UN NUOVO FILM SU BILL JOHNSON: LA STORIA TRISTE DI UN DISCESISTA TEMERARIO

Il 30 gennaio sarà proiettato in anteprima al Film Festival di Santa Barbara “Downhill: The Bill Johnson Story”, documentario sulla vita di Bill Johnson.

Bill JohnsonQuando la fama e il successo arrivano all’improvviso, altrettanto all’improvviso possono andarsene via.” Phil Mahre, campione statunitense di sci alpino degli anni ’80, a proposito di Bill Johnson.

Un nuovo film documentario storico sportivo sta per essere presentato in prima visione domenica 30 gennaio al Film Festival di Santa Barbara, in California. Prodotto dal network statunitense di video on demand, The Sky Channel, è stato diretto dall’esordiente trentasettenne regista californiano Zeke Piestrup, che vanta anche una breve carriera di discesista a livello juniores nel proprio curriculum. Il film tratteggia la storia di una meteora dello sci alpino degli anni ’80, Bill Johnson, che negli USA visse un momento di gloria nel febbraio del 1984, quando si aggiudicò a sorpresa, primo americano della storia, la medaglia d’oro nella discesa libera, lasciandosi alle spalle campioni del calibro degli svizzeri Peter Müller e Pirmin Zurbriggen, e dell’austriaco Franz Klammer.

La sua inaspettata vittoria mandò in delirio gli sportivi statunitensi, anche se fece storcere il naso ai puristi dello sci del nostro continente, presi in contropiede da questo discesista che affrontava le curve in modo spericolato, e proprio quando sembrava perdere l’equilibrio, riusciva a rimettersi in perfetto assetto, ancora più saettante di prima. Il giorno dopo la gara, ironizzando sulla sua adolescenza difficile, durante la quale aveva conosciuto il riformatorio, un quotidiano britannico era arrivato ad intitolare: “Sarajevo: un ladro d’auto ha rubato la medaglia d’oro.

Insensibile alle frecciate, il ventitreenne Bill Johnson si sentiva trascinare dal vento del successo, e con un pizzico di cinico ottimismo, a una domanda di un giornalista sul significato della sua vittoria olimpica aveva replicato: “Vuol sapere che significa per me? Milioni. Tanti milioni.” Come personaggio aveva raccolto subito la simpatia del pubblico americano, e un anno dopo sarebbe stato realizzato un film televisivo sul suo trionfo di Sarajevo.

Ma dopo avere vinto altre due gare di coppa del mondo nelle discese di Aspen in Colorado e di Whistler Mountain in Canada nel marzo 1984, un infortunio prima al ginocchio e poi alla spalla avevano oscurato la stagione successiva. Il recupero auspicato non sarebbe avvenuto, e le sue successive apparizioni non lo avrebbero più visto nelle posizioni di alta classifica. Gli allenatori della squadra statunitense erano dell’avviso che la sua condizione di forma non era più ottimale, e quando glielo avevano rinfacciato, lo avevano fatto schiumare di rabbia. Ne era scaturito un alterco verbale che il passionale Bill aveva condito con insulti da caserma. Si stavano avvicinando i giorni delle Olimpiadi di Calgary 1988, e si era così giocato le proprie ultime chance di prendervi parte con lo squadrone a stelle e strisce.

L’anno dopo, ad appena ventinove anni, annuncia il ritiro dalla vita sportiva, ed insieme alla moglie intraprende una nuova esistenza itinerante in giro per gli Stati Uniti, con un camper che fungerà da nuova casa per quasi dieci anni. Ma passato l’entusiasmo romantico per questa avventura sulle orme dei personaggi di Kerouac, e dilapidati rapidamente i guadagni del dopo olimpiade, la coppia si troverà alle prese con gravi difficoltà economiche, e sopravvivrà di espedienti, come l’organizzazione, poi fallita, di un circo bianco di vecchie glorie dello sci, insieme ad altre sfortunate incursioni nell’imprenditoria sportiva.

