GILBERT CONCEDE IL BIS AL LOMBARDIA

Il ciclista belga vince il Giro della Lombardia, ultima grande classica della stagione.

Il Giro di Lombardia è da sempre la tradizionale chiusura della stagione ciclistica: è vero, ancora per un mese ci saranno gare e garette in ogni parte del globo, ma la cosiddetta classica delle Foglie Morte rappresenta l’ultimo appuntamento con il grande ciclismo di ogni annata, l’ultima occasione di riscatto per i corridori delusi, l’ennesima chance di splendere per chi ha dominato nei mesi precedenti.

Il percorso odierno si snoda sull’asse Milano-Como, 265 km attraverso la pianura attorno al capoluogo, le asperità della Val d’Intelvi, gli splendidi panorami del Lago di Como, la storica salita del Ghisallo, la ritrovata Colma di Sormano e il decisivo San Fermo della Battaglia, prima di arrivare sul lungolago della città lariana.

Come previsto, è battaglia sin dai primissimi chilometri, nel tentativo di portar via una fuga che caratterizzi la gara: riescono nell’intento, al chilometro 16, sei corridori. Si tratta del ventiduenne parigino Tony Gallopin (Cofidis), dell’esperto ticinese Michael Albasini (Team HTC-Columbia), del trentaquattrenne finlandese Kjell Carlström (Team Sky), del veneto Mauro Da Dalto (Lampre-Farnese Vini), e del duo della ISD-Neri composto dal del ventiseienne catanese Gianluca Mirenda e dal bergamasco Diego Caccia. Già da Porlezza la pioggia inizia a condizionare le corsa, e non si contano le scivolate di vari corridori lungo le discese disseminate lungo il percorso: anche un ottimo passista come il trentino Leonardo Bertagnolli finisce a terra ed è costretto al ritiro. Il vantaggio dei fuggitivi, che tocca quota 8 minuti, si riduce drasticamente quando si avvicinano le salite decisive, e già sul Ghisallo il campione nazionale Giovanni Visconti si fa vedere con un’azione importante, ma viene presto raggiunto e staccato dall’olandese Bauke Mollema (Rabobank). Nella discesa da Sormano, il siciliano Vincenzo Nibali, il vallone Philippe Gilbert, il marchigiano Michele Scarponi e lo spagnolo Pablo Lastras si ricongiungono con il fuggitivo; Nibali, tuttavia, è anch’esso vittima dell’asfalto reso scivoloso dalla pioggia e dalle foglie cadute, terminando a terra e staccandosi definitivamente dagli altri attaccanti. Già dai 20 km al traguardo, si capisce che gli uomini con la maggiore freschezza atletica sono Gilbert e Scarponi: i due restano appaiati in vetta alla corsa sino all’ultima ascesa, quella del San Fermo della Battaglia, guardandosi spesso negli occhi con atteggiamento di sfida. Ma Scarponi, tuttavia, non può portare fino in fondo la sua battaglia: nel momento in cui il rivale si alza sui pedali e scatta, il marchigiano è vittima di un salto di catena che gli impedisce di rispondere come avrebbe potuto.

Philippe Gilbert arriva dunque in solitaria sul lungolago Trento di Como, aggiudicandosi il Giro di Lombardia per la seconda volta consecutiva, in una stagione che lo ha visto vincere anche l’Amstel Gold Race, due tappe della Vuelta e, pochi giorni fa, il Gran Piemonte. Per Scarponi un secondo posto molto amaro, date le circostanze in cui è maturato: anche Nibali, quinto sul traguardo, ha da recriminare per la sfortuna avuta. Gilbert, con il trionfo odierno, suggella così una stagione che lo ha definitivamente consacrato come uno dei migliori interpreti delle corse di un giorno, nel solco della tradizione di tantissimi suoi connazionali, da Van Steenbergen a Van Looy, dall’inarrivabile Merckx a Musseuw.

Ordine d’arrivo:

1) Philippe GILBERT (Omega Pharma-Lotto) in 6h46’32’’;

2) Michele SCARPONI (Androni Giocattoli-Diquigiovanni) a 12’’;

3) Pablo LASTRAS (Caisse d’Epargne) a 55’’;

4) Jakob FUGLSANG (Saxo Bank) a 1’08’’;

5) Vincenzo NIBALI (Liquigas-Doimo) stesso tempo.

