IL MONDIALE DI GLORIA DI PATRICK STAUDACHER

La vittoria dell’azzurro Christof Innerhofer nel supergigante mondiale di Garmisch ha riportato alla memoria degli appassionati di sci alpino il trionfo iridato di Patrick Staudacher, avvenuto sulle nevi svedesi di Aare quattro anni fa esattamente nella stessa disciplina: oltretutto, questo oro datato 2007 era anche l’ultimo conquistato da un atleta italiano nella rassegna iridata, prima del gran giorno di Innerhofer.

Questi due ragazzi, al pari di Peter Fill e Werner Heel, costituiscono il “nucleo storico” delle squadre italiane per le discipline veloci, al quale si sta affiancando a suon di ottimi risultati un bel gruppo di giovani promettenti, come Dominik Paris, Siegmar Klotz e Matteo Marsaglia. Accumunati dal successo mondiale, Innerhofer e Staudacher hanno vissuto però due storie diverse: se infatti Christof era comunque dato tra i favoriti per il supergigante di martedì scorso, la vittoria di Patrick ad Aare fu una sorpresa assoluta per moltissime persone, e per questo motivo vale la pena di riviverla e di sapere qualcosa di più su questo ragazzo.

Patrick Staudacher nasce il 29 aprile 1980 a Vipiteno, figlio di Hermann e Waltraud Gogl, entrambi gestori, nella migliore tradizione altoatesina, di un’incantevole malga: la famiglia vive nel comune di Brennero, più precisamente in località Colle Isarco, nel cuore della stretta e spettacolare Val di Fleres. Proprio in questa valle, nel comprensorio di Ladurns, Patrick mette gli sci ai piedi sin dalla tenera età, incoraggiato dai genitori. Inizialmente il ragazzo si concentra sulle discipline tecniche, tanto da vincere un buon numero di gare nazionali juniores in slalom e gigante: tuttavia, una lesione subita al ginocchio lo costringe a dirottarsi sulle prove veloci, nelle quali è sostenuto anche da un fisico possente (190 cm x 94 kg) che è una caratteristica importante per ogni buon discesista. Ma lo sci non è tutto per “Staudi”, come verrà ribattezzato dai tifosi: completa comunque il ciclo di studi con la scuola superiore dello sport a Malles Venosta, segue e pratica con passione molti altri sport, in particolare il ciclismo, e si dedica con gli amici di sempre al gruppo musicale Stanton, simbolo dell’allegria alpina. Il suo destino comunque è sulla neve, e il suo idolo è il norvegese Lasse Kjus, tanto da chiamare il suo cane Lasse proprio in onore del campione nordico: nonostante qualche infortunio di troppo, nel dicembre 2000 arriva la chiamata per la Coppa del Mondo, col debutto nella discesa libera di Val d’Isere. Sebbene abbia poca esperienza nel massimo circuito, i tecnici italiani, convinti delle sue doti, lo inseriscono nella squadra partecipante ai Giochi Olimpici Invernali di Salt Lake City 2002: 18° in supergigante, Staudacher dà un primo assaggio del suo talento al grande pubblico durante la combinata, col terzo tempo di discesa e un settimo posto complessivo che lascia una buona soddisfazione. Stagione dopo stagione, arrivano i primi buoni risultati anche in gare di Coppa del Mondo, visto che, soprattutto nelle prove veloci, l’esperienza e la conoscenza delle piste sono quanto mai fondamentali per ambire a risultati di un certo livello. Ma Staudi riesce ad esprimere le sue doti solamente a sprazzi, perché, oltre ai soliti problemi alle ginocchia cristalline, è condizionato da un cheratocono all’occhio destro che gli impedisce di vedere perfettamente, e per il quale, per lunghi anni, non riesce a trovare un rimedio definitivo, fino alla coraggiosa decisione del trapianto di cornea avvenuto all’ospedale Maggiore di Bologna nella primavera 2005. Da lì, per questo forte ragazzo di Colle Isarco, iniziano le gioie agonistiche: i suoi piazzamenti in Coppa del Mondo diventano gradualmente regolari, sempre a ridosso nei primi dieci con qualche puntatina