LA TRAGICA EPOPEA DI FEDERICO LUZZI

Andarsene via così, all’improvviso, quando si è nel fiore degli anni. Un male oscuro e incurabile che, invece di aggredirti gradualmente dandoti magari il tempo di provare una reazione, ti distrugge in una manciata di giorni. Dalla diagnosi di leucemia mieloide acuta, una versione fulminante di questa orrenda malattia, alla morte di Federico Luzzi passano appena due giorni. E lui era giovane, bello e forte, e aveva tutta l’intenzione di ricostruirsi quella brillante carriera che era stata fermata, in ultimo, da una squalifica per scommesse. Ma il destino riserva sempre qualche sorpresa, a volte anche tragica e orribile.

Federico Luzzi nasce ad Arezzo il 3 gennaio 1980, figlio di Maurizio, professione medico, e Paola Cesaroni, insegnante di musica. Già a 3 anni ha in mano la racchetta, giocando sui campi del Circolo Tennis cittadino: talentuoso sin da giovanissimo, ha tutte le caratteristiche del predestinato, e i successi si susseguono nelle varie categorie giovanili. Da juniores diventa campione del mondo, campione europeo e svariate volte campione nazionale, battendo in varie occasioni gente del calibro di Roger Federer, Marat Safin e Lleyton Hewitt: è limitato unicamente dalla spondilolisi, una malformazione vertebrale che lo costringe a numerosi stop e che ne ritarderà il successo tra i professionisti. I due atleti che lo ispirano sono tennisti italiani di grande talento: uno è Mosé Navarra, mancino velenoso esploso a Wimbledon 1996 e poi sparito nell’oblio per lunghi anni, l’altro è Renzo Furlan, esperto veneto per lunghi anni leader della nazionale di Davis, tra i primi venti al mondo nel 1996. Viene allenato dal leggendario Nick Bollettieri e precedentemente da Corrado Barazzutti, col quale non mancano i litigi e le incomprensioni, ma la sorte li rivorrà insieme nella Coppa Davis 2001, uno dei momenti più belli nella carriera dell’aretino.

Debutta nel circuito dei professionisti nel 1999, con una serie di ottime prestazioni nei tornei Future e Challenger: assieme al concittadino Daniele Bracciali, a Filippo Volandri e all’altoatesino Florian Allgauer rappresenta una delle migliori nuove leve del tennis azzurro, e in effetti, di questo talentuoso gruppetto, solo il bolzanino non riuscirà mai ad esprimersi ad alti livelli. Deve attendere solo una stagione per farsi conoscere al grande pubblico: nel 2000 infatti supera ben due turni al ricco torneo di Kitzbühel, prendendosi il lusso di eliminare l’argentino Guillermo Coria, futuro top ten mondiale.

L’annata successiva è quella della consacrazione, con l’aretino che parte in tromba, vincendo già a febbraio il prestigioso challenger di Bombay, dopo aver eliminato il beniamino di casa Leander Paes. Pochi giorni dopo raggiunge la semifinale nell’altro challenger di Singapore, guadagnandosi così la convocazione in Coppa Davis: la squadra azzurra, alle prese con il secondo turno della zona Euro-Africana (la serie B del torneo per nazioni), si trova anche coinvolta in una serie di problematiche federali, che generano una sorta di “ammutinamento” da parte dei tennisti più quotati. Dunque, largo ai giovani, e Luzzi, che si sente assolutamente fortunato per poter coronare uno dei sogni della carriera, ha un debutto veramente indimenticabile. L’avversario, nella bolgia di Helsinki, è Ville Liukko, esperto ma incostante biondino: 6-4, 7-6 e la strada per l’aretino sembra spianata, ma i soliti dolori alla schiena lo limitano parecchio, e poi viene fuori la maggiore abitudine dell’avversario a giocare sui cinque set, permettendogli di imporsi 6-4, 6-3 nei successivi due parziali. Si arriva ad un quinto set infinito, con match point salvati da una parte e dall’altra, fino a che Luzzi riesce ad imporsi 14-12, dopo 4 ore e 28 minuti, la partita più lunga di sempre per un italiano in Coppa Davis. La nazionale passa il turno, ma nello spareggio decisivo il giovane talento azzurro non può nulla contro i colpi di Ivanisevic e Ljubicic, che riportano la Croazia nella massima serie. Tuttavia, nel mezzo, c’è stata una stagione straordinaria  per Federico: quarti di finale a Barcellona, dopo aver sconfitto l’esperto spagnolo Calatrava; ottavi a Roma, ai danni di Arnaud Clement (numero 7 mondiale) e Hicham Arazi (19); qualificazione al Roland Garros, dove fa sudare Kafelnikov, ed una serie di altri risultati interessanti che gli permettono di risalire, a fine stagione, al numero 96 mondiale, posizione migliorata di cinque gradini nei primissimi giorni dell’anno seguente. Un tennista che sembra sulla via della gloria, per quanto alcuni suoi atteggiamenti possano sembrare eccessivi, come certi gesti di nervosismo e qualche bestemmia di troppo: tuttavia, la sfortuna è in agguato e si manifesta sottoforma di una grave lesione alla spalla, che lo costringe ad un lungo stop, condizionandolo per tutto il resto della carriera. Inizia un tunnel buio per Federico, con infortuni in quantità e risultati che non vogliono più saperne di arrivare: si conferma anche il suo carattere non proprio docile, quando, il 9 settembre 2004, stende con tre pugni l’austriaco Köllerer, noto provocatore del circuito mondiale, accusato di aver segnato il punto decisivo con una palla ben oltre la linea laterale. La classifica non lo premia, scaraventandolo oltre la cinquecentesima posizione.

