi al saluto romano. Nel 1938, quando vinse il suo primo Tour de France, venne ampiamente strumentalizzato dal regime fascista.

La guerra privò Bartali dei suoi anni migliori ma portò in Italia la democrazia. Il dopoguerra di Ginettaccio fu segnato dal rifiuto di candidarsi con la DC, dalla rivalità (più nell’immaginario collettivo che non nella realtà) con Fausto Coppi e da un sogno: rivincere il Tour de France a 10 anni di distanza. “È troppo vecchio” dissero in tanti, ma le critiche aprioristiche non fecero altro che caricare la cattiveria agonistica del testardo campione toscano.

Nell’aprile del 1948 si erano tenute le prime elezioni della Repubblica italiana, vinte dalla Democrazia Cristiana ma le tensioni interne e internazionali contribuivano ad accrescere il clima di divisione in seno al paese. Gino partì alla volta del Tour, accordandosi con Binda, suo “direttore sportivo”, per una partenza lenta volta a far credere che Bartali fosse fuori forma. Irritato per la poca considerazione nei suoi confronti e accusato da alcuni ciclisti di essere troppo vecchio, Gino andò a vincere la prima tappa facendo infuriare Binda. Dopo questa “bravata iniziale” Bartali seguì le direttive del suo stratega per far sì che i rivali, Bobet e Robic, si scannassero fra di loro. Dopo aver accumulato nelle prime tappe un ritardo di 20 minuti il campione toscano conquistò due importanti successi a Lourdes e a Tolosa, ma il 13 luglio, complice una foratura, finì vittima di una trappola ordita dai francesi che si allearono “fregandolo come un bischero” e ricacciandolo nuovamente a più di 20 minuti di ritardo.

Il giorno successivo era previsto riposo e, mentre Bartali rimuginava sulla tappa di Cannes, a Roma Antonio Pallante scaricò quattro colpi di rivoltella sul segretario del PCI Palmiro Togliatti, che, tifoso di Bartali, nei giorni precedenti si era personalmente assicurato che l’Unità sostenesse il ciclista toscano al di là dello stereotipo secondo cui la rivalità Coppi/Bartali fosse anche politica. Con Togliatti in fin di vita, le piazze si  riempirono e la Cigl proclamò lo sciopero generale. Non appena la notizia di un pericolo rivoluzionario arrivò a Cannes, i giornalisti italiani lasciarono il Tour e i gregari di Bartali, preoccupati per le loro famiglie, spinsero a fare altrettanto. Il toscanaccio era ormai convinto di aver perso il suo sogno di poter rivincere il Tour quando arrivò una telefonata di Alcide de Gasperi che chiese: «Pensi di poter vincere ancora il Tour? Sai, sarebbe importante. Non soltanto per te». Il giorno successivo Bartali fece l’impresa scalando in modo imperioso l’Izoard e recuperando quasi tutto il distacco su Bobet. Il 16 luglio era nuovamente in maglia gialla che portò orgogliosamente fino a Parigi.

Togliatti, che nel frattempo si era ripreso, dall’ospedale predicò la calma contribuendo in modo decisivo a smorzare il clima di guerra civile, ma chiese anche notizie di Bartali al Tour. La retorica cattolica non poteva certo concedere al proprio rivale politico il merito di aver salvato la democrazia dalla guerra civile; Bartali era un simbolo molto più adatto e per di più era amato, nonostante i niet dogmatici, anche a sinistra. Fu così che man mano che la minaccia rivoluzionaria retrocedeva, il mito di Bartali come salvatore della patria prese forma e si cristallizzò come leggenda nella storia italiana.

Articolo scritto per www.thepostinternazionale.it e pubblicato anche per www.pianeta-sport.net e www.centrostudiconi.it
(Le citazioni su Bartali sono tratte da Turrini, Bartali, L’uomo che salvò l’Italia pedalando, Milano, Mondadori, 2004 e Facchinetti, Bartali e Togliatti, Roma, Campagna Editoriale, 1981)

L’ANNO DI GAYASHAN

Se il buongiorno si vede dal mattino, non ci sono dubbi: il 2011 è l’anno di Gayashan Ranga De Silva Munasinghe, lanciatore della nazionale italiana di cricket, nato a Colombo il 7 ottobre 1986 e residente a Roma. Ha fatto parte della spedizione azzurra, contribuendo con 13 wicket, alla salvezza nella World Cricket League di terza divisione di Hong Kong e distinguendosi come uno dei migliori lanciatori del torneo. Un mese dopo era nuovamente in viaggio verso l’Asia, destinazione Dubai, dove ha preso parte alla ICC Global Cricket Academy, che per dieci giorni ha riunito numerosi talenti del cricket internazionale seguiti dai migliori allenatori. Dopo questa prestigiosa esperienza è tornato in Italia giusto in tempo per giocare e vincere la Supercoppa italiana. Se questi sono i presupposti, chissà quali altri successi potrà ottenere nel proseguimento della stagione l’atleta di origine cingalese.

