BALCANI CAPUT EUROPAE

Partizan campione d’Europa e schermaglie dei tifosi: pallanuoto e Balcani, un binomio che non delude.

Non che ve ne fosse un reale bisogno, ma la Final Four di Eurolega di pallanuoto a Roma ha confermato come lo sport sia una perfetta cassa di risonanza dei sentimenti nazionalisti che dominano nei Balcani. Sgomberando poi il campo dalla politica e dalle analisi sociologiche, l’evento capitolino è stato l’ennesima riprova che quella regione dell’Est europeo merita l’appellativo di culla della pallanuoto: delle quattro finaliste una era serba – e ha vinto la coppa -, una croata e un’altra, infine, montenegrina. Al contempo la Pro Recco, la quarta partecipante, schierava tre soli italiani (di cui uno naturalizzato) a fronte di due serbi – Filipović e Nikić -, due montenegrini – Ivović e Zloković – ed un croato – Burić.

Difficilmente ci si annoia quando due squadre balcaniche si sfidano in vasca: ne costituiscono l’eccellenza sul piano tecnico e, in seconda battuta, è una partita che si gioca anche sugli spalti. A Roma l’atmosfera era elettrica ancor prima del fischio d’inizio: si temevano scontri, alla notizia dell’arrivo nella città eterna di 6mila tifosi provenienti dalla cosiddetta “polveriera d’Europa”. Ironia del destino, la prima semifinale era Partizan Belgrado-Mladost Zagabria, la capitale serba opposta a quella croata, ortodossi contro cattolici. Quale miglior palcoscenico di un evento sportivo per dare sfoggio del proprio nazionalismo? Devono averla pensata in questi termini, i tifosi serbi, quando hanno dedicato un coro a Ratko Mladić, arrestato nelle scorse settimane per l’eccidio di Srebrenica del 1995, ed hanno infamato gli ustaše, i nazisti croati protagonisti ai tempi della Seconda guerra mondiale. Che strano: gioiscono per aver toccato la vetta dell’Europa pallanotistica ma sembrano ripudiare quella politico-istituzionale, che alla Serbia aveva sempre posto come conditio sine qua non dell’ingresso nell’Ue proprio la cattura del boia di Srebrenica.

La perfetta fotografia di queste divisioni la scattano i minuti conclusivi della partita tra Mladost e Budva che assegna la medaglia di bronzo: gli spettatori montenegrini incitano la loro squadra che prova a salire sul podio e trovano un inatteso alleato nei sostenitori del Partizan, già assiepati sugli spalti in attesa della finalissima. Collocate alle opposte estremità della stessa tribuna, le due tifoserie intonano all’unisono il coro “Budva! Budva!” e sommergono di fischi i giocatori croati quando sono in possesso del pallone. E pensare che, cinque anni fa, un referendum sancì la scissione del Montenegro dalla madre Serbia. Lo sport unisce, lo sport divide.

Non possono essere relegate a misere note a pié di pagina di questo appassionante romanzo alcune storie dei giocatori. C’è quella di Vladimir Vujasinović, capitano del Partizan, già colonna della nazionale serbo-montenegrina, nato tuttavia in terra nemica, a Fiume. C’è quella di Vanja Udovičić, serbo pure lui, uno che ha imparato la pallanuoto nel Partizan ma oggi indossa la scomoda calottina del Mladost. C’è quella di Denis Šefik, portiere del Budva, che la scorsa estate ha acquisito la cittadinanza sportiva montenegrina dopo aver difeso per anni la porta della nazionale serba. C’è anche quella del compagno di squadra Petar Trbojević, prossimo ai 38 anni, uno che la Serbia non l’ha rinnegata e che nell’ultimo decennio ha vinto medaglie olimpiche e mondiali sotto nomi e bandiere diverse.

