IL NONNO IN ROSA

La storia di Andrea Noè, il più anziano tra i corridori al Giro d’Italia.

Tra i 207 corridori in gara al Giro d’Italia 2011 attualmente in corso, il più anziano è Andrea Noè, 42 anni compiuti lo scorso 15 gennaio. Alle spalle una carriera onesta, quasi sempre al servizio dei più quotati compagni di squadra, ma con qualche grande soddisfazione che ha contribuito a farlo entrare, ancora di più, nel cuore degli appassionati.

Andrea Noè nasce a Magenta, cittadina alle porte di Milano, all’inizio del 1969. Nel suo caso, sarebbe sbagliato parlare di “una vita a pedali”, come si fa con molti atleti che iniziano a pedalare sin dalla tenera età: infatti, trascorre l’infanzia sui campi di pallavolo, innamorandosi della bicicletta solo da adolescente. E quando dice ai genitori che intende passare al ciclismo, questi, preoccupati, lo portano dal medico. Tutti gli dicono che è troppo magro per poter reggere le fatiche delle due ruote, ma Andrea, sin dalla prima gara disputata a 16 anni e mezzo dove finisce davanti al fratello che correva già da qualche anno, dimostra una costanza e una grinta fuori dal comune. La trafila nelle categorie giovanili è costellata di sudore ma anche di qualche successo, come la vittoria nella Bologna-Raticosa, impegnativa scalata al colle appenninico, che mette in mostra le sue doti di scalatore puro.

Nel 1993, all’età di 24 anni, arriva il debutto tra i professionisti, con la maglia della Eldor dove corre anche Marco Giovannetti, vincitore della Vuelta nel 1990: al servizio dell’esperto corridore toscano, Noè scopre il “suo” ciclismo, la sua vocazione, il suo modo di interpretare le corse. Non attaccare da lontano o fare volate (nelle quali più di una volta ha ammesso di essere assolutamente negato), non staccare i big in salita o tentare azioni da falco in discesa: ma lavorare per gli altri, tirare, faticare, sudare. Proteggere e servire, per usare il gergo poliziesco. E come molti altri “gregari”, termine che racchiude tutta l’umiltà, la leggenda e la professionalità del ruolo, si guadagna presto il soprannome di “Brontolo”, del corridore che, stando spesso in testa o in coda al gruppo principale, si trova a litigare con le telecamere della ripresa televisiva, a volte troppo vicine ai primi corridori. Una stagione dopo l’altra, una tirata dopo l’altra, questo corridore alto, castano e occhialuto si trova in squadra con tutti i più grandi atleti dell’ultimo quindicennio ciclistico: Tony Rominger, Johan Musseuw, Claudio Chiappucci, Michele Bartoli, Paolo Bettini, Mario Cipollini, Stefano Garzelli, Ivan Basso e Vincenzo Nibali. Dei big, perlomeno italiani, gli manca solo aver corso con Marco Pantani, quello che, come ricorda il milanese in una recente intervista, “quando scattava, noi ci giravamo dall’altra parte”, per non vedere il distacco clamoroso che infliggeva al gruppo in pochi metri. Tra una brontolata e una salita presa a tutta per il proprio capitano, la sua carriera ha anche un paio di perle degne dei più grandi campioni.

San Marino, 27 maggio 1998, Giro d’Italia: 173 km di fuga, scatti e controscatti con l’altro attaccante Chepe Gonzales sull’ascesa del Titano, una grinta scatenata a grandi scariche sui pedali per contenere il ritorno dei migliori. Alla fine, le mani al cielo, sette secondi sette e una cinquantina di metri di vantaggio su Marco Pantani, dopo una giornata tutta in testa. La gioia, poca, perché lui è un Brontolo di natura; la soddisfazione, tanta, perché una vittoria così vale una carriera, anche se il capitano Bartoli si arrabbia, perché credeva che quella tappa fosse disegnata apposta per lui. E due giorni dopo, a Schio, proprio quando Bartoli si rifà della delusione vincendo allo sprint su Guerini e Bettini, il milanese indossa la prima maglia rosa della sua vita. Nella frazione successiva, sotto la pioggia battente di Piancavallo, l’avventura da leader di Noè finirà, con un po’ di rammarico ma la consapevolezza di aver dato il massimo, come sempre.

