IERI & OGGI: GLI EROI DI BARCELLONA 1992

PallanuotoNel suo (emozionante) libro intitolato “Todos mis hermanos”, Manuel Estiarte dedica il primo capitolo a quella che, senza ombra di dubbio, è stata finora la più emozionante finale di una competizione di pallanuoto: quella dei Giochi olimpici di Barcellona. L’ex giocatore spagnolo, oggi insignito di un’importante carica all’interno del Barcellona, la definisce “El partido perfecto”, la partita perfetta. Non era una partita qualsiasi, quella che andò in scena il 9 agosto del 1992 alla piscina Bernart Picornell proprio il giorno della chiusura della manifestazione. Non poteva esserlo per Estiarte e per tutti i compagni di squadra catalani come lui: giocare di fronte al re Juan Carlos e al principe Felipe, ma soprattutto davanti ai loro padri, alle loro madri, a mogli, fidanzate e figli. Davanti alla loro gente. Un’occasione irripetibile.

Da pochi anni la Spagna è una nazionale emergente: un anno prima si è laureata vicecampione europea e mondiale, sconfitta in entrambe le occasioni – e con un solo gol di distacco – dalla Jugoslavia e adesso, per la prima volta, arriva a disputare una finale olimpica. Il leader è Manel Estiarte, catalano di Manresa che in Italia ha indossato le calottine di Pescara e Savona. Dall’altra parte c’è proprio l’Italia. Due paesi mediterranei le cui nazionali di pallanuoto sono guidate da allenatori balcanici: sia il croato Dragan Matutinović, coach degli iberici, sia il serbo Ratko Rudić, a caccia del terzo oro olimpico consecutivo, impongono ai loro giocatori allenamenti durissimi, al limite della sopportazione, tra corse in montagna, sollevamento pesi e nuotate con una maglietta addosso. Ma tanta fatica viene ricompensata dai risultati ottenuti sul campo, anzi, in acqua.

Il giorno della finale vi sono diciottomila persone sugli spalti: Estiarte ricostruisce nel suo libro gli attimi che precedono l’inizio della sfida. Nel tunnel che accompagna le squadre dalla piscina del riscaldamento a quella della partita regna il silenzio: si può udire solo il rumore delle ciabatte che sbattono sul pavimento con la cadenza delle lancette di un orologio. Consueta stretta di mano tra i due capitani, promesse di rito di non giocare sporco, esecuzione degli inni nazionali. Che la finale abbia inizio.

Entrambe le squadre non hanno lasciato niente di intentato, curando meticolosamente ogni singolo dettaglia. L’Italia, complice forse la tensione che gioca un brutto scherzo agli spagnoli, parte davvero forte e passa in vantaggio: Fiorillo serve a centroboa Ferretti che si libera della marcatura dell’avversario e, di sinistro, infila il pallone tra le braccia di Rollán. Chiuso in vantaggio il primo parziale, gli azzurri raddoppiano con Caldarella che trova un pertugio sul primo palo: Estiarte, su situazione di superiorità numeriche, dimezza lo svantaggio. Ma l’Italia sembra avere una marcia in più: prima Campagna segna dalla distanza con una conclusione che non lascia scampo a Rollán, poi Ferretti riceve palla a boa e, spalle alla porta, attende l’uscita del portiere spagnolo per beffarlo con una superba palombella. La difesa non concede spazi: Rudić fa giocare i suoi alla “jugoslava”, riproponendo una zona che ai Giochi di Los Angeles e Seul aveva portato i suoi frutti. La tattica intimorisce gli spagnoli, che arrivano al tiro con la paura di veder fuggire gli avversari in contropiede in caso di errore.

4-1 perl’Italia nel secondo parziale: altro che sogno olimpico, la finale in casa assume le sembianze di un incubo per la Spagna. Salvador “Chava” Gómez, centroboa degli iberici, segna poco prima dell’intervallo lungo.