A questo si aggiungerà nel 1992 la tragedia della perdita del primo dei tre figli per un incidente domestico, finché alla fine degli anni novanta Bill Johnson verrà abbandonato dalla moglie col resto della famiglia al seguito. Questa batosta gli si rivela particolarmente difficile da sopportare; e a quel punto il suo desiderio principale diventa quello di riconquistare la compagna perduta. Comincia così a balenargli nella mente un colpo ad effetto: ritornare a gareggiare nella discesa libera, possibilmente per le imminenti olimpiadi di Salt Lake City. Anche in questo caso però la realtà si rivela più complicata dei sogni; e nonostante i duri allenamenti a cui si sottopone, ormai ultraquarantenne, non riesce ad essere sufficientemente competitivo nei confronti dei più giovani e fisicamente più esuberanti avversari.

La granitica volontà di farcela è superiore alla consapevolezza dei limiti fisici, e il 22 marzo 2001, mentre scende in prova prima di una gara nel Montana perde il controllo degli sci e rovina violentemente contro un blocco di neve ghiacciata. Gli spettatori ai bordi della pista sentono un grido d’aiuto straziante e disperato. I primi soccorsi arrivano dopo pochi istanti, ma il volto dell’ex campione è già coperto dal sangue che cola copiosamente dalla bocca e da un orecchio. Il trasporto in ospedale è altrettanto puntuale, e Johnson viene operato per rimuovere una vistosa emorragia cerebrale. La sua fibra da atleta riesce a salvargli la vita, ma gli effetti dell’incidente sono devastanti: le sue facoltà cognitive sono definitivamente compromesse, e l’intera parte destra del corpo è paralizzata irreversibilmente.

Dopo cento giorni di degenza in un centro di riabilitazione, la sua assicurazione sanitaria non gli ha permesso di restare altro tempo, e viene rimandato a casa per essere affidato alle cure dell’anziana madre. La notizia del suo incidente ha colpito profondamente il mondo dello sci americano, che si è prontamente mobilitato per raccogliere i fondi necessari alla sua assistenza. In particolare l’ex campione statunitense Phil Mahre, suo amico e protagonista del documentario “Downhill: The Bill Johnson Story” insieme a Franz Klammer e a lui stesso, non ha mai smesso di impegnarsi in iniziative di beneficienza per la sua causa.

LE BRACI

La nazionale ungherese di pallanuoto richiama in tutta fretta Kiss e Kásás. Ma forse è troppo tardi.

Tornare indietro sui propri passi, spesso, è una parziale sconfitta. E, se a farlo è la nazionale di pallanuoto maschile dell’Ungheria, il rumore dei passi rimbomba maggiormente. A nulla è servito il ricambio generazionale avviato all’indomani dell’oro olimpico di Pechino, il terzo consecutivo dopo Sydney e Atene: in vista dei Mondiali di Shangai sono stati richiamati, e anche in fretta, due senatori come Tamás Kásás (34 anni) e Gergely Kiss (33), oramai usciti dai piani del ct Kemény.

La notizia, ufficializzata poco dopo le festività natalizie, non fa che certificare ulteriormente lo stato di crisi della pallanuoto magiara. E anche la conferma della medaglia più prestigiosa a Londra inizia a vacillare. Insomma, dell’Ungheria dominatrice (quasi) incontrastata di qualsiasi competizione sembra che siano rimaste solo le braci, per citare un celebre romanzo di Sándor Márai, figura di spicco della letteratura ungherese. Il 14-10 inflitto agli Stati Uniti tre anni fa nella finalissima di Pechino rischia, dunque, di essere il canto del cigno della Grande Ungheria di Kémeny: a quell’ennesimo, straodinario trionfo hanno fatto seguito il quinto posto ai Mondiali di Roma ed il quarto agli Europei di Zagabria, dove i magiari sono stati sconfitti in semifinale da un’Italia sì emozionante ma non certo superiore quanto ad esperienza in campo internazionale.