Pur essendo un gregario, in salita è sempre tra gli ultimi a staccarsi, nonostante la fatica del lavoro di squadra: si spiega così il quarto posto nella classifica finale del Giro d’Italia 2000, addirittura davanti al capitano ufficiale della sua Mapei, ovvero il russo Pavel Tonkov. Lo stesso piazzamento nella graduatoria conclusiva viene ripetuto tre anni più tardi, nel secondo Giro vinto da Gilberto Simoni. Oltre a quei due giorni di gloria nel 1998 e a questi importanti risultati, la vita da gregario di Noè gli ha riservato anche il successo nella tappa di Leysin al Giro di Romandia nel 2000. Anno dopo anno, diventa uno dei corridori più esperti del gruppo, e non è raro sentire voci di ritiro sul suo conto. Ma anche da “vecchio”, lui c’è sempre, e a 38 anni inoltrati, nel 2007, indossa per altre due volte il simbolo del primato al Giro d’Italia, diventando così la maglia rosa meno giovane nella storia della nostra corsa nazionale.

Quando la Liquigas lo esclude all’ultimo dal Giro 2009, il quarantenne magentino sembra veramente prossimo ad appendere la bici al chiodo, ma tiene duro ancora un anno: tuttavia, la stagione 2010 in maglia Ceramica Flaminia non gli permette ancora di prendere parte alla corsa rosa, visto che la sua squadra non viene invitata per le vicende di Riccardo Riccò. Mollare? Mai. Si arriva a 42 anni, stagione 2011, e promette nuovamente che sarà l’ultima. Andrea detto “Brontolo” deve finire la propria avventura ciclistica al Giro d’Italia, e oggi, finalmente, è al via della cronosquadre di Venaria, al servizio del campione nazionale Giovanni Visconti. 600.000 chilometri pedalati nei 18 anni da professionista, pari a quattordici giri della Terra. Tutto in quel cognome, Noè, come il vegliardo della Bibbia che campò, si dice, 950 anni. In sella, una vita di fatica e di servizio. In casa, una vita tranquilla, come tutti gli antidivi che si rispettano, con la moglie Simona e la figlia Camilla. Con la cronometro di Milano del 29 maggio la sua epopea ciclistica, proprio nel giorno del compleanno della sua sposa, finirà definitivamente. Ma il mito dell’eterno e fedele Noè aleggerà sempre sul gruppo, come quello dei grandi campioni.

WEMBLEY-FA CUP, STORIA DI UN AMORE

Domani Manchester City e Stoke City si contendono la FA Cup, il cui nome è legato indissolubilmente a quello dello stadio londinese.

Domani, a Londra, il miliardario Manchester City di Mancini & Balotelli e la matricola terribile Stoke City si giocheranno la finale del torneo di calcio più antico al mondo: la FA Cup. I Citizens hanno già vinto la coppa quattro volte su otto finali, mentre per i Potters si tratta della prima volta in ben 148 anni di storia. La squadra di Mancini parte da favorita, ma i biancorossi dello Stoke sono una squadra capace di sorprendere. Il palcoscenico, e non poteva essere altrimenti, sarà lo Stadio di Wembley, simbolo ed essenza del calcio inglese. Proprio il binomio Wembley-finale di FA Cup sembra rappresentare ancor oggi un’apoteosi del legame fra il calcio e l’identità nazionale inglese.

