GRAN PREMIO DI SVIZZERA: UN BANDO LUNGO 53 ANNI

bolito per legge dal 1958, il Gran Premio di Svizzera era stato un classico dell’automobilismo fino alla sua ultima edizione del 1954.

Il disastro alla 24 Ore di Le Mans del 11 giugno 1955 era stato il più catastrofico della storia dell’automobilismo. Lo schianto della Mercedes di Pierre Levegh sugli spettatori ai bordi della tribuna centrale del circuito aveva provocato la morte di 82 persone, e il ferimento di oltre un centinaio. L’eco della tragedia aveva frastornato l’opinione pubblica di tutto il mondo, e come conseguenza, le autorità di Germania, Belgio, Spagna e Svizzera misero al bando le gare motoristiche di ogni categoria.

Ma se negli altri paesi quella del bando era stata una misura amministrativa temporanea, volta al miglioramento delle condizioni di sicurezza nei circuiti automobilistici, in Svizzera lo si era sancito per legge, tanto che nel 1958 era stato inserito nel codice della strada un articolo che proibiva (e proibisce tuttora) espressamente lo svolgimento di gare motoristiche sul territorio elvetico.

Come risultato immediato, si era avuto l’annullamento dei Gran Premi di Svizzera di Formula 1 e di motociclismo, che dal 1934 avevano avuto luogo sul circuito cittadino di Bremgarten, alla periferia di Berna. Per via della sua spettacolarità (e pericolosità), dovuta al continuo alternarsi di salite e discese, curve strettissime e lunghi rettilinei su un manto stradale irregolare, e spazi aperti e assolati che improvvisamente si chiudevano sotto l’ombra di file fittissime di alberi a bordo pista, Bremgarten era diventato uno dei circuiti più amati dagli appassionati di automobilismo e dai piloti più spericolati. Era stato teatro di sfide emozionanti tra i grandi campioni degli anni cinquanta, come Juan Manuel Fangio, Nino Farina, Alberto Ascari, Stirling Moss e Luigi Villoresi; e sul suo terreno non era mancato il doloroso strascico di caduti: tra tutti, Achille Varzi e il centauro Omobono Tenni, falciati in prova dalla stretta e scoscesa curva Eymatt a poche ore di distanza l’uno dall’altro il 1° luglio 1948.

Durante i quattro giorni delle kermesse automobilistiche di Bremgarten, tra prove e gare di auto, moto e side-car, era un susseguirsi ininterrotto di emozioni; e ad uno spettacolo ne seguiva immediatamente un prossimo, come ad un festival a tema motoristico. In mancanza della televisione, un pubblico di almeno centomila persone (quasi l’intera popolazione di Berna) accorreva in massa per vedere lo spettacolo dal vivo, facendo realizzare sistematicamente il tutto esaurito ai botteghini.

In questi ultimi 53 anni di bando sul territorio nazionale, il GP di Svizzera si è svolto solo fuori dai confini, per l’esattezza a Digione in Francia nel 1975 (in forma non ufficiale) e nel 1982, ma ogni volta che Bremgarten è stato riaperto straordinariamente per esibizioni di auto d’epoca, la partecipazione di pubblico è sempre stata altissima.

Secondo una parte dell’opinione pubblica elvetica, il perdurante divieto di far svolgere gare automobilistiche e motociclistiche è un anacronismo, in un’epoca in cui la Formula 1 ha raggiunto standard di sicurezza impensabili cinquant’anni fa. E, siccome i più recenti tentativi di abrogazione  per via ordinaria di questa norma contestata sono naufragati di fronte all’intransigenza della camera alta, che agli ormai superati motivi di sicurezza ha opposto quelli ambientali, proprio ieri è stata presentata alla Cancelleria Federale una petizione firmata da oltre settantamila cittadini, dietro l’iniziativa della federazione motoristica sportiva svizzera.

Tra i testimonial di questa petizione, l’ex motociclista rossocrociato Jacques Cornu, uno dei protagonisti della categoria 250 cc negli anni ottanta, che al quotidiano francofono Le Matin ha dichiarato: “C’è stata un’epoca in cui la morte compariva ogni fine settimana, e questo può farci comprendere le ragioni di un simile divieto, che allora aveva una propria logica. Ma nel mondo di oggi è semplicemente un’aberrazione.”

IERI & OGGI: L’INCIDENTE DI NIKI LAUDA AL NÜRBURGRING

Trentaquattro anni fa, l’incidente di Niki Lauda al Nurburgring: un rogo tremendo dove il pilota austriaco si salva solo grazie all’intervento di Arturo Merzario.

