I MAGNIFICI SETTE

Nell’Eurolega di pallanuoto l’Olympiakos si presenta con appena sette giocatori: la crisi sembra irreversibile.

Quando, agli inizi degli anni Novanta, la nazionale di pallanuoto maschile vinceva più o meno tutto quello che c’era da vincere, la stampa coniò un soprannome che, nel corso degli anni, è diventato di uso corrente: Settebello. Il fatto che, nella pallanuoto, scendano in acqua sette giocatori titolari consente di utilizzare altri epiteti per riferirsi ad una squadra, attingendo a piene mani dal mondo del cinema e della letteratura.

Nel caso dell’ultima fatica dell’Olympiakos in Eurolega, «I magnifici sette» sembra essere il titolo più calzante. Lungi, però, dal volergli dare i connotati di un gesto di scherno nei confronti della squadra di Vangelis Pateros (7-1 è infatti il risultato finale con cui il Partizan Belgrado ha vinto la sfida). I magnifici sette sono proprio i giocatori ellenici che hanno preso parte alla trasferta in terra serba: l’Olympiakos si è presentato ridotto ai minimi termini, senza la possibilità di effettuare cambi durante la partita. Per la cronaca i magnifici sette sono Deligiannis, Theodoropoulos, Komadina, Fountoulis, Delakas, Mylonakis e Blanis, con Christos Afroudakis costretto ad arrendersi durante il riscaldamento. Sei gli indisponibili tra infortunati (Kolomvos e Vlontakis), lavoratori dipendenti cui non è stato concesso il giorno di ferie (Kochilas) ed altri alle prese con problemi familiari (Doskas, Floros e Schizas). Della serie: felice anno nuovo, Olympiakos.

L’episodio di Belgrado, comunque, è solo l’ultimo in ordine di tempo di una lunga serie di vicissitudini che dallo scorso autunno stanno interessando la polisportiva del Pireo: si comincia a settembre, con i giocatori che si rifiutano di riprendere gli allenamenti a causa dell’insolvenza della società nel pagamento degli stipendi. E nel frattempo fanno le valigie due simboli della squadra come il centroboa Georgios Afroudakis, passato ai rivali del Panathinaikos, e soprattutto il poliedrico Theodoros Chatzitheodorou, capitano di lungo corso che – ironia della sorte – ha giocato contro i suoi ex compagni a Belgrado. Gli incontri con gli amministratori della società si rivelano infruttuosi: i giocatori, rappresentati nelle trattative da Deligiannis e Vlontakis, firmano una lettera aperta in cui denunciano il mancato pagamento di sette mensilità e minacciano di andare per vie legali. Poi il campionato inizia ed i giocatori onorano, comunque, gli impegni presi. Almeno in campionato, dove vincono tutte le partite a disposizione.

A pochi giorni dalle vacanze di Natale, poi, scoppia l’ennesima bolla: i giocatori si rifiutano di scendere in acqua nel derby con il Panathinaikos. E menomale che nella pallanuoto la rivalità si affievolisce: provate a immaginare le conseguenze di una simile decisione nel calcio o, peggio ancora, nella pallacanestro. All’orizzonte si materializza lo spettro della sconfitta a tavolino, proprio contro gli eterni rivali: un affronto. Si cerca di rimediare mandando in acqua i ragazzi del settore giovanile. Poi Deligiannis e compagni ci ripensano: infilano calottine e costume e violano la piscina del complesso olimpico di Maroussi per 9-5.

Tutto bene quel che finisce bene? Non esattamente. Quasi fossero i marinai ammutinati di una nave, i giocatori protestano contro la società gettando in acqua le calottine. Come a dire: adesso basta, la pazienza è finita, le lasciamo indossare a qualcun altro. Il vicepresidente Nikos Karachalios plaude alla professionalità dei giocatori, che non sono venuti meno ai loro doveri pur non percependo lo stipendio. E annuncia che adesso sarà la società a doversi muovere. Durante le festività vengono elargiti mille euro a quei giocatori che, pallanuoto a parte, non hanno altra fonte di reddito (nella fattispecie: Blanis, Delakas, Floros e Fountoulis), gli altri attendono ancora alla finestra e scrivono direttamente al governo affinché intervenga direttamente nella vicenda. E, nel frattempo, due ex biancorossi – Georgios Afroudakis e Slobodan Nikić – fanno causa all’Olympiakos che vanta debiti pregressi verso i suoi ex centroboa.

