GODI FIORENZA

Tutto pronto nel capoluogo toscano per la Super Final della World League maschile.

Mancava da tanti anni – dodici, per l’esattezza – la grande pallanuoto internazionale, a Firenze. Mancava da dodici anni alla piscina Costoli, storico impianto all’aria aperta rimesso in sesto con un investimento da 200mila euro. E la prossima settimana, dal 21 al 26 giugno, torna in grande stile con la Super Final della World League maschile. Che, per la seconda volta, farà tappa in Italia a tre anni di distanza dall’edizione disputata a Genova. Per la Federnuoto, reduce dall’organizzazione dell’atto finale dell’Eurolega maschile, è certamente un onore, per il Settebello del ct Sandro Campagna l’occasione di confrontarsi con le migliori squadre al mondo – mancano, a voler cercare il pelo nell’uovo, solo Spagna ed Ungheria – e di dimostrare che l’argento conquistato lo scorso settembre agli Europei di Zagabria non è stato episodico.

Proprio gli azzurri sono stati inseriti nel girone A, un gruppo piuttosto impegnativo come testimonia la presenza di Serbia e Stati Uniti. I balcanici arriveranno in Toscana ebbri di entusiasmo per la conquista dell’Eurolega ad opera del Partizan Belgrado, che rifornisce numerosi elementi alla nazionale guidata da Dejan Udovičić: il ct era a Roma, a visionare conferme e possibili innesti per la sua squadra, e avrà appuntato ben più di un nome sul proprio taccuino. Da non dimenticare, poi, che i vari Mitrović, Nikić, Rađen, Prlainović e Udovičić si presenteranno alla Costoli in qualità di detentori del titolo e, soprattutto, di vincitori della competizione in tre delle ultime quattro edizioni. Attenzione anche agli Stati Uniti, unica potenza pallanotistica non europea: sotto la guida di Terry Schroeder gli americani si sono sempre più imposti sulla scena internazionale, arrivando a conquistare un argento olimpico ed un quarto posto ai Mondiali. Merito di quei giocatori cresciuti nei campionati del Vecchio Continente, con il centrovasca di origini brasiliane Tony Azevedo su tutti. Vittima predestinata, invece, sembrerebbe essere la Cina che lo scorso autunno ha visto sfumare, per un solo gol di distacco, il sesto oro della sua storia ai Giochi asiatici: tra gli uomini di Tianxoing Cai e gli avversari c’è un divario al momento incolmabile, la qualificazione ai danni di Giappone, Nuova Zelanda e, soprattutto, Kazakistan è comunque il segnale che il movimento sta andando nella giusta direzione.

Nel girone B la corsa al primo posto pare essere tutta una questione – ma guarda un po’ – balcanica: la Croazia, che il santone Ratko Rudić ha trascinato sulla vetta dell’Europa, ed il Montenegro di Petar Porobić sono, indubbiamente, le corazzate di questo gruppo. Il confronto diretto tra le due nazionali sarà un’interessante rivincita della finalissima dell’edizione di due anni fa, disputata a Podgorica e vinta dai padroni di casa. A completare il gruppo l’Australia di John Fox che, come dimostrato lo scorso anno a Niš, ha saputo voltar pagina dopo il traumatico addio di Pietro Figlioli per il Settebello e, infine, il Canada: i cugini “poveri” degli USA affideranno le chiavi della squadra al promettente Justin Boyd, giocatore in forza al Budva, che nella recente Final Four di Eurolega ha messo a segno una doppietta nella finale per il terzo posto.

 

ALLA CACCIA DEL MAGNIFICO SETTE

Alla scoperta del Partizan Belgrado, che alla Final Four di Eurolega proverà a conquistare la settima Coppa dei Campioni della sua storia.

