IERI & OGGI: ELENA ISINBAEVA VALICA IL MURO DEI 5 METRI

Cinque anni fa cadeva un muro storico: Elena Isinbaeva superava per la prima volta i 5 metri nel Salto con l’Asta.

Elena IsinbaevaSono passati cinque anni dalla sera nella quale a Londra, nel meeting del Crystal Palace, Elena Isinbaeva infranse un muro storico nel Salto con l’Asta femminile: i 5 metri che in campo maschile erano stati superati la prima volta il 27 aprile 1963 dallo statunitense Brian Sternberg (e già Sergei Bubka aveva superato da venti anni i 6 metri).

Figlia di un idraulico musulmano e di un’operaia, Elena Isinbaeva nasce a Volgograd il 3 giugno 1982 e il suo è un talento unico rubato alla ginnastica artistica alla quale si è dedicata fino all’età di 15 anni, fino a quando la sua altezza (1.74) non l’ha messa fuori dai giochi. In una disciplina decisamente giovane se declinata al femminile – il primo record del mondo riconosciuto è del 1992 – Elena si trova decisamente bene e nel 1998 ai Campionati Mondiali Giovanili alla sua terza gara ufficiale conquista la medaglia d’Oro superando 4.00 (il record del mondo dell’australiana Emma George è 60 cm più in alto). Fallita la qualificazione alle Olimpiadi di Sydney (dove si impone Stacy Dragila), la prima medaglia nella massima categoria è per la Isinbaeva l’Argento ai Campionati Europei del 2002 con 4.55.

Il 13 luglio 2003, a 21 anni e un mese, la russa ottiene il suo primo record del mondo valicando l’asticella nel meeting di Gateshead a 4.82 cancellando dal libro dei primati la statunitense Stacy Dragila. Con l’eccezione di 21 giorni nell’estate del 2004 con un interregno dell’altra russa Feofanova, è da allora che il nome di Elena Isinbaeva campeggia nella tabella dei record del mondo alla voce Asta Femminile. La sua è una lenta progressione, centimetro dopo centimetro in una sequenza per massimizzare i ritorni, fino al mese di luglio del 2005.

Il 3 settembre 2004 a Bruxelles, Elena ha posto il limite a 4.92; il 5 luglio 2005 a Losanna sale a 4.93. Dieci giorni dopo a Creta, complice il vento e una giornata no manca il record. Una piccola delusione che nelle parole della russa le fa comprendere come i piccoli progressi stiano diventando poco più di una routine e come le occasioni debbano essere colte quando si presentano. Il 16 giugno a Madrid si permette quindi di contravvenire la legge del centimetro, salendo fino a 4.95 e prendendoci gusto.

E siamo al 22 luglio 2005, al Norwich Union Grand Prix di Londra di fronte a 18.000 spettatori.  Elena entra in scena a 4.70, dopo quasi due ore d’ attesa e quando in gara è rimasta solo la polacca Rogowska. La Isinbaeva supera la misura alla prima prova. E si ripete a 4.80. Poi, insieme alla Rogowska, decide di passare direttamente a 4.96. Per la polacca è un’ altezza impossibile, per la russa sembra non essere uno scherzo. Il primo tentativo è fallito. Il secondo, sebbene l’ asticella rimbalzi un po’ , è invece da record. E’ il settimo nelle ultime otto gare, indoor comprese.  Ed arriva il colpo di scena: la russa indica ai giudici di gara i 5 metri. Sono le 21.39 italiane (le 20.39 di Londra) quando con un salto perfetto cade un muro dell’atletica mentre la ragazza di Volgograd mette a segno il suo diciassettesimo record del mondo (10 all’aperto e 7 indoor in quel momento, sono ora 27 all’inseguimento dei 35 di Sergei Bubka).

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: ALTHEA GIBSON, PRIMA NERA A VINCERE UN TITOLO AMERICANO NEL TENNIS

La storia di Althea Gibson, la tennista che superò le barriera razziali diventando il primo atleta di colore a vincere un titolo americano nel Tennis e molto di più.

Althea GibsonParlare di Althea Gibson significa necessariamente parlare della segregazione razziale nello sport, in questo caso nel Tennis, negli Stati Uniti tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Sviluppatosi negli Stati Uniti come sport per l’alta borghesia e l’elite, il Tennis statunitense visse per decenni una dicotomia tra tornei per bianchi e tornei per neri gestiti da due organizzazioni diverse; nel caso degli afroamericani fu l’American Tennis Association, creata nel 1916, ad occuparsi dello sviluppo del gioco tra la popolazione di colore organizzando dal 1917 i Campionati Nazionali contrapposti ai Campionati della USLTA, US Lawn Tennis Association, dove solo i bianchi avevano accesso. Il primo incontro interrazziale avvenne solo nel 1940 quando Don Budge, autore nel 1938 del Grand Slam, giocò in una esibizione al New York Cosmopolitan Club di Harlem contro il campione ATA Jimmie McDaniel vincendo per 6-1 6-2 ma riconoscendo come il gioco di McDaniel avrebbe potuto essere da Top Ten.