Merita il suo spazio anche la parte meramente cronachistica: ha trionfato il Partizan perché ha giocato con il cuore, puntando sui suoi figli già affermati – il sopraccitato Vujasinović e i vari Aleksić, Pijetlović, Prlainović e Rađen – e quelli in rampa di lancio – Ćuk e Mitrović. Ha trionfato il Partizan che vive in invidiabile empatia con i suoi tifosi, quasi aizzati nei minuti finali della finalissima dall’allenatore Igor Milanović improvvisatosi capoultrà. Ha trionfato il Partizan che, ancor prima di comprarli altrove, i campioni prova a coltivarli nel suo orticello. L’Europa della pallanuoto è in mani serbe. Quella politica, stando ai suggerimenti dei tifosi bianconeri, può ancora aspettare.

 

CAMPIONATO AL GIRO DI BOA

Domenica scorsa si è chiuso il girone d’andata del campionato italiano di cricket. Tutto è andato secondo pronostico in serie A dove, grazie alla propria esperienza, il Pianoro guida con autorevolezza la classifica, forte di tre vittorie e un pareggio per pioggia. Alle sue spalle le pretendenti ad un posto in finale sono: il Trentino, che mantiene il secondo posto nonostante la sconfitta, e il Kingsgrove Milano, che dopo un esordio disastroso sta tornando la forte squadra ammirata la scorsa stagione. Alle loro spalle né il Bologna né il Capannelle sono riuscite a frenare la corsa del trio di testa. Sorpresa invece in serie B dove la fuga dei Lions Brescia viene interrotta dal Genoa. I grifoni rossoblù riaprono quindi il campionato per la gioia del Latina Lanka.

 

Bologna 206/10 batte Capannelle 166/10

 

Nella sfida fra le ultime della classe il Bologna sfrutta il fattore campo e centra un’importante vittoria.  Il Bologna vince il sorteggio e decide di battere per prima, ma l’inizio è disastroso. Nei primi cinque overs (serie di sei lanci) i rossoblù perdono ben tre wicket (eliminazioni) mettendo a segno la miseria di cinque punti. Al numero quattro e cinque entrano però i due battitori più forti del Bologna, Apu Chowdhury (67 runs) e Chamara Hettimula (68) che producono una superba partnership  da 140 punti, che cambia l’inerzia della partita. Bhuiyan aggiunge 34 punti ma tutti gli altri battitori vengono eliminati dopo 42 overs dai lanciatori romani raggiungendo quota 206, un target ben difendibile. Per il Capannelle da segnalare i tre wicket di Leandro Jayarajah, che interrompono la partnership di Chamara e Apu e i tre di Kekul.

In Battuta il Capannelle non riesce a creare partnership stabili, i wicket cadono con regolarità, Tushara Kurukulasuriya non riesce andare oltre i 20 punti e solo il giovanissimo Jakub Peret con 39 runs sembra mettere in difficoltà i lanciatori bolognesi. Con il Capannelle ancora in corsa a quota 156, ci pensa Chamara, con tre wicket quasi consecutivi, a chiudere l’incontro. Fermando i rivali a quota 166, il Bologna centra la prima vittoria in stagione e supera in classifica il Capannelle.

 

Trentino 232/10 perde da Kingsgrove 233/8

 

Sul Campo ex Italtel di Settimo Milanese il Milan Kingsgrove Cricket Club era chiamato a una partita decisiva per restare nella corsa scudetto. Dopo la brutta sconfitta dell’esordio contro il Pianoro, i lombardi avevano perso altri punti preziosi a Roma dove un forte temporale aveva arrestato la corsa dei meneghini. Di fronte al Kingsgrove però c’era una delle squadre più in forma del campionato, il Trentino Cricket Club ancora imbattuto. Pur perdendo immediatamente l’opener Faiz i forti battitori trentini raggiungono in 41 overs la ragguardevole quota di 232, beneficiando, peraltro, di molti extras. Ottime le prove di Anwar (52 runs) e soprattutto di Rizwan che mette a segno 77 punti senza essere mai eliminato. Fra i lanciatori milanesi sugli scudi Abewickrama e soprattutto Adnan Mohammad che in 10 overs prende 3 wicket e concede solamente 15 runs agli avversari.