Un inizio difficile, difficilissimo. Poi la ripresa. E, infine, il decollo. E il finale come sarà? Tutto da scoprire, impossibile da pronosticare con certezza matematica. Delle quattro partecipanti alla Final Four di Eurolega che verrà ospitata a Roma il 3 e 4 giugno, il Partizan Belgrado è certamente quella meno facile da decifrare. Non sono, invece, un mistero le intenzioni dei serbi: nello specchio d’acqua del Foro Italico cercheranno di portare a casa l’ambito trofeo. Se così fosse, il Partizan raggiungerebbe a quota sette il Mladost, avversario in semifinale.

E pensare che, fin dagli inizi, l’avventura continentale non prometteva nulla di buono: subito una sconfitta (10-8) proprio contro il Mladost, poi un sofferto pareggio – per giunta a Belgrado – contro il Club Natació Barcelona. La qualificazione non era affatto compromessa, ma un solo punto in due partite non era degno di una squadra con grandi tradizioni. Poi, la svolta: pur senza particolari acuti, gli uomini di Igor Milanović, leggenda vivente della pallanuoto con 540 gol segnati in nazionale, battono (9-7) l’Olympiakos alla piscina del Pireo. E, da questo momento, non perdono un solo incontro. Bissano il successo contro i greci, ridotti ai minimi termini. E, soprattutto, vendicano la sconfitta di Zagabria segnando addirittura quattordici reti al Mladost (14-7 il finale). Il primo posto, e la qualificazione ai quarti di finale, è cosa fatta.

Ancor più trionfale il cammino nel turno successivo: sei vittorie in altrettante partite, esattamente come la Pro Recco. I bianconeri dominano incontrastati un girone particolarmente difficile, che li vedeva opposti ai croati dello Jug Dubrovnik e ai montenegrini dello Jadran Herceg Novi e del Budva. Ma il calendario impegnativo si è rivelato poco più di una formalità. Decisivo il 13-10 con cui i serbi hanno sbancato l’avveniristica piscina della città dalmata. E, dopo essersi dovuto accontentare del terzo posto un anno fa a Napoli, il Partizan tenta nuovamente di realizzare il sogno proibito.

Il punto di forza di Igor Milanović potrebbe essere il grande affiatamento dei suoi giocatori: molti di loro, infatti, figurano sempre nella nazionale guidata da Dejan Udovičić che, in un anno, ha cambiato un solo elemento. Il principale spauracchio delle difese avversarie si chiama Andrija Prlainović: 24 anni, pedina inamovibile della nazionale, ha segnato venti reti nell’attuale Eurolega. Tante quante ne ha realizzate il centroboa Duško Pijetlović, di due anni più anziano, perfetto terminale offensivo. E se le sedici marcature dell’immortale Vujasinović, ex Roma e Recco, non fanno notizia, la vera rivelazione è il ventenne Miloš Ćuk, andato in gol per tredici volte. Al di sotto delle aspettative, invece, il contributo di Theodoros Chatzitheodorou: arrivato a Belgrado dopo quindici anni al servizio dell’Olympiakos, l’universale greco ha segnato solamente quattro reti. Chissà che non si svegli proprio nel finale di stagione.

C’ERAVAMO TANTO ODIATI

Si va verso un possibile ingresso dei serbi nella Jadranska Liga, dove giocano croati, montenegrini e sloveni.

La vecchia Jugoslavia di Tito è un ricordo ormai sbiadito: quel paese rivive solo nelle menti di chi è cresciuto negli anni Settanta e Ottanta, nelle mappe ingiallite degli atlanti stampati in quel periodo. La vecchia Jugoslavia unita rimase sotto le macerie della guerra che scoppiò nei Balcani venti anni fa, vittima del nazionalismo che fece la sua avanzata nei vari paesi: ognuno va avanti per la propria strada, covando l’odio per i vicini di casa che, fino al giorno prima, erano da considerarsi fratelli. Eppure, venti anni dopo, lo sport sembra riunire di nuovo, idealmente, sotto un’unica bandiera gli stati balcanici.