Si trattò solo di un caso sporadico e le barriere razziali più rilevanti furono rotte solo a partire da una decina di anni più tardi da Althea Gibson, una ragazza nata nella Carolina del Sud nel 1927 e trasferitasi ad Harlem all’età di tre anni. La passione per il tennis crebbe proprio al Cosmopolitan Club di Harlem e la Gibson nel 1944 vinse il suo primo titolo nazionale ATA nella categoria junior. La qualità del gioco di Althea crebbe e nel 1950 riuscì a partecipare ai Campionati Nazionali Indoor della USLTA divenendo la prima giocatrice di colore a raggiungere la finale di un Campionato Nazionale. Fu ammessa, nonostante il colore della pelle, a partecipare ai Campionati sulla terra rossa dove uscì nei quarti di finale ma la barriera razziale sarebbe stata superata solo partecipando al massimo evento statunitense del tennis, lo US Open che all’epoca si teneva sull’erba di Forest Hills. Tutto faceva presagire un’ennesima esclusione fino a quando la campionessa bianca Alice Marble intervenne con un articolo sulla rivista American Lawn Tennis scrivendo: “Se il tennis è un gioco per gentildonne e gentiluomini, è il momento che si inizi a comportarsi da persone corrette e non da moralisti ipocriti” per chiudere con una sfida: “se Althea Gibson rappresenta una minaccia per questa generazione di giocatrici, è corretto che questa minaccia sia affrontata sui campi da gioco”. L’intervento ebbe effetto e, nel giorno del suo ventitreesimo compleanno, Altea divenne la prima persona di colore a partecipare agli US Opendove uscì al secondo turno contro Louise Brough, una delle star dell’epoca. La storia, talvolta leggendaria, vuole che il match contro la Brough fosse interrotto da un fulmine che colpì una statua e che la Gibson dichiarasse: “quando il fulmine ha colpito ho visto un segno dei tempi che cambiano”.

Saetta o non saetta, la Gibson, la donna di colore delle prime volte nel tennis, nel 1951 fu la prima afroamericana a giocare a Wimbledon ma i suoi migliori anno arrivarono a partire dal 1956 quando vinse il suo primo titolo in un torneo del Grand Slam, gli Open di Francia. L’anno successivo è l’anno della definitiva affermazione: vince Wimbledon battendo in finale Darlena Hard 6-3 6-2 e al ritorno in patria viene fatta sfilare a Broadway. Nonostante questo nella sua biografia la Gibson ricorderà come sebbene vincesse tornei e le fossero tributati onori anche dal vicepresidente Nixon in certe zone del paese le venisse rifiutato l’accesso in alcuni alberghi e le fosse impedito di organizzare un rinfresco in suo onore. Il 21 luglio 1957, Althea Gibson diventa il primo tennista di colore a vincere un titolo nazionale statunitense battendo nella finale dei Campionati in Terra Rossa ancora Darlene Hard con il risultato di 6-2 63. Poco più di un mese dopo si issò sul tetto del tennis americano e mondiale affermandosi anche negli US Open superando in finale Louise Brough (6-3 6-2).

Diventata ormai la tennista numero uno al mondo, Althea Gibson difese con successo ambedue i titoli l’anno successivo e sia nel 1957 sia nel 1958 fu scelta dall’Associated Press come l’atleta dell’anno (un’altra prima volta per gli afroamericani). Dopo aver vinto il suo secondo US Open passò al professionismo.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: IL PRIMO TOUR DI EDDY MERCKX

La prima di cinque vittorie di Eddie Merckx al Tour de France: il Cannibale lascia il secondo a quasi 18′ in una classifica d’altri tempi

Eddie MerckxSei vittorie di tappa, la maglia gialla, la maglia verde, la maglia a pois del Gran Premio della Montagna, la maglia della Combinata, il trofeo per il più combattivo, la vittoria della Faema nella classifica a squadre: è il bilancio unico e irripetibile del primo Tour de France del Cannibale, al secolo Eddie Merckx.

Era il 20 luglio 1969 quando il belga si impose anche nella cronometro di fine Tour da Créteil – Paris la Cipale infliggendo nell’occasione 53″ a Raymond Poulidor e 1’14” a Roger Pingeon, il secondo sul podio finale con un distacco d’altri tempi, 17’54”. Il ventiquattrenne belga si era già imposto, con la maglia iridata (la prima di tre) conquistata nel 1967 ad Heeerlen, nel Giro d’Italia del 1968 mentre nel 1969, quando era al comando della classifica generale era stato squalificato a Savona perchè trovato positivo ad un controllo antidoping.  Perdonato all’ultimo momento dalla sua Federazione, Merckx si presentò desideroso di rivincita ai nastri di partenza di Roubaix.