La FA Cup è il torneo di calcio più antico al mondo; fin dalla stagione 1871 la finale si è giocata a Londra, al Kennington Oval, e nel corso della sua storia quelle giocate fuori dalla capitale hanno rappresentato una rara eccezione. Nel 1914, alla finale vinta dal Burnley sul Liverpool per 1-0, fra i 73 mila spettatori del Crystal Palace prese parte anche sua maestà Giorgio V che inaugurò così la tradizione regia di assistere alla finale. La finale della Coppa d’Inghilterra, però, divenne a tutti gli effetti un rituale per il paese al momento della ricollocazione nel nuovo British Empire Stadium di Wembley nel 1923.

Lo stadio di Wembley era stato costruito negli anni ’20, in occasione della British Empire Exhibiton: l’ingresso era caratterizzato dalle famose torri gemelle, simbolo di potere e grandezza, decorate in uno stile imperiale che richiamava la madre di tutte le colonie, l’India. In una fase di iniziale decadenza, Wembley era un’espressione del prestigio britannico, paragonabile in un certo senso ai tentativi fatti da altri paesi europei di affermare il potere degli stati anche attraverso la costruzione di stadi, capaci di raccogliere vaste folle in un luogo che potesse promuovere un senso di unità nazionale.

Prima ancora che fosse terminato, la FA firmò un contratto di 21 anni per l’usufrutto: fino a quel momento le autorità calcistiche inglesi avevano vissuto con un certo imbarazzo il fatto che Glasgow avesse uno stadio migliore di tutti quelli in Inghilterra. L’esposizione imperiale del 1924-25 fu però un fallimento, sia dal punto di vista economico sia da quello simbolico: lo stadio fu l’unico edificio a salvarsi proprio perché divenne il luogo designato per la finale di FA Cup. Ma un incontro calcistico l’anno non sarebbe stato sufficiente per la sopravvivenza dello stadio, che fu garantita anche dalle corse dei greyhounds, dalla finale di rugby league, dalle speedway, dai concerti e da eventi sportivi internazionali.

Costruito per essere un vero e proprio stadio imperiale, Wembley è diventato negli anni, anche per via della sua neutralità rispetto alle rivalità calcistiche, un’icona nazionale inglese. Ha ospitato le Olimpiadi del 1948 ed è diventato a tutti gli effetti la casa della nazionale inglese di calcio.

Con l’approdo a Wembley la finale di FA Cup perse la sua spontaneità, smettendo di essere un’occasione informale di cultura popolare, per trasformarsi in un più ufficiale rito nazionale. I rituali della finale acquisirono col tempo caratteristiche associate più con le cerimonie di stato che con lo sport e la presenza dei reali, a cui venivano presentate ufficialmente le squadre, ne è la principale dimostrazione.

Il 28 aprile 1923, in occasione della prima finale, 200mila persone si accodarono per vedere non solo West Ham – Bolton ma anche il Re e questa nuova meraviglia architettonica dell’Impero. Nonostante l’incredibile sovrannumero di spettatori e le tensioni create da gente senza biglietto dentro lo stadio e con il biglietto fuori, che avrebbero facilmente potuto portare a un esito drammatico, non ci furono clamorosi problemi d’ordine pubblico. L’episodio venne ribattezzato White Horse Final, poiché i protagonisti furono i poliziotti che, in sella ai propri cavalli, riuscirono a evitare degenerazioni. La narrazione leggendaria della folla, che tranquillizzata dalla presenza dei reali si comportò ordinatamente senza farsi prendere dal panico, ha contribuito a creare un mito attorno alla finale di coppa e al suo stadio. La presenza dei reali e l’idea vittoriana secondo cui le folle anglosassoni sono capaci di auto regolarsi ha dato a Wembley negli anni la reputazione di essere «trouble free».

Oltre alla presenza dei reali, un ulteriore aspetto importante nel cerimoniale della finale è svolto dai community singing. Nel 1927 fu suonato per la prima volta Abide With Me. Con il ricordo della guerra ancora vivo, la scelta di intonare un inno funebre fu un modo cosciente delle classi superiori, sfruttando anche la popolarità dei canti collettivi, per cercare di ricostruire un senso di unità nazionale dopo lo sciopero generale e quello prolungato dei minatori nel 1926. Sorprendentemente, questo inno viene cantato ancor oggi: la logica originale è andata completamente perduta ma rimane un rituale immancabile. Nell’edizione 2010-11 Abide With Me sarà cantata dal trio Tenors Unlimited, mentre l’ex star dell’edizione inglese del programma televisivo X Factor, Stacey Solomon, canterà l’inno nazionale, God Save the Queen.