Intanto il tempo scorre e oggi sarà nuovamente tempo di campionato: da un derby all’altro, dal Panathinaikos all’Ethnikos, l’altra grande squadra del Pireo. Occhio ad altri, teatrali colpi di scena. Ma qui non siamo in una commedia di Aristofane. Tutt’altro.

PALLANUOTO: OLYMPIAKOS IN GRAVE CRISI

La società non paga gli stipendi e i giocatori si rifiutano di allenarsi: acque agitate al Pireo.

Hanno semplicemente deciso di difendere i loro diritti e di scioperare. Una scena divenuta oramai una pratica pressoché quotidiana in Grecia, dopo l’avvento di una recessione economica senza precedenti. Ma loro non sono dipendenti statali, portuali, insegnanti o agricoltori, tra le figure che più volte hanno incrociato le braccia nell’ultimo semestre. Sono i giocatori della squadra di pallanuoto dell’Olympiakos, celebre polisportiva del Pireo che ha in calcio e pallacanestro i suoi fiori all’occhiello: la società non paga da tempo gli stipendi e adesso i campioni di Grecia hanno deciso di incrociare le braccia, rifiutandosi di presenziare agli allenamenti. E, tra polemiche e disperati tentativi di trovare una soluzione, c’è chi ha già fatto le valigie.

La bolla è scoppiata un mese fa, il 6 settembre: i giocatori e l’allenatore Vangelis Pateros avrebbero dovuto riprendere gli allenamenti in vista della nuova stagione (il campionato greco inizia il 6 novembre e, qualche giorno dopo, sarà la volta dell’Eurolega) ma, invece di scendere in acqua, hanno deciso di scioperare fino a quando non riceveranno garanzie sul futuro. L’Olympiakos ha dovuto fare i conti con la sciagurata gestione del magnate Sokratis Kokkalis: un anno fa ammontava a 70 milioni di euro il debito della società, al momento solo parzialmente ripianato dal nuovo proprietario Vangelis Marinakis, re delle navi da trasporto (la sua flotta è di 170 cargo). In estate si era addirittura rincorsa la voce di un possibile ingaggio del fuoriclasse serbo Dejan Udovičić, ma la realtà ha assunto assai presto i connotati di una tragedia in perfetto stile di Sofocle.

Le risorse economiche di Marinakis sono state principalmente impiegate per rafforzare la squadra di calcio, reduce da una delle stagioni più fallimentari della sua gloriosa storia (scudetto al Panathinaikos dopo la vittoria di cinque campionati consecutivi e mancata qualificazione alla Champions’ League prima e all’Europa League poi). E mentre approdavano al Pireo i calciatori Riera e Rommedhal, due pilastri della squadra di pallanuoto si imbarcavano verso altre destinazioni, alla luce delle incertezze che aleggiano attorno alla società: il centroboa Georgios Afroudakis, miglior marcatore nella storia dello sport ellenico, ha sposato l’ambizioso progetto del Panathinaikos. Ma l’addio più doloroso è stato senza dubbio quello del capitano Theodoros Chatzitheodorou, vera e propria icona dell’Olympiakos: quindici gli anni trascorsi in calottina biancorossa, ventisette i trofei conquistati (nel 2002 pure un grande slam con campionato, Coppa nazionale, Coppa dei Campioni e Supercoppa Europea). Gli era stata proposta una riduzione dell’ingaggio, ma giocatore e società non hanno trovato l’accordo: Chatizitheodorou è adesso libero sul mercato ed il Panionios, vicecampione nazionale in carica, lo sta corteggiando.