Il terzo tempo si apre con una nuova rete dei padroni di casa: Pedro García conferma le sue qualità di cecchino infallibile e realizza il 3-4 con una fucilata. Il rigore di Campagna e la seconda marcatura personale di Caldarella, tuttavia, riportano a tre i gol di distacco tra Spagna ed Italia. Il pubblico, ed anche la coppia arbitrale composta dall’olandese van Dorp e dal cubano Martínez, spinge gli spagnoli verso una nuova rimonta: García è scatenato dalla linea dei 4 metri, segna ancora con una conclusione imparabile e poi, proprio a pochi secondi dal termine del tempo, supera Attolico in uscita da distanza ravvicinata. Adesso è l’Italia a doversi guardare dal sussulto d’orgoglio di Estiarte e compagni. Ferretti in superiorità numerica sigla il 7-5, ma la Spagna non si dà per sconfitta: Estiarte, che nel frattempo ha fallito un rigore, gonfia la rete dopo una serie ripetuta di finte ed infine Oca sorprende Attolico sul primo palo, regalando ai compagni l’agognato pareggio e prolungando così la sfida ai tempi supplementari.

Il regolamento prevede due mini-tempi da tre minuti ciascuno. Italiani e spagnoli non vanno per il sottile, in acqua è pallanuoto vera e non c’è spazio per i complimenti: ne farà le spese Fiorillo, espulso per aver rifilato un pugno ad Estiarte che sarà costretto a proseguire con una ferita al sopracciglio. Dopo lo 0-0 del primo supplementare, la partita sembra andare incontro ad una svolta nei 42 secondi finali del successivo: la Spagna guadagna un nuovo rigore e dai quattro metri si presenta ancora il capitano. Che decide di tirare dove non ha mai lanciato il pallone in tutta la sua carriera: in alto, a sinistra. Rete. Per la prima volta, gli iberici passano in vantaggio. Quarantadue secondi li separano da un oro olimpico che la nazionale mai ha conquistato. Scrive Estiarte: “Lo tirai male, però effettivamente colsi il portiere totalmente alla sprovvista”.

Sotto di un gol, a meno di un minuto dalla fine. Di fronte ad un pubblico per la quasi totalità “ostile”. Senza i favori della coppia arbitrale. L’Italia potrebbe sfaldarsi, adesso. Palla al centro, azione di attacco. Matutinović non ha dubbi e ordina ai suoi di giocare a pressing. Come racconta nel suo libro, Estiarte ha un presentimento: ma quale pressing, in porta abbiamo Jesús, il miglior portiere al mondo. Meglio passare a zona ed annullare così gli uomini più pericolosi come Campagna e Ferretti, pensa tra sé. Vorrebbe contraddirlo davanti a tutti, ma le gerarchie sono gerarchie e urla ai compagni di difendere a pressing. Bovo serve a centroboa un pallone alto che Ferretti gira in rete sul primo palo. Tutto questo avviene quando mancano venti secondi. Niente da fare: si va avanti. Trascorrono altri tre tempi supplementari senza reti: intanto proseguono le scintille tra i giocatori e, adesso, persino tra gli allenatori. Nessuna delle due vuol perdere, nessuna tra Italia e Spagna merita la sconfitta. Sesto tempo supplementare, manca meno di un minuto: D’Altrui porta avanti il pallone sulla destra e serve Ferretti, in posizione centrale. Il centroboa subisce fallo e, con la coda dell’occhio, vede Gandolfi smarcato sulla sinistra: Rollán esce e prova a chiudergli lo specchio, il giocatore azzurro fa passare il pallone sotto le sue braccia, nell’angolo in basso. Gol. 9-8 per l’Italia. Gandolfi esulta come se fosse un cowboy che agita un lazo nell’aria: è quello immaginario con cui l’Italia sta per accalappiare la medaglia d’oro. Mancano trentadue secondi. La Spagna ha un’ultima occasione: gli azzurri pressano incessantemente, più che una partita di pallanuoto sembra di assistere a sei finali simultanee di lotta greco-romana. Quattro secondi al termine: Estiarte subisce fallo, batte e serve Oca che tira di prima intenzione. La palla colpisce la traversa e poi ritorna sull’acqua, al di qua della linea di porta. Traversa e acqua. Non è gol. Dopo una battaglia di 46 minuti effettivi di gioco, l’Italia esulta: dopo Londra 1948 e Roma 1960, è di nuovo oro olimpico. Rudić abbraccia i suoi atleti e se la ride sotto i baffi: è appena entrato nella leggenda conquistando il terzo oro olimpico consecutivo come allenatore. Una foto, pubblicata il giorno successivo su “Mundo deportivo”, immortala Estiarte che, appoggiato ad una panchina, si copre il volto con la mano: è l’emblema del sogno spagnolo brutalmente spezzato.