Il secondo innings è stato davvero avvincente, gli openers milanesi Ali Amjad (33) e Roshendra Abewikrama (35) raggiungono quota cinquanta senza perdere wicket ma spingendo poco. Dopo le eliminazioni di Amjad e Passaretti, l’irruenza di Roshan Liyana (40 runs) permetteva di riportare lo score dei milanesi allineato al target dei trentini. I tre forti lanciatori del Trentino, Hussain (4 wicket), Anwar (2) e Alaud Din (2), riuscivano però a eliminare i middle order batsman dei Kingsgrove senza concedere molti punti. Grande merito va quindi a Mohan Alaranda Ganapathy (28 not out) che ha avuto la freddezza e la pazienza di portare a termine l’inning sfruttando le partnership di Adnan Mohammad (37) prima, e del giovanissimo Alamin Mia (12 not out). Per il Trentino questa sconfitta deve suonare come un campanello d’allarme ma rispetto ai propri rivali nel girone di ritorno potranno giocare ben tre partite su quattro in casa, comprese quelle con il Pianoro e con il Milan Kingsgrove.

 

CLASSIFICA

 

Pos ASA Giocate V N P Bonus Lancio Bonus Battuta Punti
1 Pianoro 4 3 1 0 12 12 70
2 Trentino 4 2 1 1 11 8 53
3 Kingsgrove 4 2 1 1 12 10 52
4 Bologna 4 1 0 3 12 13 37
5 Capannelle 4 0 1 3 11 10 27

 

Il 2 giugno si è giocata la prima giornata di ritrono. Il Bologna in una partita clamorosa ha vinto contro il Trentino riaprendo completamente i giochi per il secondo posto, mentre il Pianoro pur lasciando per strada il primo punto di bonus vince facilmente contro il Capannelle che resta fanalino di coda.

 

SERIE B

Se esistesse una trasmissione “tutto il cricket minuto per minuto” non ci sono dubbi che l’inviato di Brescia a fine partita avrebbe gridato: “Clamoroso al San Benedetto”. Il Genoa Cricket Club, la squadra più involuta rispetto alla scorsa stagione batte in casa, i Lions Brescia, che sembravano una corazzata inarrivabile. Nulla di compromesso per i bresciani che domenica prossima, nel recupero contro il Casteller, dovrebbero riappropriarsi della testa della classifica, ma un segnale che in questo campionato nessuno è imbattibile. Del passo falso del Brescia ne approfitta il Latina che nel derby fra le due squadre monoetniche dello “Sri Lanka” batte il Milano, conquistando il primo posto in classifica. Vola anche il Venezia Cricket Club che nel derby contro il Casteller, si impone per 175 a 119 e si gode il secondo posto momentaneo in classifica.

LA TRAGICA EPOPEA DI FEDERICO LUZZI

Andarsene via così, all’improvviso, quando si è nel fiore degli anni. Un male oscuro e incurabile che, invece di aggredirti gradualmente dandoti magari il tempo di provare una reazione, ti distrugge in una manciata di giorni. Dalla diagnosi di leucemia mieloide acuta, una versione fulminante di questa orrenda malattia, alla morte di Federico Luzzi passano appena due giorni. E lui era giovane, bello e forte, e aveva tutta l’intenzione di ricostruirsi quella brillante carriera che era stata fermata, in ultimo, da una squalifica per scommesse. Ma il destino riserva sempre qualche sorpresa, a volte anche tragica e orribile.