Nel frattempo il portiere Nikolaos Deligiannis ed il centroboa Antonis Vlontakis hanno fatto da portavoce dei giocatori nelle trattative con la società, alle quali non era però presente Marinakis: finora solo fumate nere, con gli amministratori che hanno formulato la proposta di decurtare del 60% gli ingaggi.  In una lettera firmata, la squadra ha lamentato la mancanza di trasparenza e gratitudine da parte della società: “Il vicepresidente Yannis Kent ci aveva assicurato che all’avvio della stagione tutto si sarebbe risolto e invece per due mesi c’è  stato silenzio assoluto.  Noi abbiamo fatto il nostro dovere vincendo il campionato da imbattuti per il secondo anno consecutivo. Per sette mesi non ci hanno pagato e, in seguito, ci hanno annunciato che gli ingaggi della stagione 2009-2010 verranno pagati a rate fino a dicembre 2011!”. Christos Afroudakis, intervistato dall’emittente radiofonica Sentra, ha rincarato la dose: “Riceveremo 400mila euro invece del milione che ci spetterebbe. E hanno detto che i nostri stipendi sono troppo cari, quando noi giocatori già in due precedenti occasioni avevamo accettato una riduzione. Da parte nostra non c’è l’intenzione di usare ancora una volta la buona volontà, è una vergogna per lo sport greco dal momento che nella squadra dell’Olympiakos ci sono giocatori che hanno preso parte alle Olimpiadi”. Non è da escludere che si arrivi alle vie legali: “Certo, è una soluzione estrema. Ma non so come la squadra riuscirà a scendere in acqua se non troviamo una soluzione, probabilmente con i giovani. La questione, tuttavia, è che non ci siamo allenati per tutta l’estate: ci costerà molto, ma avrà importanza solo se troveremo una soluzione. In caso contrario, non parteciperemo al campionato”.

Campionato che inizierà solamente tra un mese. Il tempo stringe. Come nelle commedie di Aristofane, ci vorrebbe che dall’alto calasse un deus ex machina pronto a risolvere l’intricata situazione. Ma l’Olympiakos sembra davvero sull’orlo del precipizio.

Simone Pierotti

PAZZO CALCIO: SE IL BUONGIORNO SI VEDE DAL MATTINO

Cagliari - BastiaRubrica quindicinale su tutto quello che gira intorno al rettangolo in cui si gioca lo sport più amato e discusso dagli italiani. Di Nicola Sbetti

Amichevoli che finiscono in rissa e poco cambia se i protagonisti sono i giocatori (Cagliari – Bastia e Catania – Iraklis) o gli Ultras (Parma – Spal), un numero sempre maggiore di squadre fallite, bilanci perennemente in rosso, un’impressionante calo degli abbonamenti venduti (da tre anni siamo ormai il fanalino di coda dell’Europa, umiliati da Germania e Inghilterra e inferiori anche a Spagna e Francia), un sistema ideato per arginare la violenza sugli spalti che sa molto di schedatura e rende ancora più complesso l’andare a vedere una partita di calcio allo stadio, Lega Calcio e Figc in rotta e un possibile sciopero dei calciatori alla prima giornata. Insomma, se questo è l’antipasto prepariamoci con le dovute precauzioni all’abbuffata di calcio che come ogni anno ci aspetta.

A onor di vero la stagione è già cominciata (a luglio!!!), la Juventus ha esordito a Dublino, nei preliminari di Europa League, vincendo per 2 a 0 contro lo Shamrock (doppietta di Amauri). Anche in Irlanda però si può imparare qualcosa, il piccolo stadio (6.500 posti) in cui si è giocato l’incontro era dotato di un luogo preposto per lasciare i neonati e i bambine per tutta la durata dell’incontro. Potrebbero sembrare banalità ma quando presidenti e politici si riempiono la bocca con slogan tipo “Riportiamo le famiglie allo stadio” non propongono mai iniziative come queste. Andare allo stadio è invece sempre più difficile, prima i biglietti da comprare giorni in anticipo, poi i tornelli, talvolta la decisione di limitare la vendita ai soli residenti in provincia, ora la misteriosa tessera del tifoso (sfido chiunque non si sia informato di persona a spiegarne il funzionamento). Ma se io sono tifoso del bel gioco, mi fanno una tessera ad hoc? E se seguo più di una squadra? Dilemmi irrisolvibili, tanto ormai vedere il calcio dal vivo è diventato una chimera. Per fortuna ci sono le Pay Tv pago e mi godo le partite comodamente dalla mia poltrona. Il sistema poi è semplicissimo (se ti compri tutti i pacchetti in vendita): c’è il satellite per il campionato, la televisione pubblica per la Champions League e il digitale terrestre a pagamento per l’Europa League, quest’anno poi le telecamere entreranno anche negli spogliatoi.. wow, chi ci va più allo stadio. Aspettiamo con ansia la completa applicazione del modello Premier League dove un biglietto ti costa uno stipendio. Basta essere consci che così facendo lo sport più popolare del mondo rischia di diventare un bene esclusivo come hanno dimostrato i Mondiali sudafricani. Stupende cattedrali nel deserto a uso e consumo delle televisioni globali a pochi chilometri di distanza da persone (tenute a debita distanza dall’occhio del turista) che usavano l’energia del loro generatore per guardarsi le partite del Mondiale.