Marco Regazzoni

LO SPRINGBOK LONTANO DAL CUORE DEL SUDAFRICA

In Sudafrica i simboli sono importanti e l’antilope che simboleggia e rappresenta la nazionale sudafricana è tornata nuovamente nell’occhio del ciclone. Via dal petto dei giocatori ed emarginata sulla manica sinistra per tutto l’arco della Coppa del Mondo 2011.

Dimenticatevi Invictus, o meglio, provate a chiedervi cosa è successo dopo i titoli di coda. Il rugby ha continuato ad essere il bastione e il simbolo dell’orgoglio afrikaner. Terminata l’euforia del 1995 il rugby perse l’occasione per rifondarsi e rimase ancora per tre anni in mano a quel Louis Luyt, il quale al termine della suddetta finale aveva dichiarato che, se fosse stata concessa loro la partecipazione, gli Springboks avrebbero vinto anche le due precedenti edizioni. Il pallone ovale e gli Springboks sono rimasti e per certi versi rimangono ancora uno degli ultimi bastioni dell’ultranazionalismo afrikaner.

Il periodo più buio del rugby sudafricano fu raggiunto nei primi anni del nuovo millennio quando, oltre alle prestazioni sportive negative, la nazionale si guadagnò le prime pagine dei giornali per una rissa fra l’avanti afrikaner Geo Cronjé e la seconda linea coloured Quinton Davids. Pare accertato che il primo si fosse rifiutato di fare la doccia con il secondo. Entrambi furono squalificati. Pochi mesi dopo una deludente Coppa del Mondo, si toccò il fondo quando emersero le foto del disumano ritiro tenutosi a Kamp Staaldraad.

Allo stesso tempo molti politici dell’African National Congress non hanno mai rinunciato a cercare di minare questo fortino afrikaner, imponendo quote ed erodendo man mano il potere dalle mani del vecchio establishment bianco. L’allenatore Jake White, promosso dopo lo scandalo di Kamp Staaldraad, denunciò spesso le pressioni politiche che pretendevano un numero maggiore di giocatori di colore nel quindici iniziale.

Se il simbolismo nello sport è importante, in Sudafrica pare essere fondamentale. Nelson Mandela, semplicemente indossando la divisa di gioco e un cappellino degli Springboks, era riuscito con una mossa politica geniale a dimostrare che il paese per restare unito doveva includere anche determinati aspetti culturali degli oppressori di ieri. Il gioco è stato riproposto da Thabo Mbeki in occasione del successo del 2007, in cui anche un ormai anziano Mandela è stato rivestito della maglia verde-oro che per l’occasione aveva stampato sulla manica il numero di prigionia del leader politico sudafricano (466664). La luna di miele del Sudafrica con i leader dell’ANC era però ormai finita.

Lo Springbok, la celebre antilope che dal 1906 rappresenta la nazionale di rugby sudafricana e che fino al 1995 era stato uno dei simboli più divisivi del paese, ha provato a riproporsi tanto nel 1995 quanto nel 2007 come simbolo unificatore ma, malgrado la forza della retorica, non è mai riuscita a convincere i sudafricani che continuano a vedere in essa un simbolo della segregazione razziale. Già nel 1992 con la fine dell’apartheid, per marcare un cambiamento, fu aggiunta all’antilope una corona di protea, fiore che simboleggia l’intero movimento sportivo sudafricano, dal cricket all’atletica. Nel 2008 le pressioni dei falchi dell’ANC hanno fatto sì che la federazione di rugby spodestasse lo Springbok dal cuore dei giocatori, riposizionandolo sul lato destro della maglia. Dal 2009 infatti, in occasione della tournée dei British and Irish Lions, i ‘boks’ hanno giocato con le nuove maglie in cui all’altezza del cuore, al posto della gazzella, si stagliava uno stemma raffigurante la protea.

Al Mondiale neozelandese però, le regole commerciali e la rigidità dell’IRB renderanno possibile la sparizione dell’antilope dal petto dei giocatori. Secondo regolamento infatti c’è posto solamente per tre stemmi sul fronte della maglia: il logo della competizione, lo sponsor tecnico e il logo della nazionale (la protea). Dopo numerose polemiche, l’antilope ha dovuto quindi migrare tristemente, sulla manica sinistra dei giocatori. Che si tratti di un arrivederci e non di un addio (tutto tornerà infatti come nel biennio 2009-10 a fine Mondiale) lo si capisce anche dando una rapida occhiata al sito della federazione di rugby in cui il simbolo e la parola Springboks capeggiano un po’ ovunque. Sorge comunque spontanea una domanda: chissà cosa ne pensa Nelson Mandela, l’uomo che nel 1995 e nuovamente nel 2007 indossò i simboli del vecchio nemico per dare loro un nuovo significato di inclusione e d’integrazione?