Non che vada meglio nelle competizioni riservate ai club: in Eurolega l’unica ungherese che può ancora cullare sogni di qualificazione ai quarti di finale è il Vasas, seconda nel proprio girone assieme al Primorac Kotor (7 punti) quando manca una sola giornata alla chiusura del turno preliminare. Magra la figura rimediata dallo Szeged Beton, inserito nello stesso gruppo, capace di raccogliere appena due punti in cinque partite. Peggio ancora ha fatto l’Eger, portacolori ungherese del girone D: finora Jug Dubrovnik, Primorje e Atlétic Barceloneta hanno sempre vinto contro una squadra che, è bene ricordarlo, può contare su campioni di indiscutibile valore quali Szécsi, Hosnyánszky, Biros e Zsolt Varga. L’Ungheria langue pure nella Coppa LEN: mentre l’Honvéd sembra poter arrivare alle semifinali – ma il vantaggio di tre reti sull’Oradea è minimo, e la Florentia ne sa qualcosa – il Ferencváros è prossimo all’uscita di scena per mano della Rari Nantes Savona, che a Budapest arriverà forte dei cinque gol di differenza in proprio favore.

Sia chiaro, nessuno oserebbe mai avanzare dei dubbi sul valore tecnico di Kiss e, soprattutto, Kásás. Non fosse altro che il centrovasca della Pro Recco è l’unico pallanotista ad aver vinto una medaglia d’oro in tutte le competizioni, comprese quelle giovanili. E a suo favore potrebbe giocare la possibilità di essere schierato solo in Eurolega, a causa del tetto di due stranieri imposto nel campionato italiano: meno partite stagionali che equivalgono ad una maggior freschezza atletica. Difficile, però, pensare che due soli giocatori possano risollevare i destini di un’intera nazionale.

Simone Pierotti

WCL III: AGGRAPPATI ALLA SPERANZA

CricketAlla vigilia di questo torneo i media internazionali non davano troppa fiducia alla compagine italiana; dopo quattro partite i ragazzi di Joe Scuderi, pur dimostrando di possedere le qualità necessarie per restare nella categoria, si trovano come da pronostico nelle sabbie mobili del fondo classifica. Dopo la vittoria con la Danimarca, gli azzurri hanno sfoderato un’ottima prestazione contro la schiacciasassi Papua Nuova Guinea e le partite contro Oman e Hong Kong sono state comunque di buon livello. In questi ultimi due incontri però, quando l’Italia sembrava avere la partita in pugno, qualcosa è andato storto. Alla lunga la strategia di cominciare in battuta non ha pagato, dal nulla sono sempre comparsi dei carneadi, il cui torneo era stato fino a quel momento in ombra, capaci di sfoderare dal nulla prestazioni magnifiche. Contro l’Oman Awal Khan, che in precedenza non aveva mai superato quota 10 runs, ne ha portate a casa 81, contro Hong Kong, quando ormai la partita sembrava vinta, Aziaz Khan (i due non sono parenti ma sono entrambi di origine pakistane) ha prodotto da otto palle ben 24 punti. Non è stata solamente questione di sfortuna, in quanto abbiamo subito eccessivamente i mille order batsman (battitori che sulla carta non dovrebbero essere particolarmente incisivi rispetto ai primi). Se le prestazioni individuali dei battitori hanno coperto qualche passaggio a vuoto, al lancio si è sentita un po’ troppo l’assenza di Alaud Din.

La Danimarca ferma come noi a una sola vittoria venerdì sfiderà l’Oman mentre Hong Kong se la dovrà vedere con Papua Nuova Guinea. Per restare nella categoria c’è solo una possibilità: battere gli Stati Uniti.