Federico Luzzi nasce ad Arezzo il 3 gennaio 1980, figlio di Maurizio, professione medico, e Paola Cesaroni, insegnante di musica. Già a 3 anni ha in mano la racchetta, giocando sui campi del Circolo Tennis cittadino: talentuoso sin da giovanissimo, ha tutte le caratteristiche del predestinato, e i successi si susseguono nelle varie categorie giovanili. Da juniores diventa campione del mondo, campione europeo e svariate volte campione nazionale, battendo in varie occasioni gente del calibro di Roger Federer, Marat Safin e Lleyton Hewitt: è limitato unicamente dalla spondilolisi, una malformazione vertebrale che lo costringe a numerosi stop e che ne ritarderà il successo tra i professionisti. I due atleti che lo ispirano sono tennisti italiani di grande talento: uno è Mosé Navarra, mancino velenoso esploso a Wimbledon 1996 e poi sparito nell’oblio per lunghi anni, l’altro è Renzo Furlan, esperto veneto per lunghi anni leader della nazionale di Davis, tra i primi venti al mondo nel 1996. Viene allenato dal leggendario Nick Bollettieri e precedentemente da Corrado Barazzutti, col quale non mancano i litigi e le incomprensioni, ma la sorte li rivorrà insieme nella Coppa Davis 2001, uno dei momenti più belli nella carriera dell’aretino.

Debutta nel circuito dei professionisti nel 1999, con una serie di ottime prestazioni nei tornei Future e Challenger: assieme al concittadino Daniele Bracciali, a Filippo Volandri e all’altoatesino Florian Allgauer rappresenta una delle migliori nuove leve del tennis azzurro, e in effetti, di questo talentuoso gruppetto, solo il bolzanino non riuscirà mai ad esprimersi ad alti livelli. Deve attendere solo una stagione per farsi conoscere al grande pubblico: nel 2000 infatti supera ben due turni al ricco torneo di Kitzbühel, prendendosi il lusso di eliminare l’argentino Guillermo Coria, futuro top ten mondiale.

L’annata successiva è quella della consacrazione, con l’aretino che parte in tromba, vincendo già a febbraio il prestigioso challenger di Bombay, dopo aver eliminato il beniamino di casa Leander Paes. Pochi giorni dopo raggiunge la semifinale nell’altro challenger di Singapore, guadagnandosi così la convocazione in Coppa Davis: la squadra azzurra, alle prese con il secondo turno della zona Euro-Africana (la serie B del torneo per nazioni), si trova anche coinvolta in una serie di problematiche federali, che generano una sorta di “ammutinamento” da parte dei tennisti più quotati. Dunque, largo ai giovani, e Luzzi, che si sente assolutamente fortunato per poter coronare uno dei sogni della carriera, ha un debutto veramente indimenticabile. L’avversario, nella bolgia di Helsinki, è Ville Liukko, esperto ma incostante biondino: 6-4, 7-6 e la strada per l’aretino sembra spianata, ma i soliti dolori alla schiena lo limitano parecchio, e poi viene fuori la maggiore abitudine dell’avversario a giocare sui cinque set, permettendogli di imporsi 6-4, 6-3 nei successivi due parziali. Si arriva ad un quinto set infinito, con match point salvati da una parte e dall’altra, fino a che Luzzi riesce ad imporsi 14-12, dopo 4 ore e 28 minuti, la partita più lunga di sempre per un italiano in Coppa Davis. La nazionale passa il turno, ma nello spareggio decisivo il giovane talento azzurro non può nulla contro i colpi di Ivanisevic e Ljubicic, che riportano la Croazia nella massima serie. Tuttavia, nel mezzo, c’è stata una stagione straordinaria  per Federico: quarti di finale a Barcellona, dopo aver sconfitto l’esperto spagnolo Calatrava; ottavi a Roma, ai danni di Arnaud Clement (numero 7 mondiale) e Hicham Arazi (19); qualificazione al Roland Garros, dove fa sudare Kafelnikov, ed una serie di altri risultati interessanti che gli permettono di risalire, a fine stagione, al numero 96 mondiale, posizione migliorata di cinque gradini nei primissimi giorni dell’anno seguente. Un tennista che sembra sulla via della gloria, per quanto alcuni suoi atteggiamenti possano sembrare eccessivi, come certi gesti di nervosismo e qualche bestemmia di troppo: tuttavia, la sfortuna è in agguato e si manifesta sottoforma di una grave lesione alla spalla, che lo costringe ad un lungo stop, condizionandolo per tutto il resto della carriera. Inizia un tunnel buio per Federico, con infortuni in quantità e risultati che non vogliono più saperne di arrivare: si conferma anche il suo carattere non proprio docile, quando, il 9 settembre 2004, stende con tre pugni l’austriaco Köllerer, noto provocatore del circuito mondiale, accusato di aver segnato il punto decisivo con una palla ben oltre la linea laterale. La classifica non lo premia, scaraventandolo oltre la cinquecentesima posizione.