Passano quattro anni e, ad Atlanta, la Spagna riesce finalmente a spezzare l’incantesimo e a vincere la medaglia d’oro. Ma resterà il rimpianto di non essere riusciti a compiere l’impresa a Barcellona, nella propria casa, davanti alle rispettive famiglie. Quel giorno doveva essere un trionfo per tutta una nazione. E invece l’Italia fece piangere il re.

9 agosto 1992

SPAGNA-ITALIA 8-9 (0-1, 2-3, 3-2, 2-1; 0-0, 1-1, 0-0, 0-0, 0-0, 0-1)

Piscina Bernart Picornell, Barcellona

SPAGNA: Rollán, Estiarte 3, Ballart, Sans, Gómez 1, Oca 1, García 3; Pedrerol, González, Michavila, Pico, Sánchez, Silvestre. All. Matutinović.

ITALIA: Attolico, Bovo, Campagna 2, Fiorillo, Francesco Porzio, Ferretti 4, Silipo; D’Altrui, Giuseppe Porzio, Caldarella 2, Pomilio, Gandolfi 1, Averaimo. All. Rudić.

ARBITRI: van Dorp (Olanda) e Martínez (Cuba).

Simone Pierotti

IERI & OGGI: IL TOUR DI MARCO PANTANI

Marco PantaniSiamo nel 1998 e Marco Pantani, dopo essere ritornato l’anno precedente alle corse dopo il terribile incidente della Milano-Torino del 1995, conquista il Giro d’Italia precedendo in classifica generale di 1’33” Tonkov e di 6’51” Giuseppe Guerini.

Il Pirata va all’assalto del Tour de France per una doppietta storica nonostante il percorso della Grande Boucle con 110 chilometri a cronometro favorisca più i suoi avversari passisti che uno scalatore puro come lui. E infatti la partenza è ad handicap: Nei 58 km a cronometro della settima tappa che arriva a Correze, Pantani perde 4’21” dal vincitore Jan Ullrich, il grande favorito dopo la vittoria dell’anno precedente. Ha perso 4 secondi e mezzo al chilometro e nella penultima giornata lo attendono altri 52 km contro l’orologio, altri 4′ di potenziale vantaggio per il tedesco. La sfida sembra persa ancora prima di essere incominciata.

La prima svolta si ha sui Pirenei nell’undicesima tappa da Luchon all’arrivo in salita di Plateau de Beille;  a pochi chilometri dall’inizio dell’ultima salita Ullrich fora e le cronache raccontano che un Pantani voglioso di dare battaglia attende il tedesco che mette alla frusta i suoi uomini per rientrare nel gruppo. Un chilometro e mezzo dopo il ricongiungimento, quando mancano 13 km alla vetta, il Pirata senza bandana parte e lo rivedranno solo all’arrivo. In vetta il romagnolo vince con un vantaggio di 1’26” su Meier, 1’33” su Julich, Boogerd, Piepoli e Rinero e 1’40” su Ullrich. In classifica generale la maglia gialla è ancora saldamente sulle spalle del tedesco che mantiene un vantaggio di 1’11” sullo statunitense Julich e 3’01” su Pantani.