tra i migliori; spicca il quinto posto nella discesa di Bormio (dicembre 2006) che gli vale il pass per il Campionato del Mondo di Aare. Tuttavia Patrick a quei mondiali rischia di non andarci, visto che una decina di giorni prima della rassegna iridata cade in allenamento al Passo San Pellegrino con qualche danno al già martoriato ginocchio sinistro: medici, fisioterapisti e chiropratici della nazionale lo rimettono in sesto a tempo di record, così, il 6 febbraio 2007, Staudacher si presenta al via del supergigante mondiale col pettorale numero 12. Le condizioni meteo sono state molto variabili nei giorni antecedenti la gara, costringendo gli organizzatori a rinviarla ripetutamente, e l’atleta, su consiglio del suo skiman Thomas Tuti, adotta degli sci morbidi sui quali bisogna essere assolutamente perfetti per ottenere la massima efficacia. Molti conoscono il suo talento, ma quasi nessuno si aspetta l’impresa. In quel minuto e 14 secondi di gara Patrick è perfetto: porta dopo porta, disegna una traiettoria inimitabile, e la morbidezza con cui affronta le curve è da manuale dello sci. Chiude davanti, nettamente primo, con i migliori che devono ancora scendere, ma a casa i suoi familiari fiutano già l’odore della storia. Scendono i più grandi, ma nessuno riesce ad avvicinare Staudi: il più vicino è l’esperto e vincente Fritz Strobl che chiude secondo a 32/100, con l’elvetico Kernen terzo a 62/100. L’impresa è fatta: dieci anni dopo i fasti di quella squadra d’oro composta da Tomba, dalla Compagnoni e dalla Kostner, cinquantasette anni dopo il trionfo mondiale della leggenda Zeno Colò, ultimo azzurro a vincere nelle prove veloci, Patrick Staudacher è campione del mondo. A Colle Isarco si scatena la festa, con la baita di famiglia inondata da amici, conoscenti e giornalisti: tutto il paese dà il giusto tributo a questo grande e sorprendente campione. Patrick, ragazzo di montagna, non si monta la testa: continua a lavorare con la consueta umiltà, e ad ottenere risultati brillanti in Coppa del Mondo anche nelle stagioni successive, come il podio nella discesa di Val Gardena nello scorso inverno. Certo, forse Patrick non ha più sentito quelle sensazioni di gloria di quel giorno di febbraio ad Aare che lo avevano portato, la sera prima, a mimare davanti allo specchio i festeggiamenti del podio, quasi fosse certo che nulla gli avrebbe potuto togliere un clamoroso successo: ma “campione del mondo” è un’etichetta che resta per tutta la vita, indipendentemente dai risultati, dalla sfortuna o dalle altre circostanze che hanno impedito di ripetere quei fasti.

UN NUOVO FILM SU BILL JOHNSON: LA STORIA TRISTE DI UN DISCESISTA TEMERARIO

Il 30 gennaio sarà proiettato in anteprima al Film Festival di Santa Barbara “Downhill: The Bill Johnson Story”, documentario sulla vita di Bill Johnson.

Bill JohnsonQuando la fama e il successo arrivano all’improvviso, altrettanto all’improvviso possono andarsene via.” Phil Mahre, campione statunitense di sci alpino degli anni ’80, a proposito di Bill Johnson.

Un nuovo film documentario storico sportivo sta per essere presentato in prima visione domenica 30 gennaio al Film Festival di Santa Barbara, in California. Prodotto dal network statunitense di video on demand, The Sky Channel, è stato diretto dall’esordiente trentasettenne regista californiano Zeke Piestrup, che vanta anche una breve carriera di discesista a livello juniores nel proprio curriculum. Il film tratteggia la storia di una meteora dello sci alpino degli anni ’80, Bill Johnson, che negli USA visse un momento di gloria nel febbraio del 1984, quando si aggiudicò a sorpresa, primo americano della storia, la medaglia d’oro nella discesa libera, lasciandosi alle spalle campioni del calibro degli svizzeri Peter Müller e Pirmin Zurbriggen, e dell’austriaco Franz Klammer.