Nel 2005 inizia una lenta risalita, stimolata dall’incontro con l’allenatore Umberto Rianna: l’aretino si qualifica agli Austrlian Open, costringendo al quinto set il funambolico Marcos Baghdatis, e fa vedere buone cose sia nei challenger che nei tornei di alto livello, come nel caso di Buenos Aires. Anche nel 2006 si conferma il trend positivo, con il recupero fino alla centocinquantesima posizione mondiale.

Ad inizio 2007, eliminato dal britannico Macklin nell’ultimo turno di qualificazione agli Australian, si fa notare per l’urlo “Maaaaterazzi campione del mondo!” con cui si congeda dal pubblico di Melbourne, ma l’ingresso nel main draw di Montecarlo, la semifinale nel challenger di Torino e la vittoria sul quotato austriaco Melzer nel primo turno di Doha gli consentono di continuare la scalata, sino alla 104esima posizione mondiale e al ritorno in nazionale, coronato da una netta vittoria sul lussemburghese Bram. Nell’estate 2007, in quella Kitzbühel che lo aveva lanciato ad alti livelli sette stagioni precedenti, Luzzi gioca il suo ultimo torneo ATP, perché il 2008 si apre con una squalifica di ben 200 giorni a causa di 273 scommesse su altrettanti incontri tennistici (alcuni dei quali lo vedevano direttamente in campo), circostanza assolutamente proibita dalle regole internazionali, per quanti gli importi delle puntate siano stati bassi e non ci siano mai stati tentativi di alterare il risultato di alcun match. Nel frattempo, durante lo stop forzato, si spalancano per lui le porte di Hollywood, guadagnandosi una parte in una serie televisiva il cui primo ciak sarebbe stato a dicembre: ma nel rientro in campo a settembre mostra un’insolita spossatezza, inizialmente attribuita alla lunga lontananza dai campi da tennis, fino all’ultimo match il 19 ottobre a Olbia, non portato a termine a causa di un violento mal di testa. Il resto è stato detto: una diagnosi terribile e la morte al termine di un breve ma dolorosissimo calvario, alle 15 del 25 ottobre. Perché la vita non guarda in faccia a nessuno.

TUTTE LE SQUADRE PORTANO A ROMA

Inizia la Final Four di Eurolega: vincerà ancora la Pro Recco o sarà la volta di una squadra balcanica?

Non sarà la Champions League, per bacino d’utenza e coinvolgimento mediatico, anche se dal prossimo anno si chiamerà proprio così. Eppure, per gli appassionati di pallanuoto, lo sport di squadra presente da più tempo ai Giochi Olimpici, è l’appuntamento più atteso dell’anno. Ed è, pur sempre, la più importante manifestazione continentale. Che si alzi il sipario, allora, sulla Final Four di Eurolega: sarà lo Stadio del Nuoto di Roma, nella zona del Foro Italico, ad ospitare domani e sabato l’atto supremo della regina delle coppe europee. A due anni di distanza dalla Champions League, quella vera, e dai Mondiali di nuoto, la capitale torna ad essere lo scenario di un evento comunque di richiamo (oltre cento i giornalisti accreditati). Neanche a dirlo, la Pro Recco fresca vincitrice del venticinquesimo scudetto della sua storia parte con i favori del pronostico: i liguri vogliono riporre nella loro sala trofei l’ennesima coppa dalle grandi orecchie. Sarebbe la settima, traguardo già raggiunto dal Mladost Zagabria, altra semifinalista che sarà opposta al Partizan Belgrado, fermo a quota sei come il settebello recchelino.