Nel 2005 inizia una lenta risalita, stimolata dall’incontro con l’allenatore Umberto Rianna: l’aretino si qualifica agli Austrlian Open, costringendo al quinto set il funambolico Marcos Baghdatis, e fa vedere buone cose sia nei challenger che nei tornei di alto livello, come nel caso di Buenos Aires. Anche nel 2006 si conferma il trend positivo, con il recupero fino alla centocinquantesima posizione mondiale.

Ad inizio 2007, eliminato dal britannico Macklin nell’ultimo turno di qualificazione agli Australian, si fa notare per l’urlo “Maaaaterazzi campione del mondo!” con cui si congeda dal pubblico di Melbourne, ma l’ingresso nel main draw di Montecarlo, la semifinale nel challenger di Torino e la vittoria sul quotato austriaco Melzer nel primo turno di Doha gli consentono di continuare la scalata, sino alla 104esima posizione mondiale e al ritorno in nazionale, coronato da una netta vittoria sul lussemburghese Bram. Nell’estate 2007, in quella Kitzbühel che lo aveva lanciato ad alti livelli sette stagioni precedenti, Luzzi gioca il suo ultimo torneo ATP, perché il 2008 si apre con una squalifica di ben 200 giorni a causa di 273 scommesse su altrettanti incontri tennistici (alcuni dei quali lo vedevano direttamente in campo), circostanza assolutamente proibita dalle regole internazionali, per quanti gli importi delle puntate siano stati bassi e non ci siano mai stati tentativi di alterare il risultato di alcun match. Nel frattempo, durante lo stop forzato, si spalancano per lui le porte di Hollywood, guadagnandosi una parte in una serie televisiva il cui primo ciak sarebbe stato a dicembre: ma nel rientro in campo a settembre mostra un’insolita spossatezza, inizialmente attribuita alla lunga lontananza dai campi da tennis, fino all’ultimo match il 19 ottobre a Olbia, non portato a termine a causa di un violento mal di testa. Il resto è stato detto: una diagnosi terribile e la morte al termine di un breve ma dolorosissimo calvario, alle 15 del 25 ottobre. Perché la vita non guarda in faccia a nessuno.

PARIGI E ROLAND GARROS: LA STORIA CONTINUA

Dopo un anno di incertezza, la Federazione tennistica francese ha deciso: la sede del Roland Garros sarà Parigi anche dopo il 2016.

Roland Garros 1928Il Roland Garros dovrebbe restare a Parigi. Tra le sue mura si può respirare la storia del tennis. È importantissimo; e se ci si dovesse trasferire, anche in una struttura più grande, perderemmo tutti una parte della nostra anima” (Rafael Nadal)

Dei quattro complessi del Grande Slam, il Roland Garros è da molto tempo il più piccolo. Dopo che tra gli anni settanta e ottanta gli Open degli Stati Uniti e di Australia sono stati trasferiti in strutture più periferiche e decisamente più imponenti, e dopo i più recenti ampliamenti del complesso di Wimbledon, da più parti si era chiesto un adeguamento anche per il Roland Garros.