Nicola Sbetti

CALCIO E NAZIONALISMO: LO STELLA ROSSA VA ALLA GUERRA

Dopo i disordini che hanno portato al rinvio di Italia – Serbia al Marassi di Genova, vi riproponiamo l’articolo comparso sul Numero 0 sul nazionalismo dello Stella Rossa.

La dedica di una statua che sorge dinanzi allo Stadio Maksimir di Zagabria, rappresentante un gruppo di soldati, recita: “Ai tifosi della Dinamo Zagabria, che iniziarono la guerra con la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”. La partita che prese luogo nella capitale croata tra i padroni di casa della Dinamo e i Serbi dello Stella Rossa di Belgrado fu l’avvisaglia di quanto sarebbe successo un anno dopo, l’inevitabile crollo della Federazione Jugoslava, termine di una frana innescatasi all’indomani della morte del maresciallo Tito nel maggio 1980. L’ex-partigiano croato era stato il collante di una nazione nata dall’unione di popoli che, fino alla Seconda Guerra Mondiale, si erano massacrati a vicenda. Nelle parole del comunista albanese Mahmet Bekalli: “Non avevamo idea che, insieme a lui, stavamo seppellendo la Jugoslavia”. La spaccatura fu evidente soprattutto tra Croazia e Serbia, dove due burocrati dell’epoca del comunismo titoista presero il potere dopo aver dato una netta svolta nazionalista alla propria politica: Franjo Tuđman e Slobodan Milošević. Tuđman, presidente della squadra filo-jugoslava del Partizan Belgrado ai tempi di Tito, per la sua Hrvatska Demokratska Zajednica (Unione Democratica Croata) prese in prestito l’iconografia degli ustaše, i fascisti croati che nella Seconda Guerra Mondiale collaborarono con i nazisti, massacrando i Serbi. Oltre a prendere in prestito la šahovnica, la bandiera a scacchi rossi e bianchi degli ustaše, cominciò a farsi chiamare poglavnik, duce, in un chiaro riferimento al loro sanguinario leader Ante Pavelić. Tuđman veicolò il proprio nazionalismo anche attraverso il calcio quando divenne presidente della Dinamo Zagabria, che poi avrebbe ribattezzato Croatia Zagreb, alienando gran parte del seguito della squadra.

Nel giugno 1989 Slobodan Milošević, appena divenuto presidente della Serbia, tenne un discorso che avrebbe cambiato la storia a Kosovo Polje, la “piana dei Merli” a nord della capitale kosovara Priština, teatro di una storica battaglia tra la Serbia e l’Impero Ottomano avvenuta seicento anni prima. Milošević denunciò “il genocidio strisciante di cui sono vittime i Serbi nel Kosovo, culla della loro cultura” e affermò, in quella che fu la sua frase di maggior successo, che “nessuno deve permettersi di picchiare il nostro popolo”. Cavalcando l’onda del nazionalismo, il presidente serbo si rendeva conto di quanto questa potesse ritorcersi contro di lui, e fece in modo di avere un controllo forte su quello che era considerato il calderone più esplosivo: la tifoseria dello Stella Rossa di Belgrado, squadra politicizzata, anti-titoista e fortemente nazionalista, i cui ultrà si stavano distinguendo per la violenza delle proprie azioni. L’uomo che prese il controllo dei tifosi dello Stella Rossa, unendo tutti i gruppi rivali in una sola unità disciplinata e determinata, fu Željko Ražnatović, gangster di stampo mafioso e maestro dell’evasione, richiamato in Serbia dal governo per fare il “lavoro sporco”, come ad esempio eliminare fisicamente i dissidenti che erano fuggiti all’estero. L’uomo che, qualche anno più tardi, sarebbe salito all’onore delle cronache internazionali come l’efferato criminale di guerra Arkan. Arkan vietò agli hooligans dello Stella Rossa l’alcool e bandì piccole violenze e vandalismi. In cambio li addestrò e cambiò il loro nome da “zingari” a Delije, “eroi”, rendendoli una vera e propria formazione paramilitare, capace di creare seri disordini nelle partite contro il Partizan e la Dinamo Zagabria.