La sua inaspettata vittoria mandò in delirio gli sportivi statunitensi, anche se fece storcere il naso ai puristi dello sci del nostro continente, presi in contropiede da questo discesista che affrontava le curve in modo spericolato, e proprio quando sembrava perdere l’equilibrio, riusciva a rimettersi in perfetto assetto, ancora più saettante di prima. Il giorno dopo la gara, ironizzando sulla sua adolescenza difficile, durante la quale aveva conosciuto il riformatorio, un quotidiano britannico era arrivato ad intitolare: “Sarajevo: un ladro d’auto ha rubato la medaglia d’oro.

Insensibile alle frecciate, il ventitreenne Bill Johnson si sentiva trascinare dal vento del successo, e con un pizzico di cinico ottimismo, a una domanda di un giornalista sul significato della sua vittoria olimpica aveva replicato: “Vuol sapere che significa per me? Milioni. Tanti milioni.” Come personaggio aveva raccolto subito la simpatia del pubblico americano, e un anno dopo sarebbe stato realizzato un film televisivo sul suo trionfo di Sarajevo.

Ma dopo avere vinto altre due gare di coppa del mondo nelle discese di Aspen in Colorado e di Whistler Mountain in Canada nel marzo 1984, un infortunio prima al ginocchio e poi alla spalla avevano oscurato la stagione successiva. Il recupero auspicato non sarebbe avvenuto, e le sue successive apparizioni non lo avrebbero più visto nelle posizioni di alta classifica. Gli allenatori della squadra statunitense erano dell’avviso che la sua condizione di forma non era più ottimale, e quando glielo avevano rinfacciato, lo avevano fatto schiumare di rabbia. Ne era scaturito un alterco verbale che il passionale Bill aveva condito con insulti da caserma. Si stavano avvicinando i giorni delle Olimpiadi di Calgary 1988, e si era così giocato le proprie ultime chance di prendervi parte con lo squadrone a stelle e strisce.

L’anno dopo, ad appena ventinove anni, annuncia il ritiro dalla vita sportiva, ed insieme alla moglie intraprende una nuova esistenza itinerante in giro per gli Stati Uniti, con un camper che fungerà da nuova casa per quasi dieci anni. Ma passato l’entusiasmo romantico per questa avventura sulle orme dei personaggi di Kerouac, e dilapidati rapidamente i guadagni del dopo olimpiade, la coppia si troverà alle prese con gravi difficoltà economiche, e sopravvivrà di espedienti, come l’organizzazione, poi fallita, di un circo bianco di vecchie glorie dello sci, insieme ad altre sfortunate incursioni nell’imprenditoria sportiva.

A questo si aggiungerà nel 1992 la tragedia della perdita del primo dei tre figli per un incidente domestico, finché alla fine degli anni novanta Bill Johnson verrà abbandonato dalla moglie col resto della famiglia al seguito. Questa batosta gli si rivela particolarmente difficile da sopportare; e a quel punto il suo desiderio principale diventa quello di riconquistare la compagna perduta. Comincia così a balenargli nella mente un colpo ad effetto: ritornare a gareggiare nella discesa libera, possibilmente per le imminenti olimpiadi di Salt Lake City. Anche in questo caso però la realtà si rivela più complicata dei sogni; e nonostante i duri allenamenti a cui si sottopone, ormai ultraquarantenne, non riesce ad essere sufficientemente competitivo nei confronti dei più giovani e fisicamente più esuberanti avversari.

