GIAPPONE: TRAVOLTO DAGLI SCANDALI, IL SUMO ENTRA NEL TUNNEL

La parabola discendente del Sumo, l’anima profonda di un Giappone globalizzato che guarda sempre più a Calcio e Baseball.

Sumo - 1861“Ai miei tempi gli incontri truccati erano parte integrante del sumo; eppure nessuno di noi si sentiva in colpa per questo.” (Keisuke Itai, lottatore professionista di sumo tra il 1978 e il 1991)

Date le microscopiche dimensioni, lo scandalo delle scommesse clandestine che in Giappone sta travolgendo il sumo, farebbe solo sorridere noi italiani, avvezzi a livelli ben più elevati. Infatti, già lo scorso luglio l’inchiesta dei magistrati giapponesi, aveva scoperto che anche i lottatori di sumo, equiparati a semidei dai più nostalgici tradizionalisti del sol levante, erano coinvolti nel giro delle scommesse illegali su alcuni incontri di baseball, per valori intorno a un paio di migliaia di euro. Dalle ultime intercettazione di alcuni sms di alcuni lottatori, però gli inquirenti sono arrivati a sospettare che anche gli stessi incontri di sumo siano stati in qualche modo truccati.

Dietro queste scommesse sembra che aleggi l’ombra della Yakuza, la storica organizzazione criminale nipponica, ormai quasi del tutto soppiantata dalla ben più rampante mafia cinese. Secondo i giornalisti specializzati, il mondo del sumo vive sotto l’imbarazzante tutela della Yakuza da almeno un secolo, ma il colpo all’immagine di questo sport questa volta è stato devastante. Se già in estate lo scandalo aveva prodotto come effetti a catena: la cancellazione delle gare del Basho di Nagoya, uno dei sei principali tornei annuali di sumo, le dimissioni del presidente della federazione nazionale, e il ritiro di uno sponsor milionario come Fuji Xerox, proprio ieri è partito un altro siluro letale. Anche il Basho di Osaka di questa primavera è stato annullato dal programma, almeno finché l’inchiesta sulle scommesse non chiarirà definitivamente tutti gli aspetti di questa vicenda.

Paragonato ad altri sport di punta, come il calcio o il baseball, il sumo non è altrettanto allettante per i propri atleti. Il reddito annuo di una star del sumo corrisponde a circa 200mila euro annui, poco più di quello di un giocatore della serie B italiana. E in aggiunta, un calciatore può gestirsi la vita privata più o meno a proprio piacimento, mentre ogni sumotori è costretto a vivere come un asceta. Il sumo, in quanto sport antico più di 1.500 anni, mantiene gelosamente intatti i propri riti liturgici di origine scintoista: anima ed origine delle virtù giapponesi. Ai lottatori è imposto di vivere in comune sotto la direzione di un maestro, con programmi quotidiani da caserma ottocentesca, di sottoporsi a una dieta all’ingrasso datata un migliaio di anni fa a base di banane, patate, cavoli, chanko-nabe, uno stufato ipercalorico, salsa di soia, riso e birra, in quantità industriali, di acconciarsi i capelli come una geisha, e di indossare durante le gare un goffissimo perizoma di seta, simile a un maxi pannolone, lungo nove metri e chiamato mawashi.

Inevitabilmente, questa grave carenza di glamour, unita a un rapporto costi benefici poco conveniente, ha allontanato i giovani giapponesi dalla pratica del sumo, tanto che i dirigenti della federazione si sono visti costretti ad aprire le frontiere a lottatori stranieri: cinesi, sudcoreani, mongoli, russi ed europei dell’est. I puristi hanno visto questa apertura come un affronto a una disciplina che, in quanto simbolo del Giappone, non avrebbe mai dovuto ricorrere a modelli d’importazione.

La crisi del sumo oggi è una realtà ineludibile; e stretto tra la morsa della concorrenza degli sport internazionali e le ultime disavventure giudiziarie, sta rischiando di vedersi limitati i propri confini come una riserva indiana. I tempi, in cui era circondato da un’aurea di religioso rispetto (e di impenetrabilità), tanto che anche l’imperatore Hirohito non mancava mai di presenziare ai basho di Tokyo, sono lontani. Le polemiche e gli scandali hanno invece date decisamente più recenti, e in un ipotetico libro nero (ma neanche troppo) del sumo si potrebbero riassumere così gli episodi storici più tormentati:

Gennaio 1932: Provati dalle durissime condizioni di vita dell’epoca, trentadue campioni di sumo, incluso uno yokozuna (il massimo livello per questo sport, considerando che dal 1684 ad oggi, solo 69 lottatori lo hanno raggiunto), entrano in sciopero, reclamando paghe più alte, meno ore di allenamenti e il diritto a una pensione. Le rivendicazioni non vengono accettate, e molti degli atleti scioperanti verranno poi squalificati.

