IERI & OGGI: UNA BOMBA SULLE OLIMPIADI DEL CENTENARIO

Centennial Park, AtlantaDopo Los Angeles 1984, scelta politically correct dopo quella di Mosca 1980 e manifestazione della superpotenza statunitense per rispondere all’analogo show sovietico, le Olimpiadi estive tornano negli Stati Uniti quando sono passati solo 12 anni. In una delle più controverse scelte della sede olimpica, le pressioni di un maxi sponsor come la Coca Cola favoriscono lo scippo delle Olimpiadi del Centenario alla loro sede naturale, Atene, e la scelta di Atlanta, sede del quartier generale delle bollicine.

Gli Stati Uniti sono in piena sindrome da terrorismo interno (l’11 settembre e il nemico dei nemici sono ancora lontani): nell’aprile del 1995 un camion contenente 2300 kg di esplosivo viene utilizzato contro un edificio federale nel centro di Oklahoma City e causa la morte di 118 persone, il 17 luglio, due giorni prima della Cerimonia di Apertura, il volo TWA 800 in partenza da New York verso Parigi esplode in volo pochi minuti dopo il decollo provocando la morte dei 230 passeggeri. Non esiste la prova della matrice terroristica ma il livello di allerta sale. Tutti gli impianti destinati ad ospitare le competizioni sono attentamente presidiati e l’accesso doviziosamente controllato, il villaggio olimpico è off limits per tutti gli estranei. Ma esiste un punto debole nell’apparato di sicurezza, si tratta del Centennial Olympic Park, la piazza centrale della cittadella olimpica dove ogni sera sono in agenda appuntamenti musicali che richiamano una gran folla di sportivi e turisti.

Nella tarda serata del 26 luglio è in programma un concerto della band Jack Mack and the Heart Attack e mentre la band ancora è sul palco, la mezzanotte è già passata, uno zaino con tre ordigni esplosivi viene piazzato nei pressi del palco. Una guardia addetta alla sicurezza nota lo zaino, dà l’allarme e inizia a far evacuare la zona negli stessi momenti nei quali il 911 riceve una telefonata che preannuncia un’esplosione. Venti minuti dopo la scoperta, alle 1.20, lo zaino esplode: una donna, Alice Hawthorne, è uccisa, un giornalista turco muore per un attacco di cuore e 111 persone sono ferite. Le Olimpiadi sono sotto attacco per la prima volta dopo l’uccisione di undici componenti della squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco 1972.

Alle 5.15 un portavoce del Comitato Olimpico Internazionale dichiara che le Olimpiadi non si fermeranno, “the show must go on”. Ma da quel momento si moltiplicheranno le evacuazioni e gli allarmi: le Olimpiadi del Centenario sono irrimediabilmente segnate.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: LA MORTE DI ANTONIO ASCARI

Ottantacinque anni fa moriva sul circuito di Monthlery, Antonio Ascari, pioniere dei trionfi Alfa Romeo nei Gran Premi e padre di Alberto.

Antonio AscariL’epopea dei Gran Premi automobilistici esce dai confini francesi nel primo dopoguerra quando iniziano a corrersi gare anche in Italia (Gran Premio di Brescia del 1921) e con il passare degli anni negli Stati Uniti (la 500 miglia di Indianapolis e in Belgio). Nel 1924 nasce l’Associazione Internazionale degli Automobile Club, primo embrione della Federazione Nazionale dell’Automobilismo, che attraverso la sua Commissione Sportiva regolamenta i Gran Premi e nel 1925 lancia il primo Campionato Mondiale per Costruttori.

Negli stessi anni si affaccia nel mondo dei Gran Premi, l’Alfa Romeo che fino al 1922 si dedica a gare a formula libera come la Targa Florio: il salto di qualità avviene ad opera dell’ingegnere Vittorio Jano che lascia nel 1923 la Fiat per entrare in Alfa Romeo e sviluppare una nuova macchina, la P2, e di una pattuglia di piloti come Giuseppe Campari, Enzo Ferrari e Antonio Ascari.

Reduce da una carriera nelle gare di formula libera non sempre fortunata, Antonio Ascari, nato il 15 settembre 1888 nel Mantovano, si presenta con Campari e Sivocci al debutto nei Gran Premi internazionali dell’Alfa Romeo al Gran Premio d’Italia a Monza ma durante le prove, in quella che ora è la variante Ascari (dedicata ad Alberto il figlio di Antonio), Sivocci perde il controllo della vettura e perde la vita. La scuderia si ritira dalla gara.