Effettivamente, con i suoi 8,5 ettari di superficie, il complesso parigino appariva quasi lillipuziano, se confrontato con i 14 ettari di Flushing Meadows e i 19 di Wimbledon e del Melbourne Park. I campi francesi dalla terra rossa richiedevano una ristrutturazione; e per questo, già nel 2008 il comune di Parigi, in quanto proprietario dell’area, aveva lanciato una gara per il progetto di ampliamento, ottemperando alla richiesta della Federtennis francese, alla disperata ricerca della grandeur perduta.

Ma all’inizio del 2010, la federazione prese la decisione di vagliare altre ipotesi, preoccupata dai tentennamenti del sindaco di Parigi, il socialista Bertrand Delanoë, stretto tra la pressione degli alleati ecologisti e quella dei comitati dei residenti del quartiere adiacente di Porte d’Auteuil, contrari alla imminente cementificazione, e soprattutto alla distruzione di una serra storica alla fine dei lavori.

Era stato quindi deciso di opporre tre ipotesi alternative a Parigi: Versailles, Gonesse, e la sede di Eurodisney, Marne la Vallée. Tutte erano meno suggestive dal punto di vista della memoria sportiva, ma presentavano progetti d’avanguardia architettonica, tali da farle diventare potenzialmente i complessi tennistici più grandi al mondo.

Dopo che alcuni grandi tennisti del momento, tra i quali Roger Federer e Rafael Nadal si erano schierati con decisione per il mantenimento del Roland Garros nella sede attuale, ieri la Federtennis francese ha riunito i suoi 195 membri per prendere una decisione definitiva. E con una maggioranza superiore ai 2/3, come richiesto dal regolamento, ha scelto di far prevalere la storia e la tradizione di Parigi su tutte le altre concorrenti.

E la storia del complesso del Roland Garros risale al 1927, quando venne decisa la costruzione di un moderno impianto tennistico, come degna cornice per la finale di Coppa Davis tra gli USA e la Francia, rappresentata a quell’epoca da un quartetto, soprannominato I quattro moschettieri: Jacques Brugnon, Jean Borotra, Henri Cochet e René Lacoste. Il nuovo stadio avrebbe preso il posto dello Stade Francais, a condizione che venisse intitolato ad uno dei membri del suo sport club; e per questo gli venne dato il nome di Roland Garros, un aviatore precursore di Charles Lindberg, detto anche “L’uomo che bacia le nuvole”, e morto sul campo poco prima della fine della Grande Guerra, anche se appassionato più al rugby che al tennis. Lo stadio, che durante l’occupazione nazista fu tristemente utilizzato come campo di concentramento per detenuti politici ed ebrei, venne ampliato più volte, ed affiancato tra il 1980 e il 1994 da due nuovi di capienza inferiore.

La delibera della federazione ha fatto tirare un sospiro di sollievo alla maggior parte degli appassionati di tennis francesi, compreso il sindaco Delanoë, terrorizzato dall’idea di perdere anche gli internazionali di Francia, dopo la sconfitta per la sede delle olimpiadi 2012 a favore di Londra. Le polemiche però non sono mancate ugualmente, e i verdi e il comitato di quartiere di Porte d’Auteuil hanno preannunciato una battaglia legale contro i lavori di ampliamento del complesso, che porteranno la superficie a 13,5 ettari, compreso un nuovo stadio da 5.000 posti, proprio la dove sorge la vecchia serra.

Questi lavori graveranno sul bilancio parigino per un budget di circa 250 milioni di euro, da ribaltarsi comunque interamente alla Federtennis, per terminare nel 2016, quando sarà inaugurato il nuovo Roland Garros in versione allargata, con una capacità di 55.000 spettatori complessivi, al posto dei 35.000 attuali, e con una copertura rimovibile elettronicamente, sul modello di quella già in uso al campo centrale di Wimbledon.

TENNIS: FOREST HILLS GRAZIATO. PER ORA.

L’assemblea del West Side Tennis Club salva lo storico stadio newyorkese, ma lo spettro demolizione aleggia ancora.

La decisione finale dell’assemblea del West Side Tennis Club sulla demolizione dello storico complesso newyorkese di Forest Hills, dove fino al 1977 venivano disputati gli US Open di tennis, era attesa per il 23 settembre, ma il tornado che il mese scorso aveva colpito il Queens ha costretto il differimento a oggi.

I 246 membri presenti sui 291 del club hanno votato spaccandosi esattamente a metà: 123 voti a favore della demolizione per costruire un grande condominio esclusivo, e 123 contrari. Ma siccome il regolamento interno prevede una maggioranza qualificata dei 2/3 per l’approvazione di questo tipo di decisioni, la proposta di demolizione è stata bocciata; e lo storico e malmesso campo di Forest Hills può continuare, anche se faticosamente, a sopravvivere.