Niki LaudaAndreas Nikolas “Niki” Lauda arriva in Ferrari all’inizio della stagione 1974 dopo un paio di anni di apprendistato, non decisamente fortunati, alla BRM: era la Ferrari la cui squadra corse era stata riformata intorno alla figura di un giovanissimo Luca di Monzemolo dopo un inizio deludente del decennio.

Nel 1974, Niki, alle prese con una macchina non ancora inaffidabile, vince due Gran Premi (Spagna e Olanda) ma nonostante sei pole position non riesce ad andare oltre il quarto posto nella classifica finale. Diversa è la musica nel 1975 con la nuova 312T: la stagione parte male ma nei cinque Gran Premi tra Monaco e il GP di Francia, l’austriaco ottiene 4 vittorie – una quinta arriverà in chiusura di campionato a Watkins Glen – e conquista con una gara di anticipo, di fronte al pubblico amico di Monza, il titolo mondiale riportando una Ferrari al vertice dopo la vittoria di John Surtees, 11 anni prima.

La Ferrari è decisamente superiore alle avversarie: Lauda vince quattro delle prime sei gare e conquista il secondo posto nelle altre due, una delle quali vinta dal suo compagno Regazzoni. Si arriva a fine luglio con 9 GP disputati su 16 e l’austriaco ha praticamente doppiato in classifica i suoi avversari: 61 punti per Lauda, 30 punti per Schekter, futuro ferrarista che guida una Tyrrell, e 26 punti per James Hunt e la sua McLaren.

Nelle settimane che precedono il Gran Premio di Germania sulla pista del Nürburgring, circuito di altri tempi lungo quasi 23 km con ampi tratti in mezzo alla foresta, Lauda cerca di boicottare il GP per ragioni di sicurezza (i soccorsi nel tratto centrale della pista possono arrivare solo in una decina di minuti) ma non riesce a raccogliere il consenso dei suoi colleghi. In prova James Hunt ottiene la pole position davanti a Lauda, mentre in seconda fila ci sono Depailler e Stuck.

Piove la mattina della gara, il 1 agosto 1976: alla partenza è il ferrarista Regazzoni che prende la testa superando sia Hunt che Lauda. Hunt è secondo, terzo il bravo Mass, quarto Laffite che approfitta del fatto che la March di Stuck viene esclusa dalla griglia a causa di un problema alla frizione (sebbene il tedesco parta poi effettivamente ma dall’ultima fila).  Nel primo giro Regazzoni si gira e scende al quarto posto. Al termine del primo giro, il tempo si mette definitivamente al bello e tutti vanno ai box per metter gomme slick.

Durante il terzo giro lo schianto: al chilometro 11, esattamente alla metà del percorso dove i soccorsi sono lontani, la Ferrari affronta una curva a sinistra. Le poche immagini a disposizione fanno intuire che l’austriaco tocchi il cordolo con la ruota posteriore inizando una sbandata. La Ferrari parte in testacoda, sfonda le reti e sbatte la fiancata contro una roccia rimbalzando verso il centro della carreggiata dove prende fuoco.  Arriva Guy Edwards che riesce ad evitare la Ferrari mentre Brett Lunger la centra in pieno e il fuoco aumenta di intensità. Ewards, Lunger e il sopraggiunto Ertl cercano di soccorrere Lauda, Arturo Merzario, quello che Lauda definirà “l’uomo senza il quale io non sarei qui”, si getta nelle fiamme e estrare l’austriaco dall’abitacolo.

Le condizioni di Lauda appaiono disperate: ustioni di terzo grado al volto e alla testa ma soprattutto i polmoni danneggiati dai vapori di benzina inalati per interi minuti. Lauda arriva all’ospedale di Adenau in coma e gli viene impartita l’estrema unzione. Lentamente le sue condizioni migliorano e dopo alcuni giorni l’austriaco viene dichiarato fuori pericolo anche se il suo volto porterà per sempre i segni del terribile rogo. Trentasette giorni dopo l’incidente, un recupero che ha del miracoloso, si ripresenta alla partenza del GP d’Italia dove chiude, con i bendaggi sanguinanti per lo sforzo, al quarto posto.

Ma a ventisette anni, quello che era il ragioniere del volante, aveva scoperto anche la paura: nel decisivo GP del Giappone si ritira dopo due giri di pioggia torrenziale e James Hunt può conquistare il Mondiale. Si rifarà nel 1977 conquistando il titolo nella sua ultima stagione alla Ferrari.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: LA MORTE DI ANTONIO ASCARI

Ottantacinque anni fa moriva sul circuito di Monthlery, Antonio Ascari, pioniere dei trionfi Alfa Romeo nei Gran Premi e padre di Alberto.