Bisogna aspettare l’anno successivo per vedere l’Alfa Romeo ai nastri di partenza di un Gran Premio; la P2 viene testata in gare non ufficiali come il Circuito di Cremona dove Antonio Ascari ottiene il giro più veloce e la vittoria finale. L’esordio mondiale avviene, quindi, il 3 agosto 1924 a Lione nel Gran Premio di Francia. Antonio Ascari sembra lanciato verso una vittoria trionfale quando a 4 giri dal termine la sua Alfa inizia ad accusare problemi meccanici che lo costringono a fermarsi ad un giro dal traguardo; la vittoria va a Campari sempre su Alfa mente un’altra P2 del Biscione, quella di Wagner chiude al quarto posto. La consacrazione di Ascari arriva al Gran Premio d’Italia  dove in cinque ore di gara, il mantovano domina conquistando la vittoria con un arrivo in parata delle Alfa Romeo che occupano i tre gradini del podio con Wagner e Campari davanti alle Mercedes.

Il 1925 inizia ancora sotto la stella di Ascari e della P2 che al Gran Premio del Belgio fornisce un dimostrazione di superiorità schiacciante con Ascari e Campari nelle prime due posizioni che fa pensare che il proseguio della stagione si trasformi in un braccio di ferro tra i due alfisti. Il Gran Premio successivo si corre il 26 luglio nel nuovo circuito di Monthléry nei dintorni di Parigi e la corsa si svolge come le previsioni: le P2 vanno in testa e non trovano reale opposizione dalle avversarie e ancora una volta è Ascari il più veloce fino al ventiduesimo giro.

“Alla curva a grande raggio e in leggerissima ascesa, posta alla fine del 9° chilometro, Ascari toccò il mozzo della ruota anteriore nella inutile ed insidiosa palizzata dal colore troppo simile a quello del terreno tutto intorno. Tentò subito, l’abilissimo pilota, di raddrizzare la vettura che – per la nuova direzione – leggermente toccò con la ruota posteriore. Onde, altro lieve colpo di sterzo. E intanto, nel corso dei due secondi – tanti ne occorrono per percorrere 100 metri alla velocità presunta di 180 km/h – la staccionata divelta si era venuta ammassando davanti all’assale della macchina sicché questa…piroettava, usciva di strada, sbatteva in aria il pilota, che ricadeva – inerte – sulla pista”

(Lando Ferretti, Auto Italiana, 31 luglio 1925).

Ascari rimane a lungo disteso sul bordo della pista e nessuno è autorizzato ad avvicinarsi fino a quando, una mezz’ora dopo, arriva il medico del circuito. Adagiato sull’autoambulanza spira all’età di trentasei anni lasciando due figli tra i quali, Alberto, che vinse nel 1952 e nel 1953 il Campionato del Mondo per poi perire tragicamente in un incidente durante dei test sul circuito di Monza all’età di trentasei anni.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: EDWIN MOSES, ORO DI MONTREAL

Alle Olimpiadi di Montreal il mondo inizia a conoscere un ventenne con gli occhialini e un aspetto vagamente professorale: Edwin Moses destinato a diventare il più grande di tutti i tempi sui 400 hs (e oltre).

Edwin MosesIl protagonista dei 400 ostacoli alle Olimpiadi di Montreal del 1976 doveva essere l’ugandese John Akii-Bua che già aveva stupito tutti quattro anni fa a Monaco stabilendo il primato mondiale con il tempo di 47″82 e vincendo il primo titolo olimpico per il suo paese. Il boicottaggio dei paesi africani per il mancato intervento del CIO contro la Nuova Zelanda la cui nazionale di rugby aveva disputato degli incontri nel Sudafrica dell’apartheid tagliò fuori molti protagonisti dal consesso olimpico.

Gli ostacoli alti lanciarono però in orbita un nuovo protagonista destinato a riscrivere il libro della specialità per i successivi 12 anni, il ventenne Edwin Moses. Nato nell’Ohio nel 1955, Moses non rappresenta l’archetipo dell’afroamericano che cerca la rivincita nella corsa; figlio di insegnanti si dedica con passione allo studio e, seppure dotato sugli ostacoli alti (i 110 hs), preferisce rifiutare i college che gli propongono una borsa di studio per meriti sportivi e sceglie il Morehouse College di Atlanta e la sua borsa di studio in ingegneria. A Morehouse vi è una squadra di atletica ma non vi sono gli impianti, Moses si allena in solitudine guadagnandosi l’appellativo di “uomo bionico” per il doppio impegno, più preoccupato degli studi che risentono del doppio impegno che dei risultati.

Nel 1975, Edwin iniziò a coltivare il sogno di partecipare alle Olimpiadi dell’anno successivo ma senza un piano preciso. Nella prima gara della nuova stagione, i Florida Relays, nel marzo del 1976, corse i 110 hs in 13″7, i 400 metri in 46″1 e i 400 ostacoli per la prima volta in una competizione in 50″1 e fu osservato dal tecnico della squadra olimpica, Leroy Walker, che lo indirizzò verso gli ostacoli bassi.