ITALIA – OMAN
Oman vince di 1 wicket
Italia 240, 50 overs / Oman 244, 48,5 overs

Gli italiani, con Raso al posto di Alaud Din, cominciano in battuta. Malgrado la prematura eliminazione di Andy Northcote (11 runs) la partnership fra Damian Fernando (45) e Alessandro Bonora permette agli azzurri di prendere il largo raggiungendo quota 100 dopo 27 overs (serie di 6 lanci). Dopo l’eliminazione di Fernando nessun battitore azzurro riesce però a trovare il giusto ritmo, pesano soprattutto il duck (eliminazione a zero punti) di Petricola e l’unico punto di Patrizi, preferito a Crowley come wicket-keeper. La scarsa vena dei battitori azzurri è messa in secondo piano dalla prestazione magistrale del capitano Bonora capace di mettere a segno 124 punti – più della metà dei totali – senza essere eliminato.

Il century del capitano purtroppo si rivelerà inutile. Le buone prove al lancio di Petricola, Dilan Fernando e soprattutto Munasinghe, limitano inizialmente i forti battitori asiatici. Dopo 14.4 overs, con l’Oman a quota 63 sono già 6 gli eliminati, ma inaspettatamente Sultan Ahmed (29), Awal Khan (81) e Amir Ali tirano fuori dal cilindro una prestazione sublime che permette agli arabi una clamorosa rimonta che si concretizza a 8 palle dal termine dell’incontro. Una beffa che non sminuisce la prestazione degli azzurri, ma complica purtroppo la situazione in classifica e accresce i rimpianti per due catch mancati sul determinante Awal Kahn.

ITALIA – HONG KONG
Hong Kong vince di un wicket
Italia 235-8, 50 overs / 236-9, 49.4 overs

Incredibile è l’aggettivo più adatto per descrivere quest’incontro. L’Italia comincia in battuta e se gli openers Northcote e Damian Fernando racimolano solamente 21 punti ci pensano Bonora (40) Crowley (32) e un ritrovato Petricola (104 not out) a recuperare l’affannoso inizio. Dopo la prestazione superba di Bonora contro l’Oman questa volta è il nostro uomo migliore, Petricola, a caricarsi con un century la squadra sulle spalle. Alla fine dell’inning gli azzurri hanno portato a casa un buon bottino di 235 runs. Hong Kong viene limitata grazie alla superba prova di Petricola che concede in 10 overs solamente 19 runs. L’Italia sembra avere la partita in pugno. A 12 palle dal termine infatti Hong Kong era sotto di 24, a cambiare la partita ci pensa Aziaz Kahn che con sole 8 palle giocate colma il gap e permette ai padroni di casa di ottenere una quasi matematica salvezza. Per l’Italia è una beffa e solo una vittoria contro gli Stati Uniti, vittoriosi nella notte contro l’Oman, potrà garantire la salvezza.

LE PALLOTTOLE DI LURGAN

Calcio nordirlandese, Old Firm e settarismo: un capitolo ancora aperto dopo le intimidazioni a Neil Lennon, Paddy McCourt e Niall McGinn.