Negli anni ’90 lo stadio di Wembley era totalmente inadatto alle nuove misure di sicurezza e poco funzionale al calcio per via della pista d’atletica. Allo stesso tempo, però, restava l’icona del calcio inglese e la sua tradizione era riconosciuta e invidiata nel mondo. Quel momento storico fu però segnato nel paese da un’ondata di modernizzazione. Anche lo stadio nazionale entrò quindi a far parte di un’ampia operazione postmoderna di re-branding dell’identità nazionale marchiata New Labour, volta a mettersi alle spalle il passato per guardare al futuro. Il vecchio stadio, con le sue celebri torri troppo compromesse con l’eredità imperiale, venne raso al suolo e ricostruito ex novo.

Dal 2000 al 2005, con Wembley in fase di ricostruzione, la finale si disputò presso il Millenium Stadium di Cardiff. Il nuovo Wembley ha abiurato drasticamente ogni simbolo legato al passato imperiale per aprirsi alla modernità: oggi le storiche torri sono state brutalmente abbattute per lasciare spazio all’enorme ed avveniristico arco che sovrasta lo stadio.

Nonostante nella maggior parte dei paesi la coppa nazionale di calcio sia ormai diventata una competizione secondaria, è grazie al suo legame con il rinnovato stadio di Wembley e ai suoi rituali che la FA Cup riesce a mantenere intatto il suo prestigio. Quella di domani sarà la quinta finale disputata in questo nuovo e confortevole gioiellino ultra-tecnologico e anche se il debutto calcistico della coppia dell’anno William & Kate, a meno di improbabili sorprese, sarà rimandato al 2012, la sfida fra Stoke e Manchester sarà, come avviene per ogni finale di FA Cup, qualcosa di più di una semplice partita di calcio.

BUROCRAZIA 1 SPORT 0

Il Giudice Unico invalida alcune partite della prima giornata di Serie A, rivoluzionando la classifica.

Domenica si è giocata la seconda giornata del Campionato italiano in un’atmosfera surreale per le decisioni prese dal Giudice Unico che, invalidando il risultato di alcune partite della prima giornata, hanno stravolto le classifiche di serie A e B. Bologna, Trentino, Brescia, Latina Lanka, Sri Lanka Milano e Venezia hanno perso a tavolino il proprio incontro e subito una penalizzazione di tre punti «per non aver verificato l’esatta compilazione del foglio segnapunti ai sensi dell’art. 44 comma 4 R.C. e, di conseguenza rendendo impossibile verificare la corretta sequenza dei lanci ai sensi degli artt. 33 e 4 comma 5 R.C.».

I regolamenti esistono e vanno rispettati. Anzi, è anche attraverso l’insegnamento e il rispetto delle regole che la Federcricket contribuisce, nel suo piccolo, ai processi di integrazione. Tuttavia, in questa circostanza la pena appare totalmente sproporzionata al dolo, tanto più che le società coinvolte sono ben sei, più del 50% di quelle totali.

Va anzitutto precisato che nelle partite di cricket sono previsti due segnapunti a carico delle rispettive società: la compilazione del foglio di gara è molto complessa e i segnapunti – spesso madri, mogli, fidanzate dei giocatori o giocatori stessi non convocati – sono gli unici costretti a non distrarsi mai dai lunghi incontri domenicali. Quest’anno il modo di notificare i turni di lancio sullo scoresheet è stato modificato e pare che alcune indicazioni su come compilarlo siano arrivate a ridosso del campionato. Quel che più conta è che il problema in questione non ha minimamente influenzato il risultato finale dell’incontro, ma ha avuto solamente a che fare con un aspetto statistico.