A fine aprile nei Penn State Relays, Moses si impone in 48″8 e due mesi dopo nei Trials statunitensi per definire la squadra che parteciperà alle Olimpiadi di Montreal batte il record statunitense imponendosi in 48″3, terza prestazione mondiale di sempre. Edwin ha tutte le caratteristiche fisiche per i 400 ostacoli e le sue lunghe leve gli consentono di coprire costantemente la distanza dagli ostacoli in 13 passi, dovendo talvolta sforzarsi di non strafare saltando a 12, mentre lo stesso Akii-Bua era in grado di tenere il ritmo dei 13 passi solo nei primi 5-6 ostacoli per poi passare a 14 nel finale di gara.

Anomino, con i suoi occhialoni che nascondono una ipersensibilità alla luce, e la sua aria vagamente professorale Moses si presenta a Montreal: corre un primo turno in scioltezza ed è l’unico a fermare i cronometri sotto i 50″ in 49″95, in semifinale domina il campo dei partecipanti dalla sua quinta corsia e si migliora ottenenendo il  suo personale in 48″29.

Il 25 luglio 1976 è in quarta corsia alla partenza della finale, alla sua destra il portoghese Carvalho e alla sua sinistra il britannico Pascoe: saranno i primi a cedere, schiantati dal ritmo di Moses che non riescono a reggere. Ai 200 metri, lo statunitense ha mangiato il decalage di partenza anche al connazionale Wheeler in settima corsia. Sono più fortunati perchè distanti dall’uomo bionico lo statunitense Shine (corsia 8 ) e il russo Gavrilenko (corsia 1) che riescono a correre al loro ritmo. Ma all’ingresso sulla retta finale hanno già un distacco di 5-6 metri. All’arrivo saranno 8 i metri che separeranno il secondo Shine da Edwin Moses che ferma i cronometri su un eccezionale 47″63, record del mondo.

Ritornerà ad Atlanta, un po’ deluso dal fatto di non essere riconosciuto per strada, ma pronto a finire gli studi e a trovare un impiego alla General Dynamics (solo nel 1979 si metterà in aspettativa per dedicarsi a tempo pieno all’Atletica). Per questa ragione rinuncia alla stagione indoor e l’estate successiva si dedica solo agli impegni maggiori: abbassa il suo record del mondo e il 26 agosto 1977 viene sconfitto da Harald Schmid. Da quel momento inizia una striscia di 122 vittorie consecutive per un dominio che durerà 9 anni, 9 mesi e 9 giorni.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: ZÁTOPEK E SIGNORA, ORO AD HELSINKI

Nella gara centrale della sua storica tripletta, la Locomotiva Umana, Emil Zátopek vince i 5.000 alle Olimpiadi di Helsinki pochi minuti prima della vittoria della moglie nel Giavellotto.

Emil Zatopek“Credo che in qualche modo la vittoria sui 5.000 possa averla ispirata”, “Davvero? Allora cerca un’altra ragazza, ispirale e vediamo se riesce a lanciare un giavellotto a 50 metri”. Questo scambio di battute avviene il 24 luglio 1952 alla conferenza stampa dopo la vittoria di Dana Ingrová in Zátopková nella gara di Lancio del Giavellotto tra la vincitrice e il marito Emil Zátopek che poco prima aveva conquistato l’alloro olimpico nei 5000 metri.

Nato il 19 settembre del 1922 in Moravia, Zátopek si era già imposto all’attenzione del mondo nelle Olimpiadi del 1948 a Londra dove vinse la medaglia d’Oro nei 10.000 e la medaglia d’Argento nei 5.000, primi tasselli di un dominio sul fondo mondiale che si confermò negli anni successivi. Alle stesse Olimpiadi, la moglie Dana dovette accontentarsi, nel Lancio del Giavellotto del settimo posto con una misura di poco inferiore ai 40 metri.

All’apice della sua carriera, il fondista cecoslovacco rischiò di non partecipare alle Olimpiadi di Helsinki: dapprima una infezione ghiandolare aveva portato i medici a consigliarli un periodo di assoluto riposo e poi Zátopek, spirito libero nella Cecoslovacchia sotto il giogo sovietico, pochio giorni prima della partenza per la Finlandia prese le difese dello staffettista Jungwirth, escluso dalla selezione perchè figlio di un prigioniero politico. “Se non parte, non parto neanche io” dichiarò Zátopek ed effettivamente quando la nazionale cecoslovacca arrivò Helsinki i 10.000 finlandesi che attendevano la Locomotiva Umana tornarono a casa delusi. Due giorni dopo il fondista e Jungwirth salirono sullo stesso aereo per raggiungere i compagni e i Giochi ritrovarono un protagonista che avevano rischiato di perdere prima ancora di iniziare.