Per i ragazzi della Loyalist Volunteer Force di Lurgan, lui è solo “un taig dell’altra parte della città”. Uno sporco cattolico, uno di quelli là. Lurgan, contea di Armagh, è (parole di Susan McKay del Guardian) “una cittadina amara, uno di quei paesi nordirlandesi con una linea invisibile a dividerla a metà: negozi cattolici da una parte, protestanti dall’altra”. Con i vicini paesi di Portadown e Craigavon, Lurgan è uno dei vertici del cosiddetto triangolo degli omicidi e uno dei centri dove i cosiddetti repubblicani dissidenti, critici verso la linea istituzionale e sistemica del Sinn Féin, godono del maggior supporto. Il taig in questione invece è Neil Lennon, centrocampista che ha legato la sua carriera al Celtic di Glasgow, la squadra cattolica e repubblicana della città scozzese. Sette anni da giocatore, due dei quali da capitano, prima di chiudere la carriera in Inghilterra e tornare al Celtic Park, a marzo 2010, in veste di allenatore. Celtic vuol dire Old Firm, lo storico derby glasvegiano in cui i Bhoys bianco-verdi affrontano i Rangers, di estrazione protestante e lealista. Una trasposizione calcistica della questione nordirlandese sull’altra sponda del Canale del Nord che rende gli spalti dell’Ibrox Stadium e del Celtic Park altoparlanti dell’odio settario, come racconta Franklin Foer nel suo How Football Explains the World: “A piena gola, cantano lodi al nostro massacro: we’re up to our knees in Fenian blood, siamo ricoperti fino alle ginocchia di sangue feniano”. Secondo Foer tra il 1996 e il 2003 otto morti e centinaia di assalti accaduti a Glasgow sono direttamente riconducibili all’Old Firm.

Sotto la guida di Lennon, ora squalificato per sei incontri in seguito ad alcune dichiarazioni polemiche contro gli arbitri, il Celtic sta disputando un’ottima stagione, guidando la classifica di Scottish Premier League con cinque punti in più dei Rangers che, però, hanno disputato due gare in meno. Nel 2011 i Bhoys hanno raccolto 10 punti su 12 a disposizione. Nelle ultime tre gare il protagonista è stato il ventunenne irlandese Anthony Stokes: il giovane dublinese è stato l’autore della rete decisiva nella vittoria 1-0 sull’Aberdeen, ha messo a segno una doppietta nel 3-0 sugli Hibernians e ha siglato il rigore del pareggio a tempo scaduto contro l’Hamilton alla fine di una gara tesissima (“a drama-filled clash”, Stevie Miller, BBC) segnata dai tre cartellini rossi estratti dall’arbitro Willie Collum. Soprattutto, però, l’anno si è aperto il 2 gennaio all’Ibrox Stadium con la vittoria 2-0 sui Rangers, propiziata da una doppietta del greco Georgios Samaras.

Una sconfitta che evidentemente non è stata ben digerita dai tifosi dei Blues: tra il 9 e l’11 gennaio è stata resa nota la notizia di tre buste contenenti proiettili intercettate dalla Royal Mail e indirizzate a Lennon e ai due giocatori nordirlandesi della squadra, Paddy McCourt e Niall McGinn. Le buste dirette a Lennon e McGinn sono state intercettate all’ufficio di smistamento di Mallusk (nella contea nordirlandese di Antrim), mentre quella diretta a McCourt, scoperta un paio di giorni dopo, è stata fermata in un sorting office già a Glasgow. Tutte e tre le missive erano state spedite dall’Irlanda del Nord. Paddy McCourt, soprannominato “il Pelé di Derry”, è alla terza stagione con il Celtic e ha vestito quattro volte la maglia della nazionale. Niall McGinn, ventitreenne, è approdato al Celtic nel 2009, un anno dopo aver debuttato in nazionale contro l’Ungheria, primo giocatore del Derry City a vestire la maglia dell’Irlanda del Nord da 19 anni. Pupillo del commissario tecnico Nigel Worthington, ha già collezionato dieci presenze internazionali. Nessuno dei due giocatori aveva mai ricevuto intimidazioni prima d’ora, a differenza di quanto successo a Lennon. L’allenatore ha voluto parlare con entrambi i giocatori e consigliarli, memore della sua storia e della sua esperienza. “Nessuno meglio di Neil può aiutare i giocatori ad attraversare questi avvenimenti”, ha dichiarato il vice di Lennon Johann Mjällby. Non solo nel 2008 Lennon era finito in ospedale dopo esser stato aggredito a Glasgow da parte di alcuni tifosi del Rangers, ma l’odio settario è stata anche la causa della fine prematura della sua carriera internazionale.