Una decisione così dura su un errore tutto sommato marginale, e in alcuni casi anche correggibile, rischia di penalizzare molto la crescita di un movimento che sta lentamente acquisendo una maggiore visibilità mediatica (soprattutto su radio, tv e stampa locale). In un campionato di sole dieci giornate, deciderne una a tavolino equivale a far perdere di molto il pathos sulle prossime giornate.

“Così rischiamo di perdere la voglia di giocare” hanno commentato demoralizzati alcuni giocatori, mentre attestati di solidarietà sono arrivati anche da cricketer di squadre non penalizzate. Data la situazione, ancora dilettantistica, di gran parte del cricket italiano e il livello ancora insufficiente delle infrastrutture c’è da augurarsi che il Giudice Unico faccia retromarcia, accettando i ricorsi e ripristinando i risultati ottenuti dalle squadre sul campo.

Al di là  del cricket, infatti, uno degli aspetti fondamentali dello sport è proprio la “certezza del risultato”. Oggi ricorsi burocratici (vedi gara-5 della finale scudetto di hockey su ghiaccio), regolamenti sempre più complessi e l’uso del doping minano quello che è da sempre uno dei capisaldi dell’attività sportiva stessa. Senza la “certezza del risultato” lo sport rischia di non essere più sport.

Tornando al cricket giocato, nella seconda giornata di serie A, all’Oval di Rastignano, il big match fra i campioni d’Italia del Pianoro C. C. e i vicecampioni del Milan Kingsgrove C.C. non si è rivelato all’altezza delle aspettative. Se lo scorso anno era finita con un esaltante pareggio, quest’anno gli emiliani hanno vinto facilmente per ben 8 wicket. Limitati a quota 150 in battuta, i meneghini non si sono dimostrati per nulla efficaci al lancio, facendosi raggiungere senza patemi dai batsmans emiliani che si issano così sempre più al comando solitario della classifica, avendo incassato in due partite tutti i quaranta punti a disposizione.

Nel secondo incontro del massimo campionato, quello di Trento fra il Capannelle C.C. e il Trentino C.C. le due squadre, dall’età media molto bassa, si sono affrontate in un’avvincente contesa. I forti battitori del trentino (Bhatti Shah  Nawaz con 29 runs not out e Hussain Frida con 24 runs) sono stati limitati a sole 117 corse da una formidabile prova dei lanciatori romani. In questo fondamentale, davvero impressionanti le prove di Suresh Anton (3 eliminazioni e soli 15 punti concessi in 10 overs) e Leandro Mati Jayarajah (4 wicket). Dopo questa gran prestazione al lancio, i romani non sono riusciti però a ripetersi nell’inning di battuta: i trentini infatti si sono dimostrati una grande squadra e, trascinati da Anwar Attieq (4 wicket) e da Hussain Frida (3), hanno annichilito i battitori romani, tutti eliminati dopo solo 103 corse. Malgrado la penalizzazione i trentini sono già al secondo posto, in attesa di sfidare domenica prossimo la capolista Pianoro in quello che sarà sicuramente l’incontro di cartello della giornata del 15 maggio. Resta a -3 il Bologna che si è sottoposto a un duro allenamento per prepararsi alla trasferta di Milano e sbollire la rabbia dovuta alla penalizzazione.

In serie B non si è giocata Brescia-Casteller, prevista per il 5 giugno, mentre il Latina Lanka si è ripreso egregiamente dalla sconfitta subita sul campo di Brescia andando a vincere facile contro il Venezia per 358/7 a 161/10. La prima della classe (per le disgrazie altrui), il Genoa, ha perso a sorpresa in casa contro lo Sri Lanka Milano per 121/10 a 126/4. Curiosi gli accoppiamenti della terza giornata con il derby veneto fra Casteller e Venezia, quello di “Ceylon” fra Sri Lanka Milano e Latina Lanka e l’atipico testa-coda fra Genoa e Brescia in cui i bresciani ultimi a -3 appaiono nettamente favoriti sui liguri.