La granitica volontà di farcela è superiore alla consapevolezza dei limiti fisici, e il 22 marzo 2001, mentre scende in prova prima di una gara nel Montana perde il controllo degli sci e rovina violentemente contro un blocco di neve ghiacciata. Gli spettatori ai bordi della pista sentono un grido d’aiuto straziante e disperato. I primi soccorsi arrivano dopo pochi istanti, ma il volto dell’ex campione è già coperto dal sangue che cola copiosamente dalla bocca e da un orecchio. Il trasporto in ospedale è altrettanto puntuale, e Johnson viene operato per rimuovere una vistosa emorragia cerebrale. La sua fibra da atleta riesce a salvargli la vita, ma gli effetti dell’incidente sono devastanti: le sue facoltà cognitive sono definitivamente compromesse, e l’intera parte destra del corpo è paralizzata irreversibilmente.

Dopo cento giorni di degenza in un centro di riabilitazione, la sua assicurazione sanitaria non gli ha permesso di restare altro tempo, e viene rimandato a casa per essere affidato alle cure dell’anziana madre. La notizia del suo incidente ha colpito profondamente il mondo dello sci americano, che si è prontamente mobilitato per raccogliere i fondi necessari alla sua assistenza. In particolare l’ex campione statunitense Phil Mahre, suo amico e protagonista del documentario “Downhill: The Bill Johnson Story” insieme a Franz Klammer e a lui stesso, non ha mai smesso di impegnarsi in iniziative di beneficienza per la sua causa.

ARMIN BAUER, “FRATELLO” DI PITTIN

Armin BauerLa resistenza del fondista unita alla spericolatezza e alla coordinazione del saltatore con gli sci: sono queste le principali doti degli atleti di combinata nordica, disciplina che, come suggerisce il nome, è originaria del Profondo Nord. In Italia, questo sport viene spesso considerato tra quelli “minori”, eppure è stato proprio un combinatista, il friulano Alessandro Pittin, a regalare al nostro paese la prima medaglia negli ultimi Giochi Olimpici Invernali, con il bronzo conquistato nella prova individuale dal trampolino+10 km di fondo. Accanto al ventenne di Tolmezzo, sta crescendo una squadra giovane e sempre più competitiva: il suo corregionale Giuseppe Michielli, il trentino Davide Bresadola e i gardenesi Lukas Runggaldier ed Armin Bauer sono le punte di una selezione azzurra che, gara dopo gara, ottiene risultati via via più brillanti. Proprio Armin Bauer, ventenne finanziere di Ortisei (lo stesso paese di Isolde e Carolina Kostner), ha ottenuto cinque giorni fa il risultato più brillante della sua giovane carriera, con il dodicesimo posto sulle nevi austriache di Seefeld: anche lui protagonista alle ultime Olimpiadi, ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande per conoscerlo meglio.

Come mai, invece di dedicarti allo sci alpino, al fondo o a qualche altro sport più “tradizionale”, hai deciso di battere la strada della combinata nordica?

Beh, prima di incominciare con la combinata praticavo sci di fondo, sin dall’età di otto anni. Poi, quattro anni più tardi, l’allenatore Romed Moroder (vero guru dello sci gardenese, n.d.r.) ha avviato il progetto per creare una squadra di salto con gli sci, e ho accettato subito, unendo le due discipline.

Che cosa ha significato, per un ragazzo di vent’anni, respirare l’aria delle Olimpiadi? Come ti sentivi prima di quelle gare?

Poter partecipare ai Giochi Olimpici Invernali è stata una soddisfazione davvero grandissima. Prima delle gare ero parecchio emozionato, ma poi la voglia di divertirsi ha prevalso: mi è piaciuto proprio tanto

Come è l’ambiente in una squadra piccola come la nazionale di combinata nordica?

Il clima nella nostra squadra è molto buono, io e i miei compagni ci capiamo subito al volo e questa è una cosa che apprezzo tanto. Poi adesso c’è anche un bel gruppo di atleti giovanissimi che sta crescendo, per cui a breve non saremo più in pochi.

Quest’anno i risultati della squadra (e anche i tuoi personali) sono in miglioramento: fin dove potete arrivare tu e i tuoi compagni?

Siamo ancora giovani, è difficile fare previsioni perché dobbiamo imparare e crescere tanto, però sono sicuro di una cosa: che l’Italia, nei prossimi anni, potrà sempre contare su di noi, sulla piccola-grande squadra della combinata nordica.