Neil Lennon ha vestito quaranta volte la maglia della nazionale nordirlandese, esordendo contro il Messico nel 1994. Cattolico, nel 2000 approdò a Glasgow – sponda Celtic – ricevendo in cambio i fischi e gli insulti del Windsor Park di Belfast in occasione di diverse partite della nazionale, al punto che il giocatore minacciò il ritiro nel febbraio 2001 dopo una partita contro la Norvegia. Un ritiro rinviato di poco più di un anno: il 21 agosto 2002 Lennon avrebbe dovuto guidare la propria nazionale in un’amichevole contro Cipro proprio al Windsor Park, diventando così il primo capitano cattolico nella storia della green and white army. Quella sera Lennon non giocò. Non avrebbe mai più rappresentato la propria nazionale, annunciando il ritiro pochi giorni dopo. Motivo della decisione le minacce di morte ricevute dal giocatore: poche ore prima del match, con una telefonata alla sede di Ormeau Road della BBC, la Loyalist Volunteer Force aveva annunciato che avrebbe ucciso Lennon se questi avesse messo piede in campo. Una telefonata controversa, visto che non conteneva nessuna delle parole d’ordine segrete con cui i gruppi paramilitari nordirlandesi autenticano le proprie minacce e rivendicazioni per evitare che qualsiasi impostore, qualsiasi eejit from the street, possa chiamare e parlare a nome loro. In seguito la LVF avrebbe declinato qualsiasi responsabilità riguardo all’accaduto, affermando sarcasticamente che “sta a Lennon decidere se giocare o meno, non siamo certo noi a fare la formazione”. Era possibile, come suggerì Neil Mackay dalle colonne del Sunday Herald, che si trattasse solo di un eejit, un “idiota” che voleva terrorizzare il giocatore. Certo è che l’odio settario non poteva in ogni caso essere ignorato dalla federazione nordirlandese, dalle forze dell’ordine e da Lennon stesso. La LVF aveva rotto l’accordo di cessate il fuoco meno di un anno prima, assassinando il giornalista investigativo Martin O’Hagan, concittadino di Lennon e responsabile di aver portato alla luce storie di racket e traffico di droga in collegamento all’organizzazione paramilitare. Pochi giorni prima del match – ironicamente sponsorizzato dall’associazione di promozione della convivenza Community Relations Council e inserito nella campagna Kick Sectarianism Out of Football – qualcuno aveva graffitato, nei pressi della casa dei genitori di Lennon, la scritta NEIL LENNON RIP e la silhouette di un impiccato. Padre di una bambina di dodici anni, il giocatore dichiarò: “Non posso far passare la mia famiglia attraverso questi problemi ogni volta. È un peccato che debba finire così, ma ci ho pensato a lungo e ho deciso che non tornerò a giocare per l’Irlanda del Nord. Sono molto deluso dal fatto che il mio desiderio di giocare per la mia nazione, in occasione della mia prima opportunità di capitanare la mia squadra, sia stato portato via”.

DALLA STRISCIA DI GAZA ALLE OLIMPIADI

Dopo la notizia degli accordi, raggiunti con la mediazione del Comitato Olimpico Internazionale, tra le autorità sportive israeliane e palestinesi rileggiamo la storia della Palestina alle Olimpiadi.

La squadra palestinese a Pechino 2008E’ dei giorni scorsi la notizia degli accordi, raggiunti con la mediazione del Comitato Olimpico Internazionale, tra le autorità sportive israeliane e palestinesi al fine di favorire la cooperazione dal punto di vista sportivo con lo scopo di aiutare gli atleti palestinesi a prepararsi per Londra 2012.  Di fatto l’accordo non andrà molto oltre il consentire a questi ultimi un accesso agli impianti di allenamento, favorendo la libera circolazione degli atleti e dei loro tecnici, funzionari e materiali innanzitutto tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ma anche nei loro viaggi all’estero per evitare situazioni come quella che nel mese di ottobre del 2007 impedì alla nazionale di calcio di raggiungere Singapore per disputare un incontro valido per le qualificazioni alla Coppa del Mondo.