Risale, infatti, a qualche settimana fa la proposta dei vertici della Federnuoto serba di iscrivere tre delle loro squadre alla Jadranska Liga, la Lega Adriatica. Nato nel 2008-09, è un campionato che comprende squadre di Croazia, Montenegro e Slovenia, istituito con l’intento di dare maggior visibilità alla pallanuoto, grazie alla garanzia di un campionato più incerto e spettacolare e dal maggior tasso tecnico. L’idea di un campionato internazionale nei Balcani l’aveva già partorita Aleksandr Šoštar, oggi presidente del Partizan Belgrado, ai tempi dell’Europeo di Kranj ma venne concretizzata solamente cinque anni più tardi. La nuova proposta incontra immediatamente i favori di dodici diverse squadre, di cui otto dalla Croazia, tre dal Montenegro ed uno dalla Slovenia: la prima, storica squadra vincitrice è lo Jug Dubrovnik e la Lega Adriatica tutto sommato piace. Tanto più che gli incontri tra squadre croate sono ritenuti validi ai fini anche della massima divisione nazionale. E, se la vecchia Jugoslavia fosse ancor oggi un’unica entità, la Jadranska Liga sarebbe il suo campionato (quasi) perfetto. Quasi, perché viene tagliata fuori la Serbia, espressione di una delle principali scuole pallanotistiche dei Balcani, inizialmente inclusa nel progetto assieme a Grecia ed Ungheria.

E Belgrado, assieme ad altri paesi rimasti ai margini della neonata Lega Adriatica, decide di formare un altro campionato sovranazionale: l’Euro Interliga. L’Ungheria, schierando sei squadre, è la nazione più presente: completano il plotone delle partecipanti due serbe – Partizan e Vojvodina -, una rumena – Oradea – ed una slovacca – Hornets Košice. Anche in questo caso alcune partite, nella fattispecie quelle tra squadre ungheresi, hanno un valore anche nel rispettivo campionato nazionale. Lo scontro tra la scuola magiara e quella balcanica rende accattivante l’Euro Interliga, ma in acqua non c’è storia: trionfa il Partizan, vincendo tutte le diciotto partite in calendario. E anche nel campionato serbo il divario tra i grandi squadroni della capitale ed il resto della concorrenza è netto, abissale. Intanto la Jadranska Liga si amplia con l’ingresso dei montenegrini dell’Akadimija Kotor, che a primavera alzeranno la Coppa LEN.

Riparte, poi, una nuova stagione. Quella in corso. In Serbia nessuno riesce a detronizzare il Partizan: i bianconeri colonizzano il campionato già dopo sei giornate, senza mai incappare in una sconfitta o anche soltanto in un pareggio. Dietro provano a tenere (inutilmente) lo stesso passo la Stella Rossa ed il Vojvodina di Novi Sad. Poi il vuoto, con Belgrado e Žak che si contendono il penultimo posto e con il Niš ancorato nei bassifondi della classifica. Gli stimoli sembrerebbero venir meno.

I massimi organi della pallanuoto serba, dunque, decidono di fare uno storico passo in avanti: chiedono alla Jadranska Liga di far partecipare anche Partizan, Stella Rossa e Vojvodina al prossimo campionato. A Zagabria si riuniscono il segretario generale Marko Stefanović, il direttore tecnico Darko Udovičić ed il presidente della commissione internazionale Đorđe Perišić in rappresentanza dei serbi e gli ex campioni Perica Bukić, Milivoje Bebič e Tomislav Paškvalin come delegati della Jadranska Liga. Entrambe le parti fiutano l’affare: con l’ingresso di tre nuove squadre di indiscutibile valore il campionato ne gioverebbe in termini di spettacolo. Con conseguente aumento di pubblico e, possibilmente, di sponsorizzazioni. Non solo: si tratterebbe di una riunificazione – seppur non riconosciuta in ambito politico – di gran parte della vecchia Jugoslavia. E non può non balzare alla mente quanto accadde nel 1991, quando la nazionale maschile vinse i Mondiali di Perth e, qualche mese dopo, agli Europei di Atene dovette rinunciare ai suoi giocatori croati e sloveni: le rispettive federazioni sportive avevano infatti impedito ai loro atleti di gareggiare in qualsiasi competizione sotto la bandiera jugoslava.