 

Si ringraziano Waseem Ashgar, Fabio Marabini e Alberto Miggiani per le informazioni sulle partite.

DOLCE MONTENEGRO

Alla scoperta del Budva, abbordabile avversario della Pro Recco in semifinale di Eurolega.

La fortuna, si sa, aiuta gli audaci. E la Pro Recco non poteva chiedere di meglio per la semifinale della Final Four di Eurolega, in programma il 3 e 4 giugno prossimi alla piscina del Foro Italico a Roma: i campioni italiani e continentali hanno pescato il Budva, la meno accreditata tra le formazioni montenegrine, già affrontata – e battuta –  sia all’andata che al ritorno nella fase eliminatoria a gironi. Occhio, però, a non abbassare troppo la guardia.

Fondato nel 1947 nell’omonima cittadina, uno dei centri del turismo balneare in Montenegro, il Vaterpolo Klub Budva è la meno blasonata delle grandi squadre della pallanuoto del minuscolo stato balcanico: in bacheca figurano solamente uno scudetto, risalente addirittura ai tempi dell’ex Jugoslavia (1994), ed una Coppa del Montenegro conquistata tre anni fa. In ambito europeo, il massimo risultato raggiunto dal Budva sono le semifinali dell’ormai defunta Coppa delle Coppe nel 1996 e, per due stagioni consecutive (2007 e 2008), della Coppa LEN.

Indipendentemente da quello che sarà l’esito della Final Four capitolina, si può dire che il Budva la sua coppa l’ha già vinta: delle quattro finaliste è, infatti, l’unica ad aver iniziato il cammino dal primo turno di qualificazione, anziché direttamente dai gironi eliminatori. Una squadra abituata a lottare ed a soffrire, quella guidata da Boris Krivokapić – per la prossima stagione ha già ricevuto il benservito, visti i pessimi risultati in patria -: in quattro occasioni ha vinto con appena un gol di scarto. Decisivo, ai fini della storica qualificazione, il 9-7 inflitto allo Jug Dubrovnik nei quarti di finale.

Sebbene, nella gerarchia della pallanuoto montenegrina, sia la terza squadra per ordine d’importanza dopo Primorac e Jadran, il Budva ha validissimi giocatori. Per la precisione, buona parte della nazionale che vinse gli Europei di Málaga nel 2008, come il mancino Damjan Danilović, i centroboa Vjekoslav Pašković e Nikola Vukčević (migliori marcatori della squadra in Eurolega con 17 e 15 reti a testa) ed i mastini Milan Tičić e Predrag Jokić, che in Italia ha indossato le calottine di Sori, Savona ed anche Recco, che ritroverà dunque da avversario in semifinale.  Assoluta garanzia tra i pali, dove si accomoderà Denis Šefik, serbo poi naturalizzato montenegrino. Da tenere d’occhio il ventunenne Justin Boyd, astro nascente della pallanuoto canadese, così come il difensore con licenza di segnare Ivan Žanetić (ben 12 gol nella cavalcata verso la finale) e l’arzillo vecchietto – 38 anni – Petar Trbojević. Curiosità: uno è croato, l’altro è serbo. Come dire: bando alle tensioni tra i vari popoli, quando c’è da vincere ci si può unire sotto la stessa bandiera.

DOPPIO REGISTA PER IL REAL?

L’arrivo di Nuri Şahin a Madrid potrebbe comportare una rivoluzione nell’assetto tattico delle merengues.

Modifiche tattiche in vista, per il Real di Mourinho: è notizia di questi giorni l’acquisto di Nuri Şahin, talentuosissimo centrocampista turco che è stato tra i principali trascinatori del Borussia Dortmund capace di imporsi in Bundesliga quest’anno.