Mladost Zagabria-Partizan Belgrado (ore 19.30): delle due semifinali è quella più equilibrata, più imprevedibile, più affascinante (e anche la più a rischio: si parla di 6mila tifosi in arrivo nella capitale, con le forze dell’ordine già in allerta). Basterebbe solo rammentare che scendono in acqua tredici Coppe dei Campioni, tre Coppe delle Coppe, due Coppe LEN e quattro Supercoppe europee. Ma non è solo una questione di blasone: Mladost e Partizan sono il fiore all’occhiello di due scuole pallanotistiche, quella croata e quella serba, che hanno sempre dato spettacolo quando hanno incrociato le armi. Otto anni fa, a Kranj, nella finale degli Europei non mancarono violenti scontri e scene da guerriglia urbana, lo scorso settembre, a Zagabria, la semifinale continentale è stata una delle partite più belle dell’intera manifestazione, decisa solamente a pochi secondi dalla conclusione. Otto, finora, i confronti nella storia della Coppa dei Campioni poi ribattezzata Eurolega: il primo risale alla stagione 1969-70 e finì in parità (4-4), l’esito maggiormente ricorrente – tre volte – assieme alla vittoria dei serbi. Le due squadre si sono già affrontate nel girone eliminatorio: all’andata vinse 10-8 il Mladost, che a Belgrado fu però sommerso di reti (14-7). Tutta da seguire la personale sfida di Vanja Udovičić, nazionale serbo ed ex Partizan passato l’estate scorsa al Mladost, e di Igor Milanović, allenatore dei bianconeri che da giocatore ha indossato anche la calottina del settebello di Zagabria.

Pro Recco-Budvanska Rivijera (ore 21): ovvero la noia. Nulla sembra in grado di far pensare ad una clamorosa disfatta dei liguri di Pino Porzio, detentori del trofeo: non fosse altro che hanno vinto tre delle ultime quattro edizioni, arrendendosi solamente al Primorac Kotor due anni fa a Fiume. C’è, poi, il desiderio di raggiungere il Mladost nella speciale classifica delle squadre che hanno vinto il maggior numero di Coppe dei Campioni. E poi c’è il dato, tutt’altro che irrilevante, della maggior freschezza atletica dei recchelini: il patron Gabriele Volpi ha infatti messo a disposizione del tecnico partenopeo due diverse squadre, una per il campionato e l’altra per le coppe europee, dove non c’è un limite al numero di giocatori stranieri tesserabili. E così i vari Kásás, Molina, Perrone, Burić, Madaras e Filipović sono stati convogliati sull’Eurolega. Il minor numero di partite in calendario si traduce in un minor dispendio energetico e, per questo, gli stranieri della Pro Recco arriveranno all’appuntamento capitolino meno spossati dei loro avversari. Per i malcapitati montenegrini, meno decorati rispetto a Primorac e Jadran, unica squadra ad aver raggiunto le finali partendo dal primo turno preliminare, sembra che non ci sia sfida.

ASCESA, CADUTA E RINASCITA

La parabola di José Rujano, corridore venezuelano

Sud America, terra di scalatori. Già, perché tra Colombia, Venezuela e Messico sono nati alcuni dei più forti grimpeur dell’ultimo trentennio ciclistico: ragazzi che nascono in villaggi sperduti delle Ande, abituati sin da subito all’aria rarefatta, e che quindi si trovano perfettamente a loro agio sulle salite alpine e pirenaiche. Crescono tra la miseria e la povertà di quelle terre e vedono nell’Europa il loro El Dorado, il loro punto d’approdo, dove arrivare con una valigia di cartone (come nel caso di Julio Alberto Pérez Cuapio, eccezionale ma incostante eroe dei primi giri del nuovo millennio) per ottenere fama, gloria e soldi. L’irregolarità è spesso una caratteristica comune di questi corridori: si diceva di Pérez Cuapio, un talento cristallino buttatosi via nel giro di poche stagioni, ma anche Leonardo Sierra, Hernan Buenahora e José Rujano non sfuggono alla regola. E proprio al Giro d’Italia si è assistito al ritorno di fiamma di quest’ultimo.