Per un combinatista, qual è la gara-simbolo della stagione? Un po’ come il Tour de Ski del fondo o i Quattro Trampolini del salto…

Quest’anno saranno i Campionati del Mondo di Oslo, tra fine febbraio ed inizio marzo, a rivestire il fascino maggiore: per il resto, al nostro sport manca una gara-simbolo come i tornei che hai indicato tu o le grandi classiche dello sci alpino.

Che cosa significa praticare sport a livello agonistico, quando si è così giovani? Quali sono i tuoi hobby, quando stacchi dalle gare?

A me non pesa più di tanto, non mi dà fastidio perché faccio esattamente ciò che mi piace, lo sport della mia vita: quando sono a casa, comunque vedo sempre i miei amici ed esco con loro. In generale mi piacciono molte discipline sportive, dal ciclismo alle camminate in montagna, fino all’arrampicata e al calcio: sì, lo sport non è solo il mio lavoro, ma è anche il mio primo hobby.

In ultimo: dì qualcosa, qualunque cosa, agli appassionati di sport invernali!

Seguiteci sempre e sono sicuro che vi appassionerete alla nostra disciplina: poi chissà, magari a qualcuno verrà anche voglia di provare!

SCIARE PER DIVERTIRSI: LA STORIA (TUTTA DA SCRIVERE) DI SABRINA FANCHINI

Sabrina FanchiniTre sorelle cresciute a pane e neve: potrebbe essere questa una buona definizione per Elena, Nadia e Sabrina Fanchini (in rigoroso ordine di età). Native di Lovere, nella parte bergamasca della Val Camonica, vivono da sempre a Montecampione di Artogne, piccolo paradiso che domina la vallata bresciana. Il papà Sandro, addetto agli impianti di risalita, le mette sugli sci sin dalla tenera età, e i risultati sono immediati: le tre ragazze dominano le categorie giovanili, lasciando le briciole alle rivali.

Elena si focalizza gradualmente sulla discesa libera, e in questa disciplina, nonostante moltissimi infortuni, vince la medaglia d’argento ai Mondiali di Santa Caterina Valfurva nel 2005, oltre ad una gara di Coppa del Mondo a Lake Louise; Nadia, talento di cristallo, si aggiudica un supergigante nella magica località canadese e poi, nel 2009, il bronzo iridato in discesa libera. E Sabrina? Sabrina, classe 1988, è la più giovane, la più “piccolina”. Lotta per anni, da vera Leonessa bresciana, sulle piste della Coppa Europa, la challenge continentale dello sci alpino, sperimentando un po’ tutte le discipline. Ma un pizzico di sfortuna e alcune contestabili scelte federali, che la escludono costantemente dalle squadre nazionali, la portano a valutare seriamente l’ipotesi del ritiro, nel corso dell’estate 2010. Poteva finire così? No. Sabrina è una “Fanchini” a tutti gli effetti: testa bassa, riprende a lavorare con gli amici dello Sci Club Rongai e, in questo inverno, ottiene alcuni buoni risultati in Coppa Europa, che le valgono la convocazione per lo slalom speciale di Courchevel in Coppa del Mondo. Sabrina non spreca l’occasione: prima gara e primi punti, nonostante un numero di partenza altissimo. Stesso copione a Semmering, mentre a Zagabria e a Flachau qualche sbavatura di troppo e una fastidiosa influenza le hanno impedito di conquistare altri punti. Abbiamo avuto il piacere di sentire questa brillante ragazza, gentilissima a rispondere alle nostre domande.

Sabrina, cosa ci fa una Fanchini tra i paletti stretti dello slalom?

Mah, veramente non so neanche io cosa ci faccio tra i pali stretti! Lo slalom è sempre stata la disciplina in cui ho fatto più fatica, ma quest’anno ho trovato maggiore serenità che mi ha permesso di andar forte sin da subito in Coppa Europa, ed è andata davvero bene.

Che cosa significa avere due sorelle come Elena e Nadia? Non ti sei mai sentita “obbligata” a ripetere i loro successi?