E l’arrivo del giovanissimo regista ex Feyenoord comporterà indubbiamente qualche cambiamento in quel di Madrid.
Due le ipotesi più probabili: da una parte l’accantonamento dell’ormai trentenne Xabi Alonso, dall’altra la modifica del modulo attualmente in uso, con l’utilizzo di due registi in contemporanea.

Posto che la prima ipotesi, sulla carta, non porterebbe ad alcuna modifica tattica, con Şahin semplicemente impegnato a svolgere il lavoro che fino a quest’anno è stato svolto da Alonso, la seconda prevedrebbe, invece, una modifica tanto nella tattica di base quanto nell’atteggiamento e nel gioco della squadra.  E quest’ultimo sembrerebbe lo scenario più intrigante.

Quest’anno il Real Madrid è sceso spesso in campo con un modulo pressoché speculare a quello che portò l’Inter di Mourinho a vincere il Triplete: quattro difensori in linea, due centrocampisti schierati in mediana, tre trequartisti ed un’unica punta. L’arrivo di Şahin, però, non potrà che portare ad una qualche modifica tattica. Perché pensare ad una coesistenza del duo Nuri-Xabi in un modulo del genere rasenta la follia: vero è che entrambi sono abituati a giocare nei due di mediana in un 4-2-3-1 – anche il Borussia ha prediletto questo modulo lungo tutto il corso della stagione -, altrettanto vero, però, è che entrambi sono oggi spalleggiati da due giocatori di quantità (Bender nell’undici tedesco e Khedira in quello spagnolo). Proporre un modulo del genere, con due registi puri dediti più alla costruzione che alla distruzione, e le cui caratteristiche sono fortemente legate a capacità tecnica e visione di gioco ma non alla bontà delle proprie doti di incontrista, significherebbe sbilanciare troppo la squadra, rischiando di prendere delle grandi imbarcate laddove ci si trovi a giocare contro avversari di un certo livello.

A questo punto, per far coesistere Şahin ed Alonso pare davvero essere assolutamente necessario un cambio di modulo. E la via più indicata da prendere sembrerebbe essere quella del ritorno alle origini per il tecnico lusitano: Mourinho diventò, infatti, famoso grazie ad un 4-3-3 che provò a proporre anche una volta arrivato in Italia. Per trapiantarlo anche a Milano sponda nerazzurra si fece quindi acquistare Quaresma e Mancini, che però bucarono clamorosamente l’adattamento in quella squadra.

Ecco che un ritorno ad una sorta di 4-3-3 potrebbe davvero essere la soluzione ideale per schierare assieme i due registi di cui disporrà il prossimo anno. Il tutto provando a ricalcare, anche solo lontanamente, quello che è l’attuale modulo del Barcellona. I Blaugrana, infatti, giocano con due giocatori di assoluto talento nel reparto nevralgico del campo, entrambi dediti a costruire più che a distruggere (compito riservato prevalentemente a Busquets). Allo stesso modo, Mourinho potrebbe quindi pensare di affiancare Şahin ed Alonso, che garantirebbero qualità notevole in mezzo al campo, ad un mediano dai polmoni d’acciaio e dalle capacità interdittorie assolute. Un nuovo Makelele, tanto per restare in territorio madrileno.

In questo, e con l’aiuto dei tre attaccanti, il Real potrebbe andare a trovare i giusti equilibri, non rinunciando al contempo a costruire un gioco quantomeno apprezzabile, cosa che in Spagna è sempre richiesta, soprattutto a chi siede sulla panchina della Casa Blanca.

Scenario davvero accattivante quello che si sta delineando a Madrid. Che con l’arrivo di Mourinho anche il Real inizi ad effettuare campagne acquisti con una certa logica di base? Lo scopriremo presto. Se durante l’estate non si penserà, come al solito, ad ammonticchiare talento là davanti, ma si proverà a costruire una vera squadra partendo dal rinforzare la difesa, ecco che il Real Madrid potrebbe finalmente fare quel salto di qualità di cui necessita da tempo immemore. E, a quel punto, l’imbarazzante superiorità del Barcellona potrebbe presto scomparire…