Gennaio 1968: Takamiyama Daigorō, al secolo Jesse James Wailani Kuhaulua, statunitense delle Hawaii, è il primo lottatore non giapponese a diventare Makuuchi, professionista di massima divisione. Questo tabù era stato comunque parzialmente infranto nel 1961 da Taiho, formalmente cittadino giapponese, anche se nato nell’isola di Sakhalin da madre giapponese e padre ucraino. Taiho, trapiantato a Hokkaido, la zona più arretrata del paese, era stato anche il precursore di un trentennio di dominio hokkaidese nel sumo.

Luglio 1985: Ancora un hawaiano, Konishiki Yasokichi, arriva a un gradino più alto del suo predecessore, e diventa sekiwake. Più tardi, confesserà al New York Times: “Se fossi stato un giapponese, mi avrebbero promosso a yokozuna”, accusando di xenofobia i dirigenti nipponici.

Luglio 1992: Un giovanissimo lottatore di quindici anni muore, stroncato da un infarto, durante il torneo di Nagoya. I media giapponesi mettono sotto accusa l’alimentazione forzatamente ipercalorica a cui sono sottoposti gli atleti.

Gennaio 1993: Akebono Tarō, ennesimo hawaiano, conquista il titolo di yokozuna.

Febbraio 2000: Keisuke Itai, ex sumotori, riferisce al settimanale Shūkan Gendai che durante la propria carriera di professionista, tra il 1978 e il 1991, almeno l’80% degli incontri erano truccati. Già nel 1996 la stampa giapponese aveva parlato di intromissioni della Yakuza per alterare le gare di sumo.

Marzo 2000: La governatrice della prefettura di Osaka chiede di potere salire sulla pedana di gara, il dohyo, per la cerimonia di premiazione dei vincitori del basho di primavera. Secondo il rituale di derivazione scintoista, a una donna, in quanto impura, non può essere permesso di violare la sacralità di una pedana di sumo. La sua richiesta, pur suscitando divisioni nel paese, verrà respinta dalla federazione.

2003: Una cinquantina di lottatori stranieri, originari soprattutto dall’Europa dell’est e provenienti in buona parte dalla lotta libera, diventano professionisti, invadendo i circuiti giapponesi di sumo.

Agosto 2007: Il mongolo Asashōryū Akinori, diventato il 68° yokozuna della storia, e già sanzionato per indisciplina, salta un torneo in Giappone e torna dalla famiglia a Ulan Bator, adducendo problemi fisici. Viene però ripreso dalle telecamere mentre gioca una partita di calcio di beneficenza in perfetta forma. Per questo sarà squalificato per due tornei consecutivi e il suo stipendio sarà ridotto del 30%.

Febbraio 2008: Un giovane lottatore muore per le percosse subite dai propri compagni più anziani dietro ordine del maestro. La federazione nasconde le cause della morte, dichiarando in un primo tempo che si era trattato di un attacco cardiaco. I responsabili saranno processati e condannati a pene tra i tre e i sei anni di carcere.

Agosto 2008: Tre sumotori russi vengono trovati positivi alla cannabis: le loro abitazioni sono perquisite dalla polizia (il consumo di cannabis è un reato secondo la legge giapponese), e vengono reperite modeste quantità di marijuana. Lo scandalo è un’occasione per riaccendere le polemiche sull’apertura delle frontiere.

2010/2011 (oggi): Un’inchiesta partita dalla magistratura nipponica sulle scommesse clandestine nel baseball, porta a indizi che gettano ombre pesanti sulla regolarità degli incontri di sumo.

SUMO-GATE: PIÙ SONO PESANTI, PIÙ RUMORE FANNO CADENDO

Scommesse clandestine e collusione con la mafia: la tradizione del sumo, in piena crisi di identità, viene travolta dall’ennesimo scandalo.

Per un giapponese il sumo non è solo uno sport. Il sumo è la storia del Giappone, a partire da riti celebrati contro una natura che sovente mostra il suo volto più feroce (terremoti con relativi tsunami e tifoni, ad esempio), simboleggiata da spiriti maligni in lotta contro monaci che si facevano montagne (la classica immagine della grande onda che si infrange contro il Fuji). Successivamente è divenuto uno spettacolo per gli imperatori, poi lo sport dei samurai, infine è nato il sumo moderno. Il lottatore (rikishi), nella sua vita di continuo allenamento e meditazione, è la perfetta sintesi tra un monaco guerriero e un samurai, additato dai giapponesi quale esempio di rettitudine e incarnazione del codice samuraico (bushidō) e della millenaria tradizione shintoista. Un esempio della sacralità e del rigore del sumo è dato dagli oggetti che l’arbitro tiene in mano: il ventaglio, simbolo legato all’antica nobilità imperiale, e il coltello che anticamente gli sarebbe servito per il seppuku (il suicidio del samurai, in occidente erroneamente chiamato harakiri), qualora avesse arbitrato male.