Per fare un po’ di storia del rapporto tra la moderna Palestina e il movimento olimpico è necessario ritornare al 1986 quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con sede a Tunisi e sotto la guida di Yasser Arafat, riuscì per ragioni simboliche e p0litiche a far riconoscere un Comitato Olimpico palestinese all’Olympic Council of Asia che si espresse, sotto la spinta dei paesi arabi, con voto unanime. La decisione provocò lo sdegno delle autorità israeliane per l’ammissione che si contrapponeva all’esclusione del loro Comitato Olimpico avvenuta nel 1982 e mai più rientrata al punto che nel 1994 lo sport israeliano fu costretto a diventare membro del Comitato Olimpico Europeo.

Furono però gli accordi di Oslo del 1993 la molla che trasformò il Comitato Olimpico palestinese da istituzione simbolica ad effettiva realtà sportiva; il diritto palestinese all’autogoverno e la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese fecero sì che potesse iniziare il processo per il riconoscimento dell’autorità sportiva da parte del CIO. Ai Giochi Asiatici del 1994 che si svolsero nella città giapponese di Hiroshima si registrò la prima partecipazione di una delegazione palestinese. Fu Mohammed Rabie Al Turk, attualmente vicepresidente del Comitato Olimpico, l’unico rappresentante, impegnato nel torneo di Tennis Tavolo.

Due anni più tardi e 24 anni dopo il massacro di Monaco nel quale un commando di guerriglieri dell’organizzazione palestinese Settembre Nero fece irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico portando alla morte di 11 atleti, 5 terroristi e un poliziotto tedesco, la bandiera palestinese sfilò alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Atlanta sancendo la prima partecipazione di una squadra della Palestina alle Olimpiadi. Fu Majed Abu Maraheel, un trentatreenne membro di Forza 17, la guardia personale di Yasser Arafat, a ricevere la bandiera dalle mani del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e ad onorarla ad Atlanta nella prima batteria dei 10.000 dove, ricevendo una standing ovation dal pubblico presente, chiuse all’ultimo posto in 34’40″50 a quasi sette minuti dal vincitore, l’etiope Worku Bikila. Prima della gara Maraheel aveva dichiarato “il mio obiettivo non è vincere l’oro ma far sapere al mondo che esiste la Palestina”, un motto che sta alla base di tutte le partecipazioni olimpiche della squadra palestinese.

Sono due gli atleti palestinesi a partecipare all’edizione successiva delle Olimpiadi a Sydney che vedono la prima partecipazione di una rappresentante femminile. Infatti, oltre al marciatore Ramy Al Deeb, figlio di un espatriato in Egitto durante la crisi del 1948,   che chiude i 20 chilometri al quarantaquattresimo posto, partecipa la nuotatrice Samara  Nassar, nata a Betlemme in Cisgiordania ma fuggita con la famiglia in Giordania al punto che, dopo il sessantacinquesimo posto di Sydney, parteciperà alle Olimpiadi anche quattro anni dopo ad Atene ma sotto i colori giordani.

Pochi mesi prima dell’appuntamento olimpico di Atene 2004, la squadra palestinese balza agli onori della cronaca per l’inserimento tra i possibili partecipanti della quarantasettenne greca Sofia Sakorafa, già detentrice del record del mondo del Lancio del Giavellotto negli anni ottanta e attivista politica, che prende il passaporto palestinese per partecipare, come gesto simbolico, alle Olimpiadi. L’incapacità di ottenere la misura limite richiesta le impedisce in ogni caso di scendere in campo. Sono, quindi, tre gli atleti a partecipare; c’è il diciassettenne Raad Awaisat che si allena nella piscina ad una corsia nel cortile di casa nella parte orientale di Gerusalemme e nei 100 metri farfalla ottiene il cinquantanovesimo tempo, dieci secondi più lento del vincitore. Insieme a lui, la mezzofondista Sana’ Abu Bkheet che si allena sotto i missili a Deir AlBalah, nel centro della Striscia di Gaza, e corre gli 800 metri in 2’32” e Abdasalam Al Dabaji, ottavo nella sua batteria maschile sempre degli 800 metri.