Il 20 luglio il cecoslovacco difese l’Oro olimpico di 4 anni prima, imponendosi, a tempo di record olimpico, davanti al francese Mimoun staccato di 16″ e al russo Anufriyev. Due giorni dopo supera il primo turno dei 5.000, qualificandosi per la finale senza sprecare energie.

Il 24 luglio il programma delle gare di Atletica prevede alle 11.30 le qualificazioni del Giavellotto femminile,  il via dei 5.000 metri alle 16.40 e 5 minuti più tardi l’inizio della finale del Giavellotto. Dana Zátopková ottiene la terza misura delle qualificazioni con 45.57 dietro alle sovietiche Tshudina e Zibina. Alle 16.40 parte la finale dei 5.000 metri, una gara dagli altissimi contenuti agonistici che diventa presto una gara a quattro tra Zátopek, il francese Mimoun, l’inglese Chataway e il tedesco Schade. Il cecoslovacco guida il gruppetto al suono della campana ma  sembra non riuscire a reagire all’attacco di Chataway e Schade ai 300 metri; risucchiato anche da Mimoun, Zátopek non si da per vinto e piazza uno scatto micidiale ai 150 metri dall’arrivo, si spintona con Mimoun, passa all’esterno e si presenta in prima posizione sul rettilineo d’arrivo mentre cade Chataway, allungando con la sua caratteristica andatura ciondolante. Il titolo olimpico è suo mentre sul podio salgono anche Mimoun e Schade.

Nella pedana del Giavellotto, la moglie mette tutte d’accordo al primo lancio con una spallata poderosa da 50.47 che nessuno riuscirà a superare nei sei lanci della finale. Le si avvicina solo la sovietica Shudina che all’ultimo lancio piazza un 50.01 che le varrà la medaglia d’Argento superando la connazionale Gortshakova che si ferma a 49.76.

Tre giorni dopo, Zátopek completa una storica tripletta vincendo la prima Maratona della sua vita.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: IL CAREER SLAM DI TIGER WOODS

Tiger WoodsNel Golf come nel Tennis, il Grand Slam è una invenzione giornalistica per indicare l’insieme dei quattro tornei più importanti, i Major, della stagione. Nel Golf il concetto venne introdotto nel 1930 quando ci si trovò nella necessità di etichettare la stagione perfetta di Bobby Jones che vinse The Open Championship, lo U.S. Open Championship, lo United States Men’s Amateur Golf Championship e The (British) Amateur Championship.

Con il passare degli anni e l’avvento del professionismo i due ultimi, riservati ai dilettanti, sono stati rimpiazzati dal Masters di Augusta e dal PGA Championships ma nella storia del golf nessuno è più riuscito nell’impresa di completare il Grand Slam nella stessa stagione al punto che l’attenzione si è rivolta su coloro che nel corso della carriera siano riusciti ad aggiudicarsi almeno una volta i 4 Major: sono sufficienti le dita di una mano per contare cinque grandissimi della storia del golf a partire da Gene Sarazen che completò il Career Slam nel 1935 proseguendo con Ben Hogan (1953), il sudafricano Gary Player (1965), l’Orso d’Oro Jack Nicklaus (1966) e Tiger Woods.

Programmato per la vittoria sin dalla più tenera infanzia, Eldrick Tiger Woods, dopo aver vinto per tre edizioni consecutive lo US Junior Amateur Championship ed essere stato nel 1994 il più giovane vincitore dello US Amateur Championship, è passato professionista nell’agosto del 1996 e otto mesi dopo ha vinto il suo primo Major, The Masters con il punteggio record di 18 sotto il par, il vantaggio record di 12 colpi sul secondo diventando il più giovane vincitore del Masters nella storia.  Dopo un periodo fisiologico di calo, successivo al passaggio al professionismo, Tiger nell’estate del 1999 vince il PGA Championship ma è il 2000 la stagione perfetta del primo Woods.

Si impone nello US Open con un vantaggio di 15 colpi sul più vicino degli avversari e all’Open Championship (che come quest’anno si svolge a St Andrews) si impone con il miglior punteggio di sempre in un Major (-19) e, il 23 luglio 2000, a soli 24 anni e 6 mesi diventa il golfista più giovane ad aver completato un Career Slam.

Quello stesso anno, Tiger vince anche il PGA Championship, seppure allo spareggio contro Bob May, e diventa l’unico con Ben Hogan (1953) ad aver vinto tre Major in una stagione. Nell’aprile del 2001 si impone nel The Masters di Augusta diventando il primo golfista della storia del golf professionistico a detenere contemporaneamente i titoli dei 4 Major, il Tiger Slam come viene subito definito.

Massimo Brignolo