Il momento in cui le tensioni nazionalistiche eruppero sul campo fu proprio il fatale 13 maggio 1990, al Maksimir di Zagabria, una settimana dopo la celebrazione del decennale della morte di Tito: i Bad Blue Boys della Dinamo e i Delije si fronteggiarono in una battaglia i cui connotati e la cui organizzazione fanno pensare più a una guerriglia premeditata da entrambe le fazioni che a uno scontro tra tifosi. Per proteggere un giovane tifoso dalle manganellate della Milicija, la Polizia Federale Jugoslavia, il capitano dei croati Zvonimir Boban sferrò un calcio a un poliziotto, diventando istantaneamente un eroe nazionale. Il bilancio degli scontri fu di 138 feriti e 147 arresti. Boban rischiò un fermo da parte della polizia e perse l’occasione di essere convocato con la Jugoslavia a disputare il Mondiale di Italia ’90. Gli scontri tra i Delije e i Bad Blue Boys furono solo un preludio di quanto sarebbe avvenuto durante la primavera dell’anno seguente: quando il 29 maggio 1991 lo Stella Rossa vinse la Coppa dei Campioni, battendo ai rigori l’Olympique Marsiglia, Slovenia e Croazia avevano già dichiarato la propria indipendenza, portando la Jugoslavia alla guerra civile che l’avrebbe distrutta. Solo alcuni mesi dopo i Delije si arruolarono in massa nell’unità paramilitare comandata da Arkan, la Srpska Dobrovolijačka Garda (Guardia Volontaria Serba), più nota con il nome di Tigrovi, tigri. Le Tigri di Arkan presero parte alle guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo e divennero tristemente famose per gli efferati crimini di guerra commessi. Anche dall’altra parte avvenne un fenomeno simile, con gran parte dei Bad Blue Boys partiti per il fronte della guerra serbo-croata, spesso indossando il simbolo della Dinamo sulle proprie uniformi. Dal Maksimir di Zagabria e dal Marakana di Belgrado i combattimenti si erano riversati su tutta la Federazione Jugoslava.

Quando i croati ripresero il controllo di Vukovar, assediata per 87 giorni dalla Jugoslavenska Narodna Armija, l’Armata Popolare Jugoslava, la rappresaglia colpì la popolazione serba della città, tra cui la famiglia di Siniša Mihajlović, centrocampista dello Stella Rossa, poi a Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Nella sua casa, distrutta, oltre a un poster della nazionale jugoslava con un foro di proiettile sul cuore di Mihajlovic, furono ritrovate sue foto cui i soldati croati avevano ritagliato gli occhi: un rimando alle crudeltà di Ante Pavelić, che chiedeva ogni mattina ai suoi ustaše di consegnargli un cesto pieno di occhi a riprova che i massacri continuavano allo stesso ritmo.

Il regno mafioso di Arkan in Serbia prosperò durante il conflitto, e Ražnatović cercò di acquistare lo Stella Rossa, per farne un monumento alla sua persona. La dirigenza rifiutò di cedere, al che la Tigre, dopo un rifiuto dai kosovari dell’FK Priština, acquistò l’Obilić di Belgrado, squadra che porta il nome di un eroe serbo della battaglia di Kosovo Polje. A suon di intimidazioni a giocatori e dirigenti avversari, l’Obilić venne promosso in prima divisione nel 1997 e l’anno dopo fu campione di Jugoslavia (ormai composta solo da Serbia e Montenegro) nel 1998. Il 18 agosto 1999 le nazionali di Jugoslavia e Croazia si incontrarono per la prima volta a Belgrado in un incontro, finito 0-0, valido per le qualificazioni all’Europeo. Il tifo di Belgrado salutò l’inno croato Lijepa Naša Domovino con l’ostensione di cinquantamila diti medi alzati, e la curva insultò i giocatori della nazionale avversaria, chiamandoli ustaše nei propri cori. L’ostilità dell’atmosfera raggiunse il culmine quando, al quinto del secondo tempo, le luci dello stadio si spensero. “Si vedevano solo i raggi infrarossi dei fucili dei cecchini”, ricordò Slaven Bilić, nazionale croato presente allo stadio nonostante un infortunio. Il Marakana eruppe in un “Criminali rossi! Criminali rossi!” rivolto a Milošević e al suo regime, che iniziava a scricchiolare dopo la guerra in Kosovo. Mentre la leggenda di Arkan, assassinato cinque mesi più tardi da un commando di fronte all’Intercontinental Hotel di Belgrado, sopravvisse alla Tigre, la popolarità del presidente serbo era crollata. Proprio il Marakana, lo stadio dove Milošević aveva arruolato tramite Arkan una parte importante del suo esercito, segnò la fine della sua dittatura: la curva gli si ritorse contro e cominciò a intonare alle partite gli slogan Slobo odlazi, “Slobodan vattene”, e Slobo spasi Srbiju i ubi se, “Slobodan, salva la Serbia e ammazzati”. Dopo esser stato sconfitto alle elezioni da Vojislav Koštunica, Milošević si rifiutò di riconoscere il risultato delle urne. Il 5 ottobre 2000 a Belgrado, nelle dimostrazioni della Bager Revolucija, la “Rivoluzione dei Bulldozer” che fece infine crollare il regime, in prima linea nei combattimenti c’erano di nuovo le maglie dello Stella Rossa.