Sicuramente è stato un vantaggio sotto molti aspetti, ma uno svantaggio per quanto riguarda altri: è vero, in certi momenti, con due “fenomeni” del genere davanti, mi sentivo quasi obbligata ad andare forte, e non è stato facile.

Quali erano i pensieri che ti passavano per la testa quest’estate? Si vociferava di un tuo ritiro dall’agonismo…

Sì, quest’estate volevo smettere: mi era passata la voglia di lottare. Ottenevo ottimi risultati in Coppa Europa e nelle gare FIS, ma sentivo attorno a me una cronica mancanza di fiducia, non venivo considerata: ma poi ho pensato a quanto mi divertivo con gli sci ai piedi e nell’atmosfera delle gare, decidendo così di continuare.

Poi però è arrivato questo dicembre d’oro: ottime cose in Coppa Europa e le prime chance, subito ben concretizzate, in Coppa del Mondo. Che sensazioni hai provato al cancelletto di partenza di Courchevel?

Questa stagione è partita davvero alla grande. Mi sono sorpresa io stessa della tranquillità che provavo a Courchevel, pochi istanti prima di partire: pensavo di essere più tesa ed agitata, invece ho vissuto la mia prima gara di Coppa del Mondo in assoluta serenità.

A parte le tue bravissime sorelle, ti ispiri a qualche altro atleta?

Ho sempre ammirato Hermann Maier, il mio vero idolo da ragazza; ma adesso, sia come personaggio che come modo di sciare, apprezzo molto Ted Ligety. É semplicemente spettacolare, e il suo dominio totale nel gigante mi fa venire voglia di imitarlo.

Adesso che ti sei guadagnata il posto in CdM, a suon di qualificazioni con numeri impossibili, che obiettivi hai per il prosieguo della stagione?

Quest’anno punto ancora prevalentemente sulla Coppa Europa; andando forte lì, potrò abbassare il mio punteggio FIS e quindi guadagnare pettorali migliori anche per la Coppa del Mondo. Ma il mio vero obiettivo é sempre quello di divertirmi!

In questo momento, cosa ti senti di dire ai tuoi tifosi e agli appassionati dello sci azzurro?

Che sono felice. Ho passato dei momenti realmente difficili, ma adesso finalmente sto bene. Penso solo a divertirmi…e, se mi diverto, è anche facile andare il più forte possibile e dare tutto in ogni circostanza.

DALL’ARGENTINA CON FURORE

Christian Javier Simari Birkner racconta l’insolita carriera di uno sciatore argentino.

Cristian Javier Simari Birkner, 31 anni, professione sciatore. Apparentemente non c’è nulla di strano: centinaia  sono gli atleti che praticano questo sport a livello agonistico. Ma la particolarità è che il ragazzo in questione è originario di una terra che certo, nell’immaginario collettivo, non viene mai affiancata allo sci alpino: l’Argentina. E con lui ci sono due sorelle, Macarena e Maria Belén, anch’esse presenze fisse nel Circo Bianco, senza perdersi un’edizione del Mondiale o dei Giochi Olimpici. Anche una terza sorella, la giovanissima Angelica, è in procinto di debuttare tra i big.

I Simari Birkner, famiglia di sciatori: che effetto fa rappresentare l’Argentina nel mondo con questo sport?

«Lo sci mi ha dato tutto, e dunque secondo me la cosa più importante non è tanto rappresentare il mio Paese in giro per il mondo, ma poter fare quello che più mi piace. E farlo bene. Certo che se non fosse stato per la mia famiglia, non avrei mai potuto arrivare a questi livelli».

Come mai hai scelto di praticare questo sport a livello agonistico? In Argentina non è certo la disciplina più popolare, sebbene non manchino le montagne.

«Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di sportivi, quasi tutti sciatori: i miei zii hanno partecipato anche ad un’edizione dei Giochi Olimpici e a più Campionati del Mondo. Da ragazzo vivevo le gare dei miei parenti molto da vicino, ma penso che la decisione definitiva di impegnarmi agonisticamente in questo sport l’ho presa vedendo meglio l’ambiente dello sci alpino, andando per dieci anni a Madonna di Campiglio a veder correre Tomba, Girardelli e gli altri campioni, svegliandomi alle quattro del mattino solo per poter arrivare sulla “3 Tre” (la pista di Madonna di Campiglio, ndr) per guardare le gare. È grazie a queste cose che ho capito di non volermi limitare ad osservare, ma di voler partecipare anch’io direttamente».

Chi è lo sciatore che ti ha fatto innamorare di questo sport? E adesso, chi stimi maggiormente?

«Come persona, e come atleta, ammiravo tantissimo Marc Girardelli: secondo me è riuscito a cambiare lo sci, a migliorarlo, e il fatto che lui corresse per il Lussemburgo praticamente da solo, con suo padre ed un gruppo di allenatori, si avvicina anche alla mia esperienza personale. Adesso lo sci è ancora diverso da prima, c’è maggiore equilibrio e quindi penso che ogni atleta della Coppa del Mondo meriti il mio rispetto e la mia stima».

Obiettivi per questa stagione? Anche se la tua è già iniziata d’estate, con una buona serie di vittorie nella South American Cup.

«Il primo obiettivo era rivincere la South American Cup e ce l’ho fatta: adesso sto recuperando da una piccola lesione al ginocchio sinistro rimediata durante la discesa di Chillan, e dunque spero di essere in forma per i primi di dicembre, in modo da poter gareggiare in Coppa del Mondo, Coppa Europa e North American Cup, preparandomi al meglio per il Campionato del Mondo di Garmisch-Partenkirchen».

Sei un atleta polivalente, gareggi dallo slalom alla discesa: qual è la tua disciplina preferita? E su che genere di tracciato ti trovi meglio?

«La specialità che mi piace maggiormente è il gigante, è anche quella in cui sono più allenato. Come tracciati, preferisco quelli duri, con delle pendenze davvero aspre, per cui mi trovo davvero benissimo sulla Podkoren di Kranjska Gora e in Val d’Isere».

6)Quali sono state la tua maggiore soddisfazione e la tua peggiore delusione in questa prima parte di carriera?

«La mia delusione più grande è quella di non essere ancora riuscito a chiudere nei 30 una gara di Coppa del Mondo: una volta sono uscito nella seconda manche a Kranjska Gora, dove oltretutto stavo facendo davvero bene. Ricordo con rammarico anche il Campionato del Mondo del 2001, a Sankt Anton: ero al nono posto dopo la prima manche dello slalom della combinata, e stavo scendendo come un pazzo nella seconda, prima di commettere un grave errore a sette porte dalla fine, compromettendomi la gara. La maggiore soddisfazione la lego invece ai Mondiali di Sankt Moritz di due anni dopo: ero ventiseiesimo e già contento dopo la prima prova del gigante, ma poi nella seconda mi sono scatenato realizzando il quarto tempo parziale e chiudendo al diciassettesimo posto complessivo, davanti a grandi atleti come Lasse Kjus e Christian Mayer».

Quali sono i tuoi hobby? Sei molto attivo su Facebook…

«Adoro la natura, andare a cavallo e in bicicletta, mi piace stare, quando posso, nella mia Argentina, magari mangiando un bel piatto di asado (un arrosto tipicamente sudamericano, ndr). In generale, prediligo le attività all’aria aperta, anche se ammetto che con tutti i viaggi e il tempo da trascorrere nei vari hotel utilizzo spesso il computer, che mi permette di comunicare con il mondo in ogni momento».

Ultima domanda: oltre a Cristian, Macarena e Maria Belén, c’è qualche altro sciatore argentino che può fare strada?

«Io credo dì sì. In Argentina abbiamo molti sportivi di livello mondiale, anche se in generale manca sempre una buona organizzazione. Spero quindi che si sviluppi una struttura migliore, in grado di permettere ai vari atleti di esprimere appieno il loro talento. Inoltre, penso anche che l’