José Humberto Rujano Guillén, questo il suo nome completo, nasce il 18 febbraio 1982 a Santa Cruz de Mora, centro amministrativo ed agricolo nello stato di Mérida, in Venezuela. Sin da piccolo, il ragazzo conosce la vita dura di molti suoi coetanei di quelle parti: trascorre le mattine sui banchi di scuola e i pomeriggi nelle piantagioni di caffè, assieme ai suoi familiari, arrivando a piantare sino a 5000 piantine al giorno. A otto anni, dopo tanti sacrifici, arriva la prima bicicletta, ed è subito grande amore: pronti via, José inizia ad allenarsi di sere, al termine di giornate spossanti, e a gareggiare nei weekend, ottenendo subito buoni risultati. Da giovane è il ciclismo su pista la sua prima passione, ma in poco tempo, rendendosi conto dei suoi mezzi fisici da scricciolo (162 cm per 49 kg di peso forma), segue la strada della montagna, quella dei colombiani e soprattutto del suo compaesano e idolo Leonardo Sierra, un Giro del Trentino e una tappa al Giro d’Italia nel palmarés.

Il debutto tra i professionisti arriva nel 2003 con la Colombia-Selle Italia, la squadra per metà italiana e per metà sudamericana diretta da Gianni Savio e Marco Bellini, vera fucina di scalatori cristallini per moltissime annate. Per le prime due stagioni, giovane e inesperto, viene fatto crescere con gare nel suo continente, conquistando tra l’altro una tappa alla Vuelta al Táchira, tradizionale kermesse di apertura del calendario sudamericano. Nel 2004 riesce a fare sua la classifica finale di quella corsa e anche quella della Vuelta a Santa Cruz de Mora, la zona dove è nato e cresciuto, convincendo Savio a trasferirlo sul calendario europeo per la stagione successiva.

L’anno di svolta è il 2005: dopo un altro dominio (tre tappe più classifica generale) a Táchira, Rujano si trasferisce a Laigueglia, in Liguria, per preparare al meglio il primo Giro d’Italia della sua carriera. Tuttavia, almeno per qualche tempo, non riesce a trovare la serenità necessaria per allenarsi al meglio, visto che la sua città viene travolta, l’11 febbraio, da una devastante alluvione che per giorni interi gli impedisce di entrare in contatto con i suoi familiari e con gli amici più cari, prima di scoprire che metà del suo paese, di fatto, non esiste più, spazzato via dalla furia dell’acqua. Resosi conto che quantomeno i suoi familiari stanno bene, riprende ad allenarsi più forte che mai, con un unico obiettivo in testa, il Giro d’Italia e le sue montagne: fare bene, vincere una o più tappe, poter dedicare qualche successo alla sua gente, quella povera gente che ha perso tutto. Una buona prova alla Settimana Coppi&Bartali, una fastidiosa influenza, tanto allenamento col compagno Leonardo Scarselli e poi eccolo, una formica in mezzo al gruppo, al via della corsa rosa a Reggio Calabria, il 7 maggio di quell’anno. Sin dalle prime salite, José brilla con una fuga dietro l’altra e conquista la maglia verde, ovvero la classifica a punti dei gran premi della montagna: tuttavia, le inevitabili batoste nelle prove a cronometro lo fanno scivolare abbastanza lontano da Di Luca e Basso, dominatori della prima metà di quel Giro. Anche a Zoldo Alto, impegnativo traguardo del comprensorio dolomitico, si difende egregiamente, ma il mondo del ciclismo, per scoprire veramente Rujano, deve aspettare la tredicesima tappa, il 21 maggio. A Ortisei, dopo Sella, Gardena e Passo delle Erbe, vince il compagno di squadra Ivan Parra, agile colombiano: Rujano è terzo, a soli 23’’, fa incetta di punti per la maglia verde e per la prima volta stacca i big. Nella frazione successiva, altra lunga fuga sua e di Parra, col prestigioso Passo dello Stelvio, Cima Coppi, varcato in testa, e altra vittoria del compagno, con Rujano nuovamente terzo ma che scala posizioni su posizioni in classifica generale. Tutti i giornalisti iniziano a intervistare questi due sudamericani, così simili ma così diversi: Parra ha il ciclismo nel sangue, con il fratello terzo al Tour 1988, e un fisico leggermente più possente; Rujano, esile, rasato e con l’orecchino come il suo idolo Pantani, si è fatto da solo, un passo dopo l’altro, facendo dell’agilità e dell’alzarsi sui pedali, come i veri scalatori,  i suoi tratti distintivi.