Damiano Benzoni

CALCIO: SULLE ALI DELL’ENTUSIASMO

L’Under 21 di Casiraghi batte la Bielorussia sfruttando soprattutto gli esterni di centrocampo.

Pur senza mettere in mostra un gioco brillantissimo gli Azzurrini guidati da Pigi Casiraghi hanno vinto il primo atto dei playoff che qualificano al prossimo Europeo under 21 mettendo in mostra un difesa solida, un centrocampo organizzato ed un attacco spietato.

Partita tutto sommato piuttosto equilibrata, anche più di quanto il 2-0 finale non lasci intendere: se da una parte era infatti netta la maggior tecnicità dei nostri ragazzi dall’altra, è altrettanto vero che i bielorussi dimostravano una netta superiorità atletica grazie alla quale arrivavano più o meno sempre primi sul pallone.

Cosa ha fatto la differenza, quindi?
La maggior preparazione tattica della squadra di Casiraghi.

Ancora una volta insomma quella italiana si conferma come una delle migliori scuole al mondo, da questo punto di vista.
Ma analizziamo nello specifico quanto avvenuto venerdì scorso ed ipotizziamo cosa potrebbe invece succedere nel corso della partita di ritorno, allorquando gli Azzurrini scenderanno in campo in Bielorussia per difendere il risultato maturato all’andata.

A pesare come un macigno nella gara di andata è stata l’impostazione del gioco dei due esterni di centrocampo: messa infatti al sicuro la porta difesa dal buon Mannone grazie ad una linea arretrata, schierata a zona, arcigna e molto concentrata e ad una coppia di mediani capace di fare buon filtro a centrocampo (molto preziosa, in tal senso, la copertura garantita da Bolzoni sulla nostra trequarti) sono stati proprio Schelotto e Fabbrini a scompaginare le carte in tavola, mettendo puntualmente in difficoltà la squadra avversaria senza che il ct Kondratiev riuscisse a prendere le giuste contromisure.

Approccio alla gara opposto per le due ali schierate da Casiraghi: mentre da una parte a Schelotto è stato richiesto di mettere in campo tutto il suo atletismo per arare la propria fascia di competenza arrivando quante più volte possibile sul fondo per cercare poi la coppia Destro-Okaka in mezzo all’area, dall’altra è stato chiesto a Fabbrini, molto più trequartista che vero e proprio esterno di centrocampo, di ricalcare un po’ quello che fu il modo di giocare di Nedved una volta sbarcato a Torino: giocare in linea con il resto dei centrocampisti partendo largo a sinistra per poi far saltare gli schemi difensivi avversari convergendo verso il centro.
Il tutto sia in situazione di possesso che di non possesso di palla.

E proprio questo diverso atteggiamento, oltre alla qualità stessa dei due ragazzi, hanno creato non pochi grattacapi alla difesa bielorussa. Basti anche solo andare a rivedere i goal, emblema perfetto di quanto appena detto.