Come e quando hai cominciato a giocare a cricket?

«Ho iniziato a giocare a cricket quando avevo dieci anni, in Sri Lanka: sono partito dalla categoria Under 13 rappresentando la mia scuola, il Carey College di Colombo. Crescendo, ho continuato il mio percorso nell’Under 15 e nell’Under 17. Dopodiché sono venuto qui in Italia dove ho raggiunto la mia famiglia che lavorava a Roma. In Italia ho dapprima vestito la maglia della Lazio, poi quella del Capannelle e dall’anno scorso faccio parte del Latina Lanka. In Inghilterra, poi, gioco anche per il Cowdrey Cricket Club nel Kent».

Sei il miglior lanciatore del campionato italiano, a chi ti ispiri e chi sono stati i tuoi maestri?


«Il mio modello è  il lanciatore australiano Glen McGrath, uno dei migliori lanciatori di tutti i tempi. Invece i miei maestri più importanti sono stati Pieris Sir, che mi ha insegnato a giocare a cricket quando ero piccolo e andavo ancora a scuola, Kariyawasam, mio primo mentore in Italia, e infine Philip Hudson, che ho recentemente incontrato a Dubai».


Il tuo 2011 è stato davvero intenso: come sono state le esperienze di Hong Kong  e Dubai?

«Sì, questo inizio di 2011 si è rivelato per me davvero fortunato: è iniziato bene a Hong Kong dove, anche se abbiamo perso tre partite che potevamo vincere, siamo stati contenti per essere rimasti in terza divisione e per aver battuto la Danimarca e gli Stati Uniti. A Dubai ho vissuto un’esperienza meravigliosa: avevamo a nostra disposizione i migliori allenatori, molti dei quali con una fantastica carriera da giocatore alle spalle. Inoltre i campi erano straordinari e il clima si è rivelato clemente. Grazie all’Accademia ho passato dieci giorni incredibili in cui ho fatto numerose amicizie e ho imparato moltissimo, specialmente per quel che riguarda i metodi di allenamento».


Con la tua squadra, il Latina Lanka, hai appena vinto la Supercoppa italiana: che impressione ti ha fatto giocare un’incontro semi-ufficiale 8 a side indoor?

«Vincere la Supercoppa italiana è stata un’ulteriore soddisfazione. Il cricket indoor era una cosa nuova non solo per l’Italia ma anche per noi. Comunque siamo contenti di avere qui da noi un altro tipo di cricket in cui possiamo migliorare: poiché questa tipologia dura poco, credo che si potrà riproporre un torneo anche l’anno prossimo».


Stai seguendo il Mondiale di cricket? Chi è il tuo favorito?


«Sì, sto seguendo i Mondiali: vorrei che vincesse lo Sri Lanka. perché è lì che sono nato ed ho imparato a giocare a cricket. Secondo me, visto che si gioca in Asia, assieme al mio paese natale le favorite sono l’India e il Pakistan. Però l’Inghilterra, il Sud Africa e l’Australia non sono da sottovalutare».

CRICKET: AL LATINA LANKA LA SUPERCOPPA

La stagione italiana del cricket è cominciata in modo insolito, non su prati verdi ma all’interno di una palestra. Domenica 27 febbraio il Palasavena di San Lazzaro (provincia di Bologna) ha infatti ospitato il “Trofeo città di San Lazzaro di Savena”, immediatamente ribattezzato in maniera non ufficiale “Supercoppa italiana” perché i campioni d’Italia del Tecnessenze Pianoro Cricket Club sfidavano i vincitori della Coppa Italia del Latina Lanka Cricket Club.

 

L’incontro è stato voluto e organizzato dal delegato regionale della federazione di cricket  Davide Gubellini (già presidente del comitato organizzatore della World Cricket League di Bologna) e dal Pianoro Cricket con il suo presidente Parisi, per cercare di promuovere gli incontri indoor e riempire con competizioni agonistiche l’altrimenti vuota stagione invernale. L’evento ha quindi assunto un carattere sperimentale; come traspare dal consiglio federale del 19 febbraio esiste l’intenzione da parte della federazione di valutare se rendere ufficiale, a partire dal prossimo anno, l’idea di una Supercoppa italiana e l’istituzione di un vero e proprio campionato indoor.

 

Dal lontano 2003, quando fu organizzato a Pianoro un torneo con quattro squadre, non si disputavano incontri indoor di una certa importanza. Lo stesso è accaduto sostanzialmente a livello di nazionale dove, dopo l’ottavo posto del 2000, il nono del 2001, l’eliminazione ai quarti del 2002 e quella agli ottavi del 2003, nelle edizioni del 2004, 2005 e 2006 l’Italia non ha partecipato agli European Indoor Championship, che dal 2007 non si sono più disputati.

 

In questi incontri era stata adottata la formula six a side, ovvero con sei giocatori per squadra, quello di San Lazzaro invece si è disputato con la formula eight a side: otto giocatori per squadra, lanci limitati a 6 over (36 palle in tutto), cinque partite e la prima che ne vince tre si aggiudica il trofeo.