Una tappa tra tutte può essere utilizzata per descrivere il dominio del belga alla prima esperienza nella Grande Boucle: il tappone pirenaico Luchon – Mourenx. Dopo Peyresourde e Aspin dove i grandi rimangono in gruppo la Faema prende l’iniziativa sul Tourmalet e in vetta un episodio rivela il carattere di cannibale e di padre padrone del grande belga: a 200 metri dal GpM, accelera per passare per primo davanti al suo gregario Vandenbossche. Nel dopo corsa la maglia gialla spiegherà il suo comportamento con la delusione per aver ricevuto dallo sfortunato Vandenbossche la notizia qualche giorno prima della sua decisione di cambiare squadra a fine stagione. ma Merckx non è contento di aver dato una lezione al gregario infedele. Il Cannibale accelera in discesa e alla fine della stessa ha 25″ di vantaggio, si rifornisce e parte come se si trattasse di una tappa a cronometro. Quaranta chilometri dopo alla base del Soulor ha 3’35” di vantaggio che diventano 5’15” allo scollinamento e 6’55 sulla cima dell’Aubisque. All’arrivo, dopo 140 km di fuga solitaria, Merckx avrà relegato il secondo di tappa, l’italiano Michele Dancelli, a 7’56. Il giorno dopo Jacques Goddet su L’Équipe intitolerà il suo articolo “Merckxissimo”

Quella sera quando mancano cinque tappe all’arrivo a Parigi Merckx ha 16’18” di vantaggio su Pingeon che arrotonderà ancora nei giorni successivi per vincere il primo dei suoi 5 Tour de France.


Massimo Brignolo

IERI & OGGI: E COREA ENTRO’ NEL DEVOTO-OLI

Il 19 luglio 1966, la Corea del Nord elimina l’Italia dalla Coppa del Mondo inglese. Riviviamo la disfatta per antonomasia del calcio italiano.

La rete di Pak Doo IkIl fantasma è stato evocato dopo le reti di Vittek che hanno causato l’ingloriosa uscita della nazionale di Lippi dal mondiale sudafricano e ancora oggi, 44 anni dopo, rappresenta la disfatta per antonomasia al punto che negli anni successivi al fatto il termine Corea entrò addirittura nel Devoto-Oli come neologismo.

Siamo nel 1966, i Campionati Mondiali si svolgono in Inghilterra e l’Italia dopo essere uscita dai Mondiali cileni tra cazzotti e indegne gazzarre con i padroni di casa si presenta sull’onda dell’entusiasmo per una serie di risultati positivi nelle ultime partite. Da quattro anni siede sulla panchina azzurra Edmondo Fabbri, detto Mondino, che cerca di fare coesistere in azzurro i due blocchi che nel calcio nazionale si stanno contrapponendo: da una parte gli interpreti della grande Inter di Helenio Herrera, dall’altra la scuola del Bologna che nel 1964 si è aggiudicato lo scudetto allo spareggio al quale si era aggiunto Gianni Rivera, il golden boy. E il cuore di Mondino pende spesso verso la via Emilia.

Nel percorso di qualificazione, l’Italia travolge in casa la Scozia di Bremner (3-0), la Polonia di Lubanski (6-1) e la Finlandia (6-1); nelle amichevoli premondiali fioccano le vittorie e i goal (6-1 alla Bulgaria, 3-0 all’Argentina, 5-0 al Messico): si arriva in Inghilterra sulle ali dell’entusiasmo. Il girone preliminare presenta Cile, Unione Sovietica e Corea del Nord. Gli azzurri vincono, giocando male con il Cile; perdono contro l’Unione Sovietica di Yashin per 1-0 e Giacomo Bulgarelli, cuore del gioco della squadra di Fabbri, accusa un malanno al ginocchio. Mentre l’ambiente si spacca sempre più per le scelte di Fabbri che sembra privilegiare il blocco del Bologna si arriva all’incontro decisivo contro la Corea del Nord dove un pareggio qualificherebbe l’Italia per i quarti di finale.

I bookmakers quotano le chance di vittoria degli asiatici 500 a 1, Ferruccio Valcareggi, secondo di Fabbri e futuro ct della Nazionale, definisce i coreani “una squadra di Ridolini che sa solamente correre”, Gianni Brera annuncia che in caso di sconfitta smetterà di scrivere di calcio. Alle 20.30 del 19 luglio 1966, nello stadio di Middlesbrough all’annuncio delle formazioni inizia a compiersi il destino dell’Italia di Fabbri.