Era stato proprio eccependo gli altissimi costi a perdere per la manutenzione ordinaria, che la proprietà del West Side Tennis Club si era orientata a vendere lo stadio per una cifra di circa 9 milioni di dollari a una società immobiliare, la Cord Meyer Development Company, che avrebbe dovuto riconvertire l’area alla costruzione di palazzi residenziali.

A confermare però che Forest Hills non è ancora definitivamente salvo è stato il presidente dello stesso club newyorkese, Kenneth Parker.

Infatti Parker ha dichiarato oggi al New York Times che in futuro saranno comunque valutate anche nuove proposte. Del resto, la situazione economica dell’associazione è decisamente precaria, soprattutto in considerazione di questi costi di manutenzione del complesso, ormai in disuso e quasi diroccato.

Altri membri del West Side Tennis Club si sono invece mobilitati per reperire i fondi necessari ai restauri, appellandosi anche all’International Tennis Hall of Fame e alla US Tennis Association, e hanno fatto notare che malgrado le pessime condizioni dovute all’incuria, il vecchio complesso non ha ancora perduto il proprio fascino e il proprio valore dal punto di vista storico.

Giuseppe Ottomano

TENNIS: FOREST HILLS A RISCHIO DEMOLIZIONE

Lo storico campo newyorkese di tennis potrebbe essere venduto ad una società immobiliare.

Fino al 1977, quando ne venne deciso lo spostamento al vicino complesso di Flushing Meadows, gli US Open di tennis erano noti anche con il nome di Torneo di Forest Hills.

Il complesso tennistico di Forest Hills, situato in un’area esclusiva, ai margini del quartiere newyorkese del Queens, composto da 38 campi da tennis e una piscina, aveva visto la luce nel 1923, ed il suo stadio principale, il West Side Tennis Stadium, era stato concepito per contenere un pubblico di 14mila spettatori.

Durante la propria attività aveva ospitato le performance dei migliori tennisti del mondo: sia per il suo prestigioso torneo che per le finali di Coppa Davis, disputatesi per sette volte tra il 1923 e il 1959. Quando non si giocava a tennis, lo stadio di Forest Hills andava a meraviglia anche per i concerti: e altrettanto storici erano stati quelli dei Beatles, Frank Sinatra, Barbara Streisand e Jimi Hendrix negli anni sessanta. Anche il cinema lo aveva sfruttato, quando nel 1951 aveva fatto da location per il film “L’altro uomo” di Alfred Hitchcock.

A partire dal 1978, però, quando gli internazionali USA li poteva vedere solo puntando il cannocchiale cinque chilometri più a sud, verso il nuovo e meglio attrezzato complesso di Flushing Meadows, si erano giocati solo tornei tennistici minori; e fatta eccezione per un festival rock negli anni novanta, era stato utilizzato sempre più raramente.

E, proprio eccependo gli altissimi costi a perdere per la manutenzione ordinaria dello stadio, la proprietà, un’associazione privata denominata West Side Tennis Club, è adesso orientata a vendere l’intero complesso per una cifra di circa 9 milioni di dollari a una società immobiliare, la Cord Meyer Development Company, che dovrebbe riconvertire l’area alla costruzione di palazzi residenziali per grandi ricconi, dotati oltre dell’immancabile beauty center, anche di un museo del tennis.

La decisione ufficiale sarà presa il 23 settembre, quando si riunirà a questo scopo l’assemblea dei 291 membri con diritto di voto del club, ma un sondaggio tra questi ha confermato l’intenzione di tirare diritto con il progetto di vendita.

Intanto, una parte dell’opinione pubblica newyorkese, che vede nello storico campo di Forest Hills un’impronta della propria memoria storica, sta setacciando la città alla ricerca di uno o più finanziatori, mossi da spirito filantropico, e disposti ad accollarsi le spese di manutenzione e di eventuale restauro per il rilancio del complesso. Contemporaneamente ha anche inviato un appello al sindaco di New York, il miliardario indipendente Michael Bloomberg.

Bloomberg ha promesso che si occuperà personalmente della faccenda, concludendo con il suo imperdibile motto:

New York è pulita. New York è divertente”.

Giuseppe Ottomano

IERI & OGGI: ALTHEA GIBSON, PRIMA NERA A VINCERE UN TITOLO AMERICANO NEL TENNIS

La storia di Althea Gibson, la tennista che superò le barriera razziali diventando il primo atleta di colore a vincere un titolo americano nel Tennis e molto di più.