 

Il Latina Lanka, squadra composta esclusivamente da atleti di origine cingalese che lo scorso anno ha partecipato al campionato italiano di serie C, si è presentato a pieno organico, con uno degli “eroi di Hong Kong”, Gayashan Munasinghe, di ritorno da Dubai, dove aveva preso parte alla ICC Global Cricket Academy. Il Pianoro ha invece fatto affidamento ai prodotti del vivaio locale guidati dall’altro reduce della World Cricket League di Hong Kong, Hemantha Jaysena, supportato dai pre-convocati Poli e Di Giglio. Sotto la direzione dell’arbitro internazionale, Samantha Ketipe, i laziali hanno avuto la meglio sugli emiliani per tre partite a zero, vincendo col risultato di  27 – 36, 36 – 25 e 52 – 38.

 

La competizione, che ha visto l’esordio di MoneyGram come sponsor ufficiale del cricket italiano per la stagione 2011, ha riscontrato un notevole successo ed è plausibile che nel prossimo futuro l’idea della Supercoppa italiana sarà riproposta come evento ufficiale, così come la possibilità di istituire un campionato indoor six a side.

 

Si ringrazia Luca Poli per la collaborazione

PASTA DEL CAPITANO

Nel cricket il capitano ha un’importanza maggiore rispetto ad ogni altro sport: è lui che nel corso della partita ha il compito di impostare la strategia di gioco, nonché di scegliere l’ordine dei suoi uomini in battuta e i turni dei lanciatori. E Alessandro Bonora non è da meno. Il batsman azzurro è nato a Bordighera, ma è cresciuto e vive in Sudafrica: è uno dei veterani di questa squadra, avendo fatto il proprio esordio in maglia azzurra nel 2000.

Alessandro, come giudichi il torneo dell’Italia?

«Siamo davvero molto contenti di come è andata. Certo, sarebbe stata una gran cosa per il cricket italiano se fossimo passati in Seconda Divisione. In realtà abbiamo persino avuto la possibilità di farlo, tuttavia fin dall’inizio c’eravamo detti che un’eventuale promozione sarebbe stata un extra, perché il nostro reale obiettivo era quello di rimanere in Terza Divisione, un risultato che in precedenza non era mai stato raggiunto nella storia del cricket italiano. Abbiamo anche accresciuto la nostra posizione nel ranking mondiale (24° posto): mai in passato erano stati raggiunti questi livelli. Per questo siamo veramente entusiasti del risultato e sentiamo di aver fatto un ulteriore passo in avanti nello sviluppo del cricket italiano».

Come giudichi dal punto di vista personale il tuo torneo?

«Sono molto soddisfatto delle mie prestazioni. Devo ammettere che mi ero caricato addosso troppa pressione per la voglia di migliorare le mie performance rispetto allo scorso agosto a Bologna. Sono davvero contento anche perché ho finalmente messo a segno un century (segnare più di 100 punti. 124 not out nello specifico, ndr) con la maglia dell’Italia: il mio primo dopo 12 anni di gioco».

Qual è stato il momento più bello del torneo?

«Sicuramente la vittoria contro gli Stati Uniti che ci ha garantito la salvezza in Terza Divisione. Eravamo molto tesi prima della partita e la pressione era altissima perché, di fatto, si trattava di una finale: chi vinceva era salvo, chi perdeva sarebbe retrocesso. Abbiamo sofferto molto contro Papua Nuova Guinea, Oman e Hong Kong, tre partite che potevamo vincere: per noi è stato molto difficile accettare il fatto di non averne vinta nemmeno una delle tre. L’aver tenuto testa agli Stati Uniti, una delle favorite del torneo nonché la squadra che ci aveva battuto ad agosto nella finale, è stato per noi motivo di grande orgoglio. Quella vittoria ha dimostrato che la nostra squadra ha testa e cuore e che negli ultimi due tre anni siamo riusciti a compiere un salto di qualità notevole».

Qual è stata la squadra più forte che avete affrontato?

«È difficile rispondere: tutte le squadre, come hanno dimostrato i risultati, si equivalevano. Secondo me, nel lancio e nel fielding Papua Nuova Guinea si è rivelata la più forte, ma in battuta abbiamo sofferto molto contro Oman e Hong Kong. Questi ultimi, soprattutto, hanno dimostrato una grande voglia di vincere».

Come hai trovato Hong Kong?

«Per me è stata un’esperienza bellissima e molto interessante. Nelle strade c’era moltissima gente, i grattacieli sembravano non finire mai. Inoltre ho incontrato suoni, colori e cibi che non avrei mai immaginato. I campi da cricket erano magnifici e siamo stati ospitati in maniera assai generosa. Siamo invece stati sorpresi dal clima: nessuno si aspettava che in Asia potesse essere così freddo. La prima sera, quindi, siamo stati costretti a correre ai ripari comprandoci delle giacche».