Con questa situazione di classifica il Tour arriva sulle Alpi; la quindicesima tappa è la classica Grenoble – Les Deux Alpers con La Croix de Fer, il Télégraphe, il Galibier prima dell’ascesa finale a Les Deux Alpes. La giornata è da tregenda con una continua pioggia e nebbia sulle vette. Pantani attacca a 5.5km dalla sommità del Galibier e la sua progressione è incredibile: guadagna mezzo minuto al chilometro. Scollina con 2’40” di vantaggio su Ian Ullrich che in discesa dapprima recupera per poi ritrovarsi a 3’25” dal Pirata a 10 km dall’arrivo di Les Deux Alpes. A 8 km dall’arrivo l’italiano ha 4’25” sul tedesco, a 5 km 5’50”, all’arrivo saranno 8’57” a separare Pantani da Ullrich che viene scavalcato in classifica generale anche da Julich e dallo spagnolo Escartin. In classifica generale il Pirata a 3’53” di vantaggio su Julich, 4’14” su Escartin e 5’56” su Ullrich che il giorno successivo tenta il tutto per tutto nella tappa di Albertville ma non riesce a staccare Pantani.

Sabato 1 agosto arriva la cronometro da Montceau les Mines a Le Creusot: il vantaggio di 5’56” consentirebbe a Pantani di perdere 7″ al chilometro e mantenere la maglia gialla. Le cronometro di fine giro fanno storia a sè; le motivazioni e le energie rimaste contano più che la predisposizione. Ullrich vince la tappa in 1h03’52, lo statunitense Julich (che scende al terzo posto in classifica generale) per 1’01” e uno straordinario Pantani chiude la cronometro al terzo posto perdendo solo 2’35” dal tedesco.

Il 2 agosto 1998 è il giorno dell’apoteosi: Marco Pantani con pizzetto ossigenato in onore alla maglia gialla sfila per le strade di Parigi. E’ il primo italiano a vincere la Grande Boucle, 33 anni dopo Felice Gimondi, e a vincere nella stessa stagione Giro e Tour dopo Fausto Coppi, una accoppiata riuscita solo ai grandissimi del ciclismo.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: L’INCIDENTE DI NIKI LAUDA AL NÜRBURGRING

Trentaquattro anni fa, l’incidente di Niki Lauda al Nurburgring: un rogo tremendo dove il pilota austriaco si salva solo grazie all’intervento di Arturo Merzario.

Niki LaudaAndreas Nikolas “Niki” Lauda arriva in Ferrari all’inizio della stagione 1974 dopo un paio di anni di apprendistato, non decisamente fortunati, alla BRM: era la Ferrari la cui squadra corse era stata riformata intorno alla figura di un giovanissimo Luca di Monzemolo dopo un inizio deludente del decennio.

Nel 1974, Niki, alle prese con una macchina non ancora inaffidabile, vince due Gran Premi (Spagna e Olanda) ma nonostante sei pole position non riesce ad andare oltre il quarto posto nella classifica finale. Diversa è la musica nel 1975 con la nuova 312T: la stagione parte male ma nei cinque Gran Premi tra Monaco e il GP di Francia, l’austriaco ottiene 4 vittorie – una quinta arriverà in chiusura di campionato a Watkins Glen – e conquista con una gara di anticipo, di fronte al pubblico amico di Monza, il titolo mondiale riportando una Ferrari al vertice dopo la vittoria di John Surtees, 11 anni prima.

La Ferrari è decisamente superiore alle avversarie: Lauda vince quattro delle prime sei gare e conquista il secondo posto nelle altre due, una delle quali vinta dal suo compagno Regazzoni. Si arriva a fine luglio con 9 GP disputati su 16 e l’austriaco ha praticamente doppiato in classifica i suoi avversari: 61 punti per Lauda, 30 punti per Schekter, futuro ferrarista che guida una Tyrrell, e 26 punti per James Hunt e la sua McLaren.