A proposito del Mondiale e dei modelli da adottare, voi siete per il modello spagnolo o modello tedesco? Il dibattito nato da alcuni autorevoli giornali dopo il disastro dell’Italia di Lippi (e non dimentichiamoci quello dell’Under 19) sarebbe veramente interessante ma malauguratamente finisce per essere funzionale al “modello quaquaraquà italiano”. Fior fior di esperti, danno il loro parere per come migliorare la situazione, si instaura una dinamica positiva in cui vengono suggerite alcune soluzioni pratiche ideali poi, quando la spinta mediatica viene meno, nulla cambia vengono presi provvedimenti più simbolici che utili (es: quest’anno le squadre italiane possono acquistare un solo calciatore extracomunitario) che mantengono l’immobilismo perché le decisioni vengono prese troppo spesso secondo ragionamenti politici e non meritocratici.

Il successo dell’Italia nel 2006 aveva delle solide basi nel lavoro fatto da Cesare Maldini in avanti con l’under 21. Ora è un dato di fatto che da quando Gentile non allena più l’under21 nessuna nazionale giovanile ha più avuto successo eppure, dopo numerosi fallimenti, mai nessuno mette in discussione la figura di Casiraghi o ancor meno quella di Abete.

Vi sono però anche le note positive. Innanzitutto non c’è più Mourinho, l’Inter perde un allenatore vincente (Benitez però non è certo l’ultimo arrivato) e l’Italia guadagna qualche polemica in meno. Speriamo si ritorni a parlare più di calcio, di tattica, di belle giocate. Proprio lo stesso auspicio dei dirigenti Rai quando hanno annunciato che da quest’anno nelle loro trasmissioni non ci sarà più la moviola. Musica per le mie orecchie; anche se la “cassazione” sembra comunque una moviola mascherata, vi lascio con l’auspicio  che al più presto ci sia sempre più moviola in campo e sempre meno moviola in televisione.

BUONA STAGIONE CALCISTICA 2010-11

Nicola Sbetti

SUMO-GATE: PIÙ SONO PESANTI, PIÙ RUMORE FANNO CADENDO

Scommesse clandestine e collusione con la mafia: la tradizione del sumo, in piena crisi di identità, viene travolta dall’ennesimo scandalo.

Per un giapponese il sumo non è solo uno sport. Il sumo è la storia del Giappone, a partire da riti celebrati contro una natura che sovente mostra il suo volto più feroce (terremoti con relativi tsunami e tifoni, ad esempio), simboleggiata da spiriti maligni in lotta contro monaci che si facevano montagne (la classica immagine della grande onda che si infrange contro il Fuji). Successivamente è divenuto uno spettacolo per gli imperatori, poi lo sport dei samurai, infine è nato il sumo moderno. Il lottatore (rikishi), nella sua vita di continuo allenamento e meditazione, è la perfetta sintesi tra un monaco guerriero e un samurai, additato dai giapponesi quale esempio di rettitudine e incarnazione del codice samuraico (bushidō) e della millenaria tradizione shintoista. Un esempio della sacralità e del rigore del sumo è dato dagli oggetti che l’arbitro tiene in mano: il ventaglio, simbolo legato all’antica nobilità imperiale, e il coltello che anticamente gli sarebbe servito per il seppuku (il suicidio del samurai, in occidente erroneamente chiamato harakiri), qualora avesse arbitrato male.