Il nodo da sciogliere è quello economico: portare la Lega Adriatica a sedici squadre comporta un aumento delle partite da giocare e, soprattutto, dei costi. Ma a Zagabria non sembrano sussistere motivi per impedire l’apertura della Jadranska anche ai club serbi. La pallanuoto europea può crescere e salire ulteriormente alla ribalta. E, forse, anche ricucire qualche strappo nella rattoppata terra dei Balcani.

CALCIO E NAZIONALISMO: LO STELLA ROSSA VA ALLA GUERRA

Dopo i disordini che hanno portato al rinvio di Italia – Serbia al Marassi di Genova, vi riproponiamo l’articolo comparso sul Numero 0 sul nazionalismo dello Stella Rossa.

La dedica di una statua che sorge dinanzi allo Stadio Maksimir di Zagabria, rappresentante un gruppo di soldati, recita: “Ai tifosi della Dinamo Zagabria, che iniziarono la guerra con la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”. La partita che prese luogo nella capitale croata tra i padroni di casa della Dinamo e i Serbi dello Stella Rossa di Belgrado fu l’avvisaglia di quanto sarebbe successo un anno dopo, l’inevitabile crollo della Federazione Jugoslava, termine di una frana innescatasi all’indomani della morte del maresciallo Tito nel maggio 1980. L’ex-partigiano croato era stato il collante di una nazione nata dall’unione di popoli che, fino alla Seconda Guerra Mondiale, si erano massacrati a vicenda. Nelle parole del comunista albanese Mahmet Bekalli: “Non avevamo idea che, insieme a lui, stavamo seppellendo la Jugoslavia”. La spaccatura fu evidente soprattutto tra Croazia e Serbia, dove due burocrati dell’epoca del comunismo titoista presero il potere dopo aver dato una netta svolta nazionalista alla propria politica: Franjo Tuđman e Slobodan Milošević. Tuđman, presidente della squadra filo-jugoslava del Partizan Belgrado ai tempi di Tito, per la sua Hrvatska Demokratska Zajednica (Unione Democratica Croata) prese in prestito l’iconografia degli ustaše, i fascisti croati che nella Seconda Guerra Mondiale collaborarono con i nazisti, massacrando i Serbi. Oltre a prendere in prestito la šahovnica, la bandiera a scacchi rossi e bianchi degli ustaše, cominciò a farsi chiamare poglavnik, duce, in un chiaro riferimento al loro sanguinario leader Ante Pavelić. Tuđman veicolò il proprio nazionalismo anche attraverso il calcio quando divenne presidente della Dinamo Zagabria, che poi avrebbe ribattezzato Croatia Zagreb, alienando gran parte del seguito della squadra.

Nel giugno 1989 Slobodan Milošević, appena divenuto presidente della Serbia, tenne un discorso che avrebbe cambiato la storia a Kosovo Polje, la “piana dei Merli” a nord della capitale kosovara Priština, teatro di una storica battaglia tra la Serbia e l’Impero Ottomano avvenuta seicento anni prima. Milošević denunciò “il genocidio strisciante di cui sono vittime i Serbi nel Kosovo, culla della loro cultura” e affermò, in quella che fu la sua frase di maggior successo, che “nessuno deve permettersi di picchiare il nostro popolo”. Cavalcando l’onda del nazionalismo, il presidente serbo si rendeva conto di quanto questa potesse ritorcersi contro di lui, e fece in modo di avere un controllo forte su quello che era considerato il calderone più esplosivo: la tifoseria dello Stella Rossa di Belgrado, squadra politicizzata, anti-titoista e fortemente nazionalista, i cui ultrà si stavano distinguendo per la violenza delle proprie azioni. L’uomo che prese il controllo dei tifosi dello Stella Rossa, unendo tutti i gruppi rivali in una sola unità disciplinata e determinata, fu Željko Ražnatović, gangster di stampo mafioso e maestro dell’evasione, richiamato in Serbia dal governo per fare il “lavoro sporco”, come ad esempio eliminare fisicamente i dissidenti che erano fuggiti all’estero. L’uomo che, qualche anno più tardi, sarebbe salito all’onore delle cronache internazionali come l’efferato criminale di guerra Arkan. Arkan vietò agli hooligans dello Stella Rossa l’alcool e bandì piccole violenze e vandalismi. In cambio li addestrò e cambiò il loro nome da “zingari” a Delije, “eroi”, rendendoli una vera e propria formazione paramilitare, capace di creare seri disordini nelle partite contro il Partizan e la Dinamo Zagabria.