Althea GibsonParlare di Althea Gibson significa necessariamente parlare della segregazione razziale nello sport, in questo caso nel Tennis, negli Stati Uniti tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Sviluppatosi negli Stati Uniti come sport per l’alta borghesia e l’elite, il Tennis statunitense visse per decenni una dicotomia tra tornei per bianchi e tornei per neri gestiti da due organizzazioni diverse; nel caso degli afroamericani fu l’American Tennis Association, creata nel 1916, ad occuparsi dello sviluppo del gioco tra la popolazione di colore organizzando dal 1917 i Campionati Nazionali contrapposti ai Campionati della USLTA, US Lawn Tennis Association, dove solo i bianchi avevano accesso. Il primo incontro interrazziale avvenne solo nel 1940 quando Don Budge, autore nel 1938 del Grand Slam, giocò in una esibizione al New York Cosmopolitan Club di Harlem contro il campione ATA Jimmie McDaniel vincendo per 6-1 6-2 ma riconoscendo come il gioco di McDaniel avrebbe potuto essere da Top Ten.

Si trattò solo di un caso sporadico e le barriere razziali più rilevanti furono rotte solo a partire da una decina di anni più tardi da Althea Gibson, una ragazza nata nella Carolina del Sud nel 1927 e trasferitasi ad Harlem all’età di tre anni. La passione per il tennis crebbe proprio al Cosmopolitan Club di Harlem e la Gibson nel 1944 vinse il suo primo titolo nazionale ATA nella categoria junior. La qualità del gioco di Althea crebbe e nel 1950 riuscì a partecipare ai Campionati Nazionali Indoor della USLTA divenendo la prima giocatrice di colore a raggiungere la finale di un Campionato Nazionale. Fu ammessa, nonostante il colore della pelle, a partecipare ai Campionati sulla terra rossa dove uscì nei quarti di finale ma la barriera razziale sarebbe stata superata solo partecipando al massimo evento statunitense del tennis, lo US Open che all’epoca si teneva sull’erba di Forest Hills. Tutto faceva presagire un’ennesima esclusione fino a quando la campionessa bianca Alice Marble intervenne con un articolo sulla rivista American Lawn Tennis scrivendo: “Se il tennis è un gioco per gentildonne e gentiluomini, è il momento che si inizi a comportarsi da persone corrette e non da moralisti ipocriti” per chiudere con una sfida: “se Althea Gibson rappresenta una minaccia per questa generazione di giocatrici, è corretto che questa minaccia sia affrontata sui campi da gioco”. L’intervento ebbe effetto e, nel giorno del suo ventitreesimo compleanno, Altea divenne la prima persona di colore a partecipare agli US Opendove uscì al secondo turno contro Louise Brough, una delle star dell’epoca. La storia, talvolta leggendaria, vuole che il match contro la Brough fosse interrotto da un fulmine che colpì una statua e che la Gibson dichiarasse: “quando il fulmine ha colpito ho visto un segno dei tempi che cambiano”.

Saetta o non saetta, la Gibson, la donna di colore delle prime volte nel tennis, nel 1951 fu la prima afroamericana a giocare a Wimbledon ma i suoi migliori anno arrivarono a partire dal 1956 quando vinse il suo primo titolo in un torneo del Grand Slam, gli Open di Francia. L’anno successivo è l’anno della definitiva affermazione: vince Wimbledon battendo in finale Darlena Hard 6-3 6-2 e al ritorno in patria viene fatta sfilare a Broadway. Nonostante questo nella sua biografia la Gibson ricorderà come sebbene vincesse tornei e le fossero tributati onori anche dal vicepresidente Nixon in certe zone del paese le venisse rifiutato l’accesso in alcuni alberghi e le fosse impedito di organizzare un rinfresco in suo onore. Il 21 luglio 1957, Althea Gibson diventa il primo tennista di colore a vincere un titolo nazionale statunitense battendo nella finale dei Campionati in Terra Rossa ancora Darlene Hard con il risultato di 6-2 63. Poco più di un mese dopo si issò sul tetto del tennis americano e mondiale affermandosi anche negli US Open superando in finale Louise Brough (6-3 6-2).

Diventata ormai la tennista numero uno al mondo, Althea Gibson difese con successo ambedue i titoli l’anno successivo e sia nel 1957 sia nel 1958 fu scelta dall’Associated Press come l’atleta dell’anno (un’altra prima volta per gli afroamericani). Dopo aver vinto il suo secondo US Open passò al professionismo.

Massimo Brignolo