Con queste premesse, è più facile comprendere l’ondata di sdegno che si è sollevata tra gli estimatori del sumo. Dopo le vicende negative che hanno coinvolto la federazione di sumo negli ultimi anni, in questi giorni assistiamo al ritiro del campione Asashōryū per comportamento disdicevole a seguito dell’ennesima rissa, e al coinvolgimento di 65 lottatori su 800 che compongono la federazione in un giro di scommesse clandestine, gestite dalla mafia locale, la Yakuza. È doveroso precisare che le scommesse erano esclusivamente su incontri di baseball e altri sport. Non risulta che siano stati combinati incontri di sumo, quindi tutta la vicenda gravita intorno all’onorabilità dei rikishi. Un duro colpo per lo sport tradizionale che, già da diverso tempo, deve fare i conti con una fase di declino: sempre meno sono i giovani di un Giappone moderno disposti a dedicare la propria vita al sumo. Il rigidissimo stile di vita del rikishi infatti è frutto di una visione antica del mondo e impone una vita di clausura, oltre a comportare scarsa longevità per gli atleti, che pagano in termini di problemi cardiaci e circolatori l’alimentazione necessaria per raggiungere il necessario physique du rôle. Essere un rikishi significa dedicarsi anima e corpo alla tradizione giapponese, in un cammino che non offre alternative al sumo, una volta intrapreso. Significa essere uno dei simboli più puri della millenaria tradizione nipponica.

Crisi all’interno della quale si colloca anche la figura di Asashōryū Akinori, personaggio controverso che ha scosso diverse volte l’establishment del sumo. Nato nella capitale mongola Ulan Bator, Asashōryū è stato il più precoce sumotori della storia, diventando il 68° Yokotsuna (il grado più alto nella gerarchia del sumo, raggiunto nella storia solo da 75 lottatori), primo di nazionalità mongola, a soli ventidue anni. Dolgorsürengiin Dagvadorj, questo il suo vero nome (l’altro, Asashōryū, significa “Drago blu del mattino”), non particolarmente amato dal pubblico per il fatto di non aver mai richiesto la cittadinanza giapponese, ha infranto più volte i rigidi codici del sumo: sonore proteste con gli arbitri, schiaffi agli avversari fuori dal dohyō (il ring del sumo), sospetti di combine, esultanze eccessive, episodi di danneggiamenti nei confronti del suo Oyakata (maestro e allenatore). Oltre alle squalifiche: nel 2003 per aver strattonato un avversario per i capelli durante un incontro, nel 2007 per aver saltato, con un falso certificato medico, un torneo promozionale (primo Yokotsuna a subire una squalifica).

Nel veder messa in dubbio l’onorabilità dei rikishi l’opinione pubblica ha risposto negativamente, inviando messaggi di sfiducia e biasimo alla federazione e ai media. Messaggi che hanno indotto gli sponsor a ritirarsi e, successivamente, la televisione pubblica NHK ad annullare le dirette del torneo di Nagoya, trasmesse ininterrottamente dal 1957, anno in cui la televisione sbarcò in Giappone. È molto probabile che gli incontri, in calendario dall’11 al 25 luglio, saranno disertati dal pubblico in segno di protesta verso chi sta infangando la tradizione. Il Giappone non è nuovo a casi di corruzione, scandali e connivenze con la Yakuza: tutti eventi mal visti dall’opinione pubblica che di prassi pretende la testa di chi si macchia di tali reati, in particolare quando il buon nome del Giappone e delle sue tradizione viene infangato. A gran voce si chiede rifondare la federazione ed epurare chiunque sia coinvolto in vario titolo negli scandali o colluso con la Yakuza, per salvare la sacralità di uno sport che di fatto è una vera cerimonia religiosa, in cui anche il dohyō è strutturato come un tempio shintoista. In un paese in cui l’onore è ancora un valore e il sentimento nazionalistico è vivo e forte, è inaccettabile che sia infangato uno dei simboli del paese. Chi ha sbagliato, sicuramente, pagherà e a poco serviranno le doverose e inevitabili scuse dei lottatori coinvolti.

Marco D’Urso