Il momento in cui le tensioni nazionalistiche eruppero sul campo fu proprio il fatale 13 maggio 1990, al Maksimir di Zagabria, una settimana dopo la celebrazione del decennale della morte di Tito: i Bad Blue Boys della Dinamo e i Delije si fronteggiarono in una battaglia i cui connotati e la cui organizzazione fanno pensare più a una guerriglia premeditata da entrambe le fazioni che a uno scontro tra tifosi. Per proteggere un giovane tifoso dalle manganellate della Milicija, la Polizia Federale Jugoslavia, il capitano dei croati Zvonimir Boban sferrò un calcio a un poliziotto, diventando istantaneamente un eroe nazionale. Il bilancio degli scontri fu di 138 feriti e 147 arresti. Boban rischiò un fermo da parte della polizia e perse l’occasione di essere convocato con la Jugoslavia a disputare il Mondiale di Italia ’90. Gli scontri tra i Delije e i Bad Blue Boys furono solo un preludio di quanto sarebbe avvenuto durante la primavera dell’anno seguente: quando il 29 maggio 1991 lo Stella Rossa vinse la Coppa dei Campioni, battendo ai rigori l’Olympique Marsiglia, Slovenia e Croazia avevano già dichiarato la propria indipendenza, portando la Jugoslavia alla guerra civile che l’avrebbe distrutta. Solo alcuni mesi dopo i Delije si arruolarono in massa nell’unità paramilitare comandata da Arkan, la Srpska Dobrovolijačka Garda (Guardia Volontaria Serba), più nota con il nome di Tigrovi, tigri. Le Tigri di Arkan presero parte alle guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo e divennero tristemente famose per gli efferati crimini di guerra commessi. Anche dall’altra parte avvenne un fenomeno simile, con gran parte dei Bad Blue Boys partiti per il fronte della guerra serbo-croata, spesso indossando il simbolo della Dinamo sulle proprie uniformi. Dal Maksimir di Zagabria e dal Marakana di Belgrado i combattimenti si erano riversati su tutta la Federazione Jugoslava.

Quando i croati ripresero il controllo di Vukovar, assediata per 87 giorni dalla Jugoslavenska Narodna Armija, l’Armata Popolare Jugoslava, la rappresaglia colpì la popolazione serba della città, tra cui la famiglia di Siniša Mihajlović, centrocampista dello Stella Rossa, poi a Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Nella sua casa, distrutta, oltre a un poster della nazionale jugoslava con un foro di proiettile sul cuore di Mihajlovic, furono ritrovate sue foto cui i soldati croati avevano ritagliato gli occhi: un rimando alle crudeltà di Ante Pavelić, che chiedeva ogni mattina ai suoi ustaše di consegnargli un cesto pieno di occhi a riprova che i massacri continuavano allo stesso ritmo.