Tra difficoltà di allenamento, piscine chiuse ed assenza di vere piste di atletica, sono quattro gli atleti palestinesi alle ultime Olimpiadi, a Pechino, la cui partecipazione è ancora una volta garantita dai fondi di solidarietà del CIO e le cui storie di lotta e sofferenza diventano sempre più oggetto degli articoli di “costume” che si sprecano nelle occasioni olimpiche. Come la storia della diciassettenne Gharid Ghoruf che si allena su una pista in terra battuta in quel di Gerico e tra problemi di visti e viaggi perigliosi si ritrova ai Campionati Mondiali di Osaka nel 2007 iscritta nella prova sbagliata, lei specialista delle gare veloci correrà nelle batterie degli 800 metri. A Pechino riesce a correre la sua prova, i 100 metri, e chiude al settimo posto della batteria con il tempo di 13″07. Non meglio vanno la cose alla sua compagna Zakia Nassar che nel Water Cube è iscritta ai 50 stile libero e trova una piscina di dimensioni olimpiche dopo anni di allenamento in un impianto pubblico da 12 metri. L’impatto con il grande nuoto le consente di migliorare il suo personale di sette secondi con la grande soddisfazione di toccare per prima nella seconda batteria seppure il suo tempo (31″97) la piazzi in settantanovesima posizione lontana anni luce dalla qualificazione ai turni successivi. Ma le luci dei riflettori sono per il portabandiera, il corridore Nader Al Masri, l’unico atleta della squadra che provenga dalla Striscia di Gaza dove negli ultimi anni si sono fatti più critici i rapporti con gli israeliani. La sua figura diventa simbolo di una presenza già di per sè simbolica come quella dei territori palestinesi ai Giochi al punto di conquistare l’onore di apparire su Time nella lista dei 100 atleti da seguire a Pechino. Sotto la spinta dei movimenti per i diritti umani Al Masri ottiene solo qualche settimana prima della Cerimonia di Apertura il permesso di trasferirsi dalla Striscia di Gaza a Gerico per poter allenarsi.

Oggi, a 18 mesi dalla Cerimonia di Apertura delle Olimpiadi di Londra, i sogni olimpici si ripropongono e l’accordo della settimana scorsa potrebbe, in qualche modo, rendere meno impervia la via per gli atleti che saranno scelti a rappresentare la Palestina. La novità, in questa edizione, potrebbe essere rappresentata dall’attenzione, che finora ha latitato per motivi simbolici, agli espatriati o ai figli di espatriati. Un caso esemplare è arrivato negli ultimi anni dal Canottaggio dove la squadra palestinese è formata dal solo Mark Gerbar, nato a Filadelfia da madre ebrea e padre palestinese. Gerbar, (ora trentunenne), dopo qualche esperienza universitaria nel Nuoto e nel Canottaggio e il titolo di campione statunitense del 2003 nel Doppio Pesi Leggeri, ha deciso di sposare la causa palestinese e, oggetto a suo dire di discriminazione negli Stati Uniti, si è trasferito in Germania dove si è allenato con la squadra tedesca partecipando dal 2005 al 2009 a molte competizioni internazionali. Pur fallendo la qualificazione alle Olimpiadi di Pechino, Mark Gerbar ha ottenuto, con il suo sedicesimo posto nel Singolo Pesi Leggeri ai Mondiali del 2005 e del 2007, la miglior prestazione della storia dello sport palestinese in una rassegna iridata.