Passano le salite, e il piccolo venezuelano è sempre lì: è infatti secondo a Limone Piemonte, dove si prende il lusso di anticipare Simoni in volata, arrivando così sino al terzo posto nella graduatoria generale, che non viene scalfito nemmeno da una prevedibilmente disastrosa cronometro di Torino. Tuttavia, la vera impresa è datata 28 maggio. Quel giorno, lui e Simoni vanno all’attacco dell’inesplorato Colle delle Finestre, con gli otto chilometri finali che si arrampicano, rigorosamente in sterrato, oltre quota 2200 metri, per sfiancare la maglia rosa Paolo Savoldelli; per lunghi tratti, il trentino è leader virtuale della classifica, ma il Falco bergamasco recupera terreno prezioso nella discesa seguente. Sull’ascesa finale, verso Sestriere, Rujano va a prendersi la gloria, staccando Simoni negli ultimi chilometri: solo una crisi di fame, che lo fa affacciare sul traguardo con l’occhio vitreo e il volto segnato da una fatica immane, un’immagine da ciclismo d’altri tempi,  gli impedisce di guadagnare quella quarantina di secondi in più necessari a strappare la leadership a Savoldelli. Ma comunque la tappa è sua, e anche il terzo posto nella classifica finale, a 45’’ secondi dal vincitore e 17 da Simoni; anche l’ambita maglia verde viene meritatamente indossata dal venezuelano, con quasi il triplo dei punti del compagno Parra.

Forse l’improvvisa gloria gli dà alla testa, forse ci si mette un po’ di sfortuna, fatto sta che dalla stagione seguente Rujano è solo lontano parente di quel cavallo di razza d’alta montagna ammirato al Giro 2005. Abbandona presto Savio e la Selle Italia per inseguire un ricco contratto alla Quick Step, ma né lì, né alla Unibet e alla Caisse d’Epargne riesce ad ottenere risultati minimamente paragonabili a quelli del 2005. Per lunghe stagioni, è l’oblio la nuova dimensione di Rujano, la pancia del gruppo dalla quale non riesce più ad uscire, e sulle montagne non è più lui a staccare gli altri, ma sono gli altri a staccare, peraltro senza troppe difficoltà, lui. Infezioni e cadute, litigi e cene d’altro livello col presidente Chavez, un divorzio e una seconda moglie, cinque stagioni buttate vie, un’eternità, con solo qualche successo nei campionati nazionali, nella solita Vuelta a Táchira e al Giro di Colombia. Tutto questo finché…nell’inverno 2010 la sua strada non si incrocia nuovamente con quella di Gianni Savio.

L’ultima chance della vita, con l’Androni Giocattoli-Serramenti Diquigiovanni e lo stipendio ridotto (giustamente) al minimo: ma, finalmente, ha tanta serenità e tanta voglia di fare. Un po’ di sana follia in questa scommessa, che però, contro i pronostici di molti, si rivela vincente: Rujano è secondo nella tappa dell’Etna del Giro di quest’anno, e vince poi sul Grosslockner, primo arrivo alpino della corsa rosa, scalando i duri passi di quella tappa con la leggiadria e l’agilità di sei anni prima. Felici come bambini, per la loro vittoria, Rujano e il team manager Savio si abbracciano pubblicamente e si fanno fotografare sul belvedere della montagna, a celebrare la rinascita di un campione che, anche per il futuro, promette di fare “vita da atleta” e di essere sempre tra i più forti scalatori del mondo.