Nelle settimane che precedono il Gran Premio di Germania sulla pista del Nürburgring, circuito di altri tempi lungo quasi 23 km con ampi tratti in mezzo alla foresta, Lauda cerca di boicottare il GP per ragioni di sicurezza (i soccorsi nel tratto centrale della pista possono arrivare solo in una decina di minuti) ma non riesce a raccogliere il consenso dei suoi colleghi. In prova James Hunt ottiene la pole position davanti a Lauda, mentre in seconda fila ci sono Depailler e Stuck.

Piove la mattina della gara, il 1 agosto 1976: alla partenza è il ferrarista Regazzoni che prende la testa superando sia Hunt che Lauda. Hunt è secondo, terzo il bravo Mass, quarto Laffite che approfitta del fatto che la March di Stuck viene esclusa dalla griglia a causa di un problema alla frizione (sebbene il tedesco parta poi effettivamente ma dall’ultima fila).  Nel primo giro Regazzoni si gira e scende al quarto posto. Al termine del primo giro, il tempo si mette definitivamente al bello e tutti vanno ai box per metter gomme slick.

Durante il terzo giro lo schianto: al chilometro 11, esattamente alla metà del percorso dove i soccorsi sono lontani, la Ferrari affronta una curva a sinistra. Le poche immagini a disposizione fanno intuire che l’austriaco tocchi il cordolo con la ruota posteriore inizando una sbandata. La Ferrari parte in testacoda, sfonda le reti e sbatte la fiancata contro una roccia rimbalzando verso il centro della carreggiata dove prende fuoco.  Arriva Guy Edwards che riesce ad evitare la Ferrari mentre Brett Lunger la centra in pieno e il fuoco aumenta di intensità. Ewards, Lunger e il sopraggiunto Ertl cercano di soccorrere Lauda, Arturo Merzario, quello che Lauda definirà “l’uomo senza il quale io non sarei qui”, si getta nelle fiamme e estrare l’austriaco dall’abitacolo.

Le condizioni di Lauda appaiono disperate: ustioni di terzo grado al volto e alla testa ma soprattutto i polmoni danneggiati dai vapori di benzina inalati per interi minuti. Lauda arriva all’ospedale di Adenau in coma e gli viene impartita l’estrema unzione. Lentamente le sue condizioni migliorano e dopo alcuni giorni l’austriaco viene dichiarato fuori pericolo anche se il suo volto porterà per sempre i segni del terribile rogo. Trentasette giorni dopo l’incidente, un recupero che ha del miracoloso, si ripresenta alla partenza del GP d’Italia dove chiude, con i bendaggi sanguinanti per lo sforzo, al quarto posto.

Ma a ventisette anni, quello che era il ragioniere del volante, aveva scoperto anche la paura: nel decisivo GP del Giappone si ritira dopo due giri di pioggia torrenziale e James Hunt può conquistare il Mondiale. Si rifarà nel 1977 conquistando il titolo nella sua ultima stagione alla Ferrari.

Massimo Brignolo

IERI & OGGI: MENNEA E’ CAMPIONE OLIMPICO

Pietro MenneaNascono sotto una cattiva stella le Olimpiadi del 1980 assegnate alla capitale sovietica Mosca: nel giorno della vigilia di Natale del 1979, l’armata sovietica aveva invaso l’Afghanistan con 50.000 soldati e 2.000 carri armati provocando una serie di ritorsioni da parte del blocco occidentale che arrivarono fino al blocco delle vendite del grano da parte degli Stati Uniti e al boicottaggio dei giochi olimpici. Nei paesi appartenenti alla NATO la decisione in merito alle Olimpiadi è particolarmente sofferta: Stati Uniti, Germania Ovest, Canada e Giappone decidono di non inviare atleti mentre in Italia si apre il dibattito. Il governo invita ufficialmente il CONI ad aderire al boicottaggio, il CONI decide di partecipare in ogni caso e si arriva al pasticcio all’italiana di una squadra dove gli atleti appartenenti ai corpi militari non ricevono il permesso di partecipare e la delegazione azzurra non viene autorizzata ad utilizzare la bandiera tricolore.