In occasione dell’1-0 Ogbonna effettua un lancio dalla difesa con cui pesca Okaka sulla trequarti campo. Nel momento in cui la punta Giallorossa riceve il pallone è possibile notare come la posizione di Fabbrini sia molto più centrale rispetto a quella di partenza. Come detto, quindi, non limitandosi a stare rilegato sulla fascia sinistra il talentino empolese dimostra di poter penetrare nella difesa avversaria come nel burro, e così fa anche in questa occasione: lo stop di Okaka non è certo dei migliori ma contribuisce a mettere in movimento proprio il talentino toscano che una volta venuto in possesso della sfera partirà dritto per dritto puntando la porta, senza che nessuno riesca a trovare le giuste contromosse per fermarlo. Avanzando senza pressing, quindi, farà entrare in crisi tutto il reparto difensivo bielorusso che collasserà su sé stesso dando modo a Destro di tagliare in area alle spalle di tutti, partendo da posizione regolare, proprio nel momento in cui Fabbrini stesso farà partire un filtrante perfetto che metterà l’ex capocannoniere del Campionato Primavera in condizione di battere Hutar.

In occasione del 2-0 sono invece chiamati in causa entrambi gli esterni, ognuno secondo le proprie caratteristiche: De Silvestri avanza sulla destra e mette in movimento Schelotto che arriverà sul fondo per poi rientrare, mettendo fuori tempo il diretto marcatore, e crossare di sinistro in mezzo all’area. Qui arriverà il taglio del solito Fabbrini, come detto libero di accentrarsi partendo da sinistra, che sfiorerà il pallone, prima che questo finisca sulla testa di Okaka, che lo girerà in rete.

Ecco spiegato come l’Under di Casiraghi ha battuto i pari età bielorussi.

E per il ritorno?
Viste le inopportune squalifiche di De Silvestri e Schelotto, che azzerano la nostra fascia destra, non potrà essere riproposto esattamente lo stesso schema tattico della partita di andata. Il rientro, proprio da una squalifica, di Marilungo, poi, fa presupporre che uno tra Okaka e Destro inizierà il match in panchina. Proviamo quindi ad ipotizzare un possibile undici di partenza, con tanto di eventuali accorgimenti tattici che potrebbero essere escogitati per mettere ancora una volta in difficoltà la non certo impenetrabile difesa bielorussa.

Mannone sarà quasi sicuramente confermato in porta, mentre Santon sarà spostato sulla fascia destra per sopperire all’assenza di capitan De Silvestri con l’inserimento di uno tra Rispoli ed Ariaudo sulla sinistra: scegliere quest’ultimo vorrebbe dire blindare la fascia con un centrale adattato a terzino che non garantirà grande spinta ma, di contro, sarà difficilmente saltabile nell’uno contro uno ed in una partita in cui potrebbe essere il contropiede l’arma in più ecco che questa scelta potrebbe definirsi molto ben ponderata. In mezzo, quindi, dovrebbe essere confermata la coppia Ranocchia-Ogbonna. A centrocampo, sempre per impostare la gara in un’ottica di contropiede spiccato, il posto di Schelotto potrebbe essere preso dal contropiedista per eccellenza, quel Mattia Mustacchio eroe della qualificazione a questo playoff che con la sua velocità può diventare devastante ad ogni singola ripartenza. La coppia centrale potrebbe essere ancora Bolzoni-Poli, proprio per abbinare la capacità del primo di fare da frangiflutti davanti alla difesa con quella del secondo di impostare l’azione di ripartenza, per quanto non ignorerei nemmeno la possibilità di schierare un tuttofare come Soriano, sempre prezioso quando in forma ottimale. La zona di sinistra dovrebbe quindi essere ancora una volta terreno di caccia del buon Fabbrini, appena entrato nel giro di questa under ma già titolare inamovibile nello scacchiere di Casiraghi. Anche in questa occasione sfrutterei propensione e capacità dello stesso di accentrarsi per giocare tra le linee, a maggior ragione qualora venisse schierato titolare Marilungo, magari al fianco di Destro: il talentino doriano, infatti, è giocatore molto più propenso alla manovra di Okaka e di Destro stesso ed essendo tecnicamente molto dotato potrebbe fraseggiare nel migliore dei modi con il genietto empolese.

Dopo aver spiegato come l’under ha battuto i pari età bielorussi, quindi, ecco spiegato come potrebbe batterli anche nel match di ritorno!

Francesco Federico Pagani

PALLANUOTO: FUORI SAVONA E BRIXIA

Nel secondo turno di qualificazione di Eurolega, le due italiane sono eliminate.