Il regno mafioso di Arkan in Serbia prosperò durante il conflitto, e Ražnatović cercò di acquistare lo Stella Rossa, per farne un monumento alla sua persona. La dirigenza rifiutò di cedere, al che la Tigre, dopo un rifiuto dai kosovari dell’FK Priština, acquistò l’Obilić di Belgrado, squadra che porta il nome di un eroe serbo della battaglia di Kosovo Polje. A suon di intimidazioni a giocatori e dirigenti avversari, l’Obilić venne promosso in prima divisione nel 1997 e l’anno dopo fu campione di Jugoslavia (ormai composta solo da Serbia e Montenegro) nel 1998. Il 18 agosto 1999 le nazionali di Jugoslavia e Croazia si incontrarono per la prima volta a Belgrado in un incontro, finito 0-0, valido per le qualificazioni all’Europeo. Il tifo di Belgrado salutò l’inno croato Lijepa Naša Domovino con l’ostensione di cinquantamila diti medi alzati, e la curva insultò i giocatori della nazionale avversaria, chiamandoli ustaše nei propri cori. L’ostilità dell’atmosfera raggiunse il culmine quando, al quinto del secondo tempo, le luci dello stadio si spensero. “Si vedevano solo i raggi infrarossi dei fucili dei cecchini”, ricordò Slaven Bilić, nazionale croato presente allo stadio nonostante un infortunio. Il Marakana eruppe in un “Criminali rossi! Criminali rossi!” rivolto a Milošević e al suo regime, che iniziava a scricchiolare dopo la guerra in Kosovo. Mentre la leggenda di Arkan, assassinato cinque mesi più tardi da un commando di fronte all’Intercontinental Hotel di Belgrado, sopravvisse alla Tigre, la popolarità del presidente serbo era crollata. Proprio il Marakana, lo stadio dove Milošević aveva arruolato tramite Arkan una parte importante del suo esercito, segnò la fine della sua dittatura: la curva gli si ritorse contro e cominciò a intonare alle partite gli slogan Slobo odlazi, “Slobodan vattene”, e Slobo spasi Srbiju i ubi se, “Slobodan, salva la Serbia e ammazzati”. Dopo esser stato sconfitto alle elezioni da Vojislav Koštunica, Milošević si rifiutò di riconoscere il risultato delle urne. Il 5 ottobre 2000 a Belgrado, nelle dimostrazioni della Bager Revolucija, la “Rivoluzione dei Bulldozer” che fece infine crollare il regime, in prima linea nei combattimenti c’erano di nuovo le maglie dello Stella Rossa.

Damiano Benzoni

PALLANUOTO: CROAZIA IN FINALE

Un rigore di Bošković decide una semifinale bellissima. E ora la Croazia può vincere il primo oro europeo.

Oggi in una piscina di Zagabria ammantata di scacchi bianchi e rossi ha vinto, ancor prima della Croazia, la pallanuoto. E, si badi bene, non è retorica. Ha vinto sugli spalti, perché i tifosi delle due nazionali hanno incitato i loro beniamini e ricoperto di fischi i rivali ma senza rendere incandescenti gli animi come – ahinoi – accadde sette anni fa a Kranj. E ha vinto in acqua, dove si è visto davvero il volto più bello di questa disciplina: azioni spettacolari, reti pregevoli, parate decisive, emozioni a non finire e, da sottolineare, arbitraggio all’altezza della situazione. La partita la vince la Croazia padrona di casa: dopo lo sgambetto del Montenegro all’esordio, gli uomini di Rudić non si sono più fermati e regalano ai loro connazionali una finale europea sette anni dopo l’argento di Kranj.

Il primo quarto è quello che, alla fine dei conti, risulterà decisivo perché si chiude con i croati avanti appena di un gol: entrambe le squadre schierano eccezionali tiratori dal perimetro, ma in questi otto minuti iniziali hanno la meglio le rispettive retroguardie. Che propongono uno schema utilizzato da più squadre a Zagabria: tutti a pressing con le sole eccezioni dei giocatori in posizione 2 e 3. Ed è in particolar modo la Serbia a soffrire questo tipo di difesa: la squadra di Dejan Udovičić arriva poche volte al tiro e, quando lo fa, si affida ai giocatori meno indicati, vedi Prlainović che fin da subito tradisce la sua giornata di luna storta. A far infiammare i 5mila di Zagabria è Burić dal centro, il suo compagno recchelino Nikić riporta l’equilibrio e infine un altro giocatore del settebello ligure, il serbo Filipović, causa il rigore che Bošković realizza. Ritmi ancor più frenetici nel secondo parziale, dove non ci sono momenti di noia: una sassata di Joković (che suicidio applicare la zona in 2 e in 3 con un simile tiratore…) dà alla Croazia il massimo vantaggio, poi Udovičić emerge dal guscio accorciando le distanze con una prodezza e servendo a Nikić un pallone invitante per il 3-3. Gli ultimi tre minuti sono quanto di meglio possa offrire la scuola pallanotistica dei Balcani: Obradović gonfia la rete con un destro che spiazza un Soro poco concentrato, Gocić sfrutta il vantaggio numerico, Bošković segna dalla distanza con Soro ancora complice e Rađen conferma la potenza della Serbia quando attacca con un uomo in più. A nemmeno venti secondi dall’intervallo lungo il pareggio dei campioni del mondo sembra in cassaforte, ma  a fil di sirena Burić spara addosso a Soro che, con un intervento goffo, fa carambolare la palla oltre la linea di porta.