Il clima è di incertezza fino alle ultime ore prima della cerimonia di apertura e sicuramente non giova agli atleti. Tra questi vi è un Pietro Mennea ormai in piena maturità sportiva: il ventottenne barlettano è alla sua terza Olimpiade dopo la medaglia di Bronzo conquistata nei 200 metri a Monaco nel 1972 e il quarto posto di Montreal nel 1976. Alle Universiadi di Città del Messico dell’anno precedente ha stabilito il primato mondiale in 19″72 superando il record che Tommie Smith aveva stabilito sempre in Messico nel 1968.

Mennea è una corda di violino e l’incertezza preolimpica lo frena nei 100 metri dove non raggiunge la finale che sarà vinta dallo scozzese Alan Wells ma si riprende nei turni preliminari dei 200 metri. Passeggia in batteria imponendosi in 21″26, nei quarti di finale si impegna lo stretto necessario per vincere ancora in 20″60, un tempo di solo un centesimo di secondo superiore a quello fatto segnare da Wells nella batteria precedente.

Nelle semifinali, poche ore prima dell’attesa finale, i due si risparmiano: Wells si qualifica con in quarto posto in 20″76, il barlettano vince la sua batteria in 20″70 davanti al giamaicano Donald Quarrie. E si arriva alla sera del 28 luglio mentre la tensione cresce..

Poco dopo le otto di sera del 28 Luglio 1980, con una temperatura di 23°, l’umidità del 56%, il vento zero, mi presentai alla finale dei 200 metri I miei rivali erano i cubani Silvio Leonard e Osvaldo Lara, i polacchi Woronin e Dunecki, il tedesco orientale Hoff, il giamaicano Quarrie e il britannico Wells. A me toccò l’ottava corsia cioè l’ultima, a Wells la settima…”

Pietro Mennea, L’Oro di Mosca

Allo sparo, Wells parte per annullare al più presto il decalage mentre Mennea, come d’abitudine, parte più accorto per poi distendersi nella seconda parte di gara. All’ingresso nel rettilineo i giochi sembrano fatti con lo scozzese  in vantaggio di 2-3 metri che sembra distendersi meglio fino ai 50 metri e poi… “.recupera .recupera .recupera .recupera .recupera ha vinto! ha vinto! ha vinto! Pietro Mennea ha compiuto un’impresa straordinaria”. E’ la voce del compianto Paolo Rosi che segna per sempre il momento.

Mennea è incontenibile: parte dito al cielo e compie un giro, inseguito dagli addetti al protocollo e alla sicurezza.


Massimo Brignolo

IERI & OGGI: JURY CHECHI DIVENTA IL SIGNORE DEGLI ANELLI

Alle Olimpiadi di Atlanta, Jury Chechi corona il suo inseguimento e conquista la medaglia d’Oro agli Anelli, primo italiano a conquistare un’Oro nella Ginnastica dopo Franco Menichelli (Tokyo 1964).