Con queste premesse, è più facile comprendere l’ondata di sdegno che si è sollevata tra gli estimatori del sumo. Dopo le vicende negative che hanno coinvolto la federazione di sumo negli ultimi anni, in questi giorni assistiamo al ritiro del campione Asashōryū per comportamento disdicevole a seguito dell’ennesima rissa, e al coinvolgimento di 65 lottatori su 800 che compongono la federazione in un giro di scommesse clandestine, gestite dalla mafia locale, la Yakuza. È doveroso precisare che le scommesse erano esclusivamente su incontri di baseball e altri sport. Non risulta che siano stati combinati incontri di sumo, quindi tutta la vicenda gravita intorno all’onorabilità dei rikishi. Un duro colpo per lo sport tradizionale che, già da diverso tempo, deve fare i conti con una fase di declino: sempre meno sono i giovani di un Giappone moderno disposti a dedicare la propria vita al sumo. Il rigidissimo stile di vita del rikishi infatti è frutto di una visione antica del mondo e impone una vita di clausura, oltre a comportare scarsa longevità per gli atleti, che pagano in termini di problemi cardiaci e circolatori l’alimentazione necessaria per raggiungere il necessario physique du rôle. Essere un rikishi significa dedicarsi anima e corpo alla tradizione giapponese, in un cammino che non offre alternative al sumo, una volta intrapreso. Significa essere uno dei simboli più puri della millenaria tradizione nipponica.

Crisi all’interno della quale si colloca anche la figura di Asashōryū Akinori, personaggio controverso che ha scosso diverse volte l’establishment del sumo. Nato nella capitale mongola Ulan Bator, Asashōryū è stato il più precoce sumotori della storia, diventando il 68° Yokotsuna (il grado più alto nella gerarchia del sumo, raggiunto nella storia solo da 75 lottatori), primo di nazionalità mongola, a soli ventidue anni. Dolgorsürengiin Dagvadorj, questo il suo vero nome (l’altro, Asashōryū, significa “Drago blu del mattino”), non particolarmente amato dal pubblico per il fatto di non aver mai richiesto la cittadinanza giapponese, ha infranto più volte i rigidi codici del sumo: sonore proteste con gli arbitri, schiaffi agli avversari fuori dal dohyō (il ring del sumo), sospetti di combine, esultanze eccessive, episodi di danneggiamenti nei confronti del suo Oyakata (maestro e allenatore). Oltre alle squalifiche: nel 2003 per aver strattonato un avversario per i capelli durante un incontro, nel 2007 per aver saltato, con un falso certificato medico, un torneo promozionale (primo Yokotsuna a subire una squalifica).

Nel veder messa in dubbio l’onorabilità dei rikishi l’opinione pubblica ha risposto negativamente, inviando messaggi di sfiducia e biasimo alla federazione e ai media. Messaggi che hanno indotto gli sponsor a ritirarsi e, successivamente, la televisione pubblica NHK ad annullare le dirette del torneo di Nagoya, trasmesse ininterrottamente dal 1957, anno in cui la televisione sbarcò in Giappone. È molto probabile che gli incontri, in calendario dall’11 al 25 luglio, saranno disertati dal pubblico in segno di protesta verso chi sta infangando la tradizione. Il Giappone non è nuovo a casi di corruzione, scandali e connivenze con la Yakuza: tutti eventi mal visti dall’opinione pubblica che di prassi pretende la testa di chi si macchia di tali reati, in particolare quando il buon nome del Giappone e delle sue tradizione viene infangato. A gran voce si chiede rifondare la federazione ed epurare chiunque sia coinvolto in vario titolo negli scandali o colluso con la Yakuza, per salvare la sacralità di uno sport che di fatto è una vera cerimonia religiosa, in cui anche il dohyō è strutturato come un tempio shintoista. In un paese in cui l’onore è ancora un valore e il sentimento nazionalistico è vivo e forte, è inaccettabile che sia infangato uno dei simboli del paese. Chi ha sbagliato, sicuramente, pagherà e a poco serviranno le doverose e inevitabili scuse dei lottatori coinvolti.

Marco D’Urso