All’inizio del terzo tempo Joković imita Burić mettendo a segno la sua personale doppietta: favorito da una difesa serba troppo morbida, il mancino dello Jug Dubrovnik si esibisce in un tiro che è sintesi tra precisione chirurgica e incredibile potenza, tanto che la palla sbatte sul palo di sostegno della rete e ritorna in campo. Il canovaccio, però, è di quelli già visti migliaia di volte: la Croazia comanda e tenta la fuga, la Serbia tallona a breve distanza, fa sentire il fiato sul collo e poi rimette tutto in equilibrio. Lo fa nuovamente con un diagonale imprendibile di Gocić dalla mano sbagliata – davvero eccezionale la prova del neoacquisto del Latina – e con una stoccata vincente di Filipović. Il tutto intervallato da un gol annullato a Burić in superiorità numerica perché riceve il pallone all’interno della linea dei due metri: a pochi secondi dal termine la Croazia ripropone lo stesso schema e stavolta il difensore recchelino, autentico uomo ovunque oggi pomeriggio, si fa servire al di qua del birillo rosso, riportando avanti per l’ennesima volta la Croazia. Nell’ultimo parziale il leit motiv è sempre lo stesso, con i padroni di casa sempre in vantaggio ed i serbi ad acciuffarli. L’episodio chiave avviene a cinque secondi dal termine: dopo la respinta di Soro sul tiro di Muslim, la Croazia riprende palla e viene servito Burić a centroboa. Il difensore recchelino si gira e costringe al fallo da rigore Filipović: è il match-ball per la formazione di Rudić. I 5mila sugli spalti accompagnano Bošković all’esecuzione: l’ex giocatore dello Jug non si fa tradire dall’emozione e supera Soro, scatenando un urlo collettivo. Nel (pochissimo) tempo che rimane Prlainović prova a rimediare ad una giornata, per lui, piuttosto deludente. Ma la sua conclusione è imprecisa. La Croazia spezza l’incantesimo che l’aveva quasi sempre vista soccombere contro la Serbia. Che, dopo World League e Coppa FINA, non riesce a centrare la terza finale di un anno comunque denso di soddisfazioni. E adesso Rudić vuole regalarsi l’ennesima impresa di una carriera già incredibile.

Giovedì 9 settembre 2010

SERBIA-CROAZIA 9-10 (1-2, 4-4, 2-2, 2-2)

Mladost Sports Center, Zagabria

SERBIA: Soro, Filipović 1, Rađen 1, Gocić 3, V. Udovičić 1, Prlainović, Nikić 1; G. Pijetlović ne, Avramović, Vapenski ne, D. Pijetlović 1, Aleksić, Mitrović 1. All. D. Udovičić.

CROAZIA: Pavić, Joković 2, Bošković 3, Burić 3, Barač, Sukno, Dobud; Muslim 1, Karač, Bušlje, Hinić, Obradović 1, Buljubašić. All. Rudić.

ARBITRI: Naumov (Russia) e Borrell (Spagna).

NOTE: superiorità numeriche Serbia 7/10, Croazia 3/8. Spettatori 5000.

Simone Pierotti