Jury ChechiHa un conto aperto con la dea bendata, Jury Chechi quando, la sera del 28 luglio 1996 , sale sulla pedana degli Anelli per eseguire il suo esercizio nella finale agli Anelli. Nato a Prato l’11 ottobre 1969, Jury (in memoria di Jury Gagarin) inizia a praticare la Ginnastica Artistica a 7 anni. Nel 1984 a soli 15 anni entra nel giro della nazionale juniores e lascia la famiglia per trasferirsi a Varese dove la sua vita adolescente diventa la faticosa routine dei ginnasti in erba: studio e sei ore di allenamento al giorno. Non ancora diciannovenne partecipa a Seul alle sue prime Olimpiadi dove conquista la finale agli Anelli con un sesto posto e la finale del Concorso generale dove chiude al diciassettesimo posto. L’anno successivo a Stoccarda conquista la medaglia di Bronzo ai Campionati Mondiali, sempre agli Anelli, e nel 1990, a Losanna, arriva il primo titolo europeo al quale si accompagna la medaglia di Bronzo nel Concorso Generale. Si deve accontentare del Bronzo ai Mondiali del 1991 che si disputano ad Indianapolis e nel 1992 inizia il percorso di avvicinamento a quelle che devono essere le “sue” Olimpiadi conseguendo il secondo titolo europeo consecutivo (saranno quattro). Il 7 luglio 1992, a tre settimane dalle gare di Barcellona, in una banalissima routine di allenamento Jury si procura una gravissima lesione: “rottura sottocutanea del tendine d’ achille del piede destro” dice il bollettino medico, per un ginnasta è simile ad un verdetto definitivo.

Iniziano nove mesi di sofferenza: due mesi e mezzo di gesso, due e mezzo di fisioterapia, quattro di lento recupero. Dolore, tanto dolore, e la consapevolezza di non essere più competitivi negli attrezzi che richiedono esplosività nelle caviglie. Jury soffre e lavora duro e il 17 aprile 1993 conquista il suo primo totale mondiale (ne vincerà cinque consecutivi) a Birmingham: era dal 1964 che la Ginnastica italiana non arrivava così in alto, dall’Oro di Franco Menichelli a Tokyo.

Le vittorie a Mondiali ed Europei diventano festosa routine e si arriva alle Olimpiadi del Centenario, al Georgia Dome di Atlanta: al ragazzo di Prato, diventato uomo, manca solo la consacrazione olimpica. Negli esercizi per la gara a squadre che determinano gli 8 finalisti agli attrezzi, sbaraglia la concorrenza. Si qualifica per la finale con il miglior punteggio, 9.675 e 9.837, precedendo il bulgaro Jovtchev e il tedesco Wecker.

Quando la sera del 28 luglio, Jury sale sulla pedana del Georgia Dome, sa che l’asticella è posta a 9.812 punti, il risultato del rumeno Burincă e dell’ungherese Csollány. Ma lasciamo il racconto a Vittorio Zucconi, inviato di Repubblica:

Nella prima verticale le gambe sembrano tremare un poco, i piedi giunti in alto paiono pencolare un filino verso il canapo di destra, quanto basta a separare un oro da un quinto posto, in una disciplina di torturatori e di suppliziati come la ginnastica. Ecco, adesso cede, adesso molla. E’ finito il sogno per il rosso di Prato, per questo giovane di 27 anni che i giornali assetati di frasi fatte hanno già ribattezzato il “signore degli anelli”, che persino la televisione americana, indifferente ormai a qualunque atleta che non sia di apparente sesso femminile e nata nei 50 Stati Uniti, ha ammirato con qualche stupore.

Nessun “italian boy” può reggere a questi sforzi, alla disciplina infernale di un ginnasta, alla sofferenza di perdere un’Olimpiade (Barcellona) per un tallone d’Achille saltato per tornare al fronte 4 anni dopo. Noi siamo l’armata sagapò, il popolo degli spaghettari cialtroni e intonati, i buffoni del calcio che si fanno eliminare dal Ghana, non le creature fatte di filo di ferro che vincono le medaglie ginniche. Ma i fotogrammi del videoregistratore non mentono. Jury esce dalla prima verticale, volteggia, lancia la seconda, perfetta, poi si allunga nella posizione detta “a rondine” , le braccia raccolte sul torso, le gambe puntate all’indietro parallele al suolo, che avrebbe fatto piangere di invidia Torquemada.

Vittorio Zucconi, Repubblica 3o luglio 1976

“Vola vola, Jury Chechi, vola, vola verso il podio” è l’urlo liberatorio del telecronista quando Jury chiude l’esercizio con una uscita perfetta: 9.887, Chechi è il Signore degli Anelli.

Massimo Brignolo