Il tecnico emiliano decide di rischiare Bulgarelli, sofferente al ginocchio, preannunciando tre reti nel primo quarto d’ora e una passeggiata di salute; rinuncia ad Armando Picchi in difesa preferendogli il bolognese Janich. Albertosi – Landini – Facchetti – Guarneri – Janich – Fogli – Perani – Bulgarelli – Mazzola – Rivera –  Barison. E’ la formazione che scende in campo e nella prima mezz’ora riesce anche a procurarsi quattro-cinque palle goal e a sciupare. Al 35′ Bulgarelli si infortuna definitivamente ed è costretto ad uscire dal campo e, ai tempi non erano previste sostituzioni, l’Italia è costretta a giocare in 10. I ridolini coreani ci sovrastano nella corsa e persino nel gioco aereo.

Al 42′ Pak Doo Ik, caporale maggiore dell’esercito nordcoreano passato alla storia del giornalismo nostrano come improbabile dentista, ruba palla a centrocampo a Rivera e fila verso l’area e supera Albertosi con un diagonale dal limite. L’Italia crolla e non riesce a reagire ed esce tra le polemiche dal Mondiale. Ad attendere Fabbri e gli azzurri allo sbarco sono i pomodori marci e le solite chiacchere a base di complotti, vendette, accuse.

Non va meglio ai nordcoreani che festeggiano in modo troppo “borghese” la vittoria e dopo aver messo paura al Portogallo di Eusebio che deve recuperare uno svantaggio di tre reti in un’ora di gioco al ritorno a casa vengono spediti nei gulag da Kim Il Sung in persona.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: FABIO ON PENSE À TOI

Morire a venticinque anni andando in bicicletta. Il destino è spesso cinico come nel caso di Fabio Casartelli morto sulle strade del Tour il 18 luglio 1995.

Fabio CasartelliIl Tour de France arriva oggi in zona Pirenei e domani nella tappa Pamiers – Bagneres de Luchon affronterà dopo un centinaio di chilometri il Col de Portet d’Aspet, asperità di media difficoltà appena sopra i mille metri d’altezza.

Sulle stesse strade, 15 anni fa, il 18 luglio 1995, “Fabio ha chiuso gli occhi. Per sempre” come aprì la sua drammatica cronaca sulla Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi. Era l’ultimo Tour dell’era Indurain che a Parigi conquisterà la sua quinta maglia gialla consecutiva, un ventiquattrenne Lance Armstrong è nel cuore della sua prima vita ciclistica, il giorno prima a Guzet Neige si era imposto per distacco Marco Pantani. Nella squadra di Lance Armstrong, la Motorola, è iscritto un venticinquenne al terzo anno da professionista dopo una luminosa carriera da dilettante culminata nella medaglia d’Oro alle Olimpiadi di Barcellona: Fabio Casartelli.

Quel 18 luglio il programma presenta uno dei più classici tapponi pirenaici: Portet d’Aspet, Menté , Peyresourde, Aspin, Tourmalet. E’ quindi naturale che sul Portet d’Aspet a soli 35 km dalla partenza il gruppo scollini a ranghi compatti e si getti a capofitto nella discesa verso Ger-de-Boutx. “Caduta grave” gracchia Radio Corsa, in una curva verso sinistra è l’ecatombe: il francese Dante Rezze finisce diritto giù nella scarpata e verrà tirato su con una corda, Perini, Museeuw e Breukink riescono a rialzarsi e ripartire. Ci si affanna intorno a Baldinger che urla e ha una frattura esposta del bacino, lì vicino una pozza di sangue preannuncia la tragedia. Fabio Casartelli, in un ciclismo senza caschi e senza protezioni sulle strade, ha picchiato la testa sul lato sinistro con violenza contro un blocco di cemento che limita la strada, uno dei tanti paracarri che fungono da protezione per le auto nelle strade montane francesi.

Non c’è nulla da fare e anche il trasporto d’urgenza all’ospedale di Tarbes è inutile: dopo un’agonia di due ore, Fabio, che non ha mai ripreso conoscenza, chiude gli occhi. Per sempre. Quindici anni fa come adesso lo spettacolo deve continuare: tra chi dice di non essere stato informato e chi difende la filosofia del “show must go on” la tappa arriva a Cauterets, vince Virenque tra baci delle miss e champagne. Solo il giorno dopo il grande circo dedica la sua attenzione al dramma consumato: da Tarbes a Pau il gruppo passeggia, quasi in processione, e concede alla Motorola l’arrivo in prima fila. Tre giorni dopo a Limoges, Lance Armstrong vince in solitaria la tappa che sulla carta doveva vedere l’affondo di Casartelli. Dita rivolte al cielo per l’ultimo saluto a Fabio.

“Fabio, on pense à toi”, reciterà l’anno successivo uno striscione sui Pirenei.

Massimo Brignolo