Grande delusione per le due formazioni italiane impegnate nel secondo turno di qualificazione dell’Eurolega di pallanuoto: Rari Nantes Savona e Brixia Leonessa non riescono ad accedere alla fase a gironi e vengono, conseguentemente, retrocesse in Coppa LEN. Se i liguri hanno qualcosa da recriminare per essere stati eliminati solamente a causa di un gol di differenza, i lombardi hanno racimolato appena un punto in tre partite.

Girone E. Spesso il fattore campo incide in maniera limitata nella pallanuoto: d’accordo il sostegno dei tifosi, ma in acqua la differenza di valori tecnici emerge. A quanto pare, però, il calore del pubblico catalano ha fatto sì che nello spareggio per il secondo posto e, dunque, per la qualificazione alla fase a gironi la spuntassero i padroni di casa del Club Natació Barcelona che superano in volata il Savona. Gli uomini di Mistrangelo, dopo una buona partenza, si giocano la qualificazione perdendo contro i montenegrini del Budva, promossi come primi classificati, e gli spagnoli. Nel match decisivo non bastano i quattro gol di Mlađan Janović per evitare la cocente eliminazione. A Barcellona prime presenze europee con la nuova calottina per il portiere Goran Volarević e per il difensore Jesse Smith.

CLASSIFICA

1) VK Budva 9 pti

2) CN Barcelona 6 pti

3) RN Savona 3 pti

4) NO Vouliagmeni 0 pti

Girone F. Un punto, e nulla più. Il Brixia era giunto a Novi Sad con ottimismo ma l’obiettivo della fase eliminatoria non è stato centrato. La strada si è fatta subito in salita con il pareggio (9-9) contro i russi del Sintez Kazan, poi la sconfitta contro il locale settebello del Vojvodina ha dato il colpo di grazia alle residue speranze. Ai bresciani sono mancati soprattutto i gol di Roberto Calcaterra, a segno solamente per due volte nell’ultimo match, quello contro gli ungheresi dello Szeged Beton, quando i giochi erano ormai fatti. Anche il Brixia, al pari del Savona, parteciperà adesso al secondo turno di qualificazione della Coppa LEN assieme al Sintez. Promossi alla fase a gironi il Szeged Beton allenato da Zoltán Kásás, padre di Tamás, ed il Vojvodina.

CLASSIFICA

1) Szeged Beton 9 pti

2) Vojvodina Novi Sad 6 pti

3) Brixia Leonessa 1 pto

4) Sintez Kazan 1 pto

Girone G. Unico gruppo in cui la squadra ospitante non riesce a superare il turno: a Berlino lo Spandau 04 di Hagen Stamm chiude infatti con un misero terzo posto. A regnare incontrastato, e non poteva essere altrimenti, è il Mladost Zagabria che sfoggia subito il fiore all’occhiello della campagna acquisti, quel Vanja Udovičić che al momento può forse essere considerato il più forte pallanotista al mondo. Gli ungheresi dell’Eger staccano l’altro biglietto per la fase eliminatoria, ultimi e senza vittorie i francesi del Marsiglia.

CLASSIFICA

1) Mladost Zagabria 9 pti

2) ZF Eger 6 pti

3) Spandau 04 3 pti

4) CN Marsiglia 0 pti

Girone H. Il Primorje Rijeka vince a punteggio pieno il quarto gruppo facendo leva sull’entusiasmo dei suoi sostenitori accorsi alla piscina di Fiume. Un trionfo che arriva nel giorno in cui Predrag Sloboda, presidente della società, viene eletto a capo della Federpallanuoto croata. In acqua vengono domati tutti gli avversari, compresi i vicecampioni in carica del Primorac Kotor che riescono comunque a centrare almeno il secondo posto. Finiscono in Coppa LEN i greci del Panionios, secondi a nessuno quanto ad abnegazione e buona volontà ma evidentemente inferiori sul piano tecnico a croati e montenegrini, e gli slovacchi dell’Hornets Košice, squadra materasso del girone.

CLASSIFICA

1) Primorje Rijeka 9 pti

2) Primorac Kotor 6 pti

3) Panionios 3 pti

4) Hornets Košice 0 pti

Le prime due classificate di ogni girone raggiungono così la fase eliminatoria, al via il 13 e 14 novembre, alla quale sono già qualificate Pro Recco, Jug Dubrovnik, Jadran Herceg Novi, Olympiakos, Atlétic Barceloneta, Vasas Budapest, Partizan Belgrado e Spartak Volgograd. Le terze e quarte classificate, invece, partecipano al secondo turno di qualificazione della Coppa LEN.

Simone Pierotti