Antonio AscariL’epopea dei Gran Premi automobilistici esce dai confini francesi nel primo dopoguerra quando iniziano a corrersi gare anche in Italia (Gran Premio di Brescia del 1921) e con il passare degli anni negli Stati Uniti (la 500 miglia di Indianapolis e in Belgio). Nel 1924 nasce l’Associazione Internazionale degli Automobile Club, primo embrione della Federazione Nazionale dell’Automobilismo, che attraverso la sua Commissione Sportiva regolamenta i Gran Premi e nel 1925 lancia il primo Campionato Mondiale per Costruttori.

Negli stessi anni si affaccia nel mondo dei Gran Premi, l’Alfa Romeo che fino al 1922 si dedica a gare a formula libera come la Targa Florio: il salto di qualità avviene ad opera dell’ingegnere Vittorio Jano che lascia nel 1923 la Fiat per entrare in Alfa Romeo e sviluppare una nuova macchina, la P2, e di una pattuglia di piloti come Giuseppe Campari, Enzo Ferrari e Antonio Ascari.

Reduce da una carriera nelle gare di formula libera non sempre fortunata, Antonio Ascari, nato il 15 settembre 1888 nel Mantovano, si presenta con Campari e Sivocci al debutto nei Gran Premi internazionali dell’Alfa Romeo al Gran Premio d’Italia a Monza ma durante le prove, in quella che ora è la variante Ascari (dedicata ad Alberto il figlio di Antonio), Sivocci perde il controllo della vettura e perde la vita. La scuderia si ritira dalla gara.

Bisogna aspettare l’anno successivo per vedere l’Alfa Romeo ai nastri di partenza di un Gran Premio; la P2 viene testata in gare non ufficiali come il Circuito di Cremona dove Antonio Ascari ottiene il giro più veloce e la vittoria finale. L’esordio mondiale avviene, quindi, il 3 agosto 1924 a Lione nel Gran Premio di Francia. Antonio Ascari sembra lanciato verso una vittoria trionfale quando a 4 giri dal termine la sua Alfa inizia ad accusare problemi meccanici che lo costringono a fermarsi ad un giro dal traguardo; la vittoria va a Campari sempre su Alfa mente un’altra P2 del Biscione, quella di Wagner chiude al quarto posto. La consacrazione di Ascari arriva al Gran Premio d’Italia  dove in cinque ore di gara, il mantovano domina conquistando la vittoria con un arrivo in parata delle Alfa Romeo che occupano i tre gradini del podio con Wagner e Campari davanti alle Mercedes.

Il 1925 inizia ancora sotto la stella di Ascari e della P2 che al Gran Premio del Belgio fornisce un dimostrazione di superiorità schiacciante con Ascari e Campari nelle prime due posizioni che fa pensare che il proseguio della stagione si trasformi in un braccio di ferro tra i due alfisti. Il Gran Premio successivo si corre il 26 luglio nel nuovo circuito di Monthléry nei dintorni di Parigi e la corsa si svolge come le previsioni: le P2 vanno in testa e non trovano reale opposizione dalle avversarie e ancora una volta è Ascari il più veloce fino al ventiduesimo giro.

“Alla curva a grande raggio e in leggerissima ascesa, posta alla fine del 9° chilometro, Ascari toccò il mozzo della ruota anteriore nella inutile ed insidiosa palizzata dal colore troppo simile a quello del terreno tutto intorno. Tentò subito, l’abilissimo pilota, di raddrizzare la vettura che – per la nuova direzione – leggermente toccò con la ruota posteriore. Onde, altro lieve colpo di sterzo. E intanto, nel corso dei due secondi – tanti ne occorrono per percorrere 100 metri alla velocità presunta di 180 km/h – la staccionata divelta si era venuta ammassando davanti all’assale della macchina sicché questa…piroettava, usciva di strada, sbatteva in aria il pilota, che ricadeva – inerte – sulla pista”

(Lando Ferretti, Auto Italiana, 31 luglio 1925).

Ascari rimane a lungo disteso sul bordo della pista e nessuno è autorizzato ad avvicinarsi fino a quando, una mezz’ora dopo, arriva il medico del circuito. Adagiato sull’autoambulanza spira all’età di trentasei anni lasciando due figli tra i quali, Alberto, che vinse nel 1952 e nel 1953 il Campionato del Mondo per poi perire tragicamente in un incidente durante dei test sul circuito di Monza all’età di trentasei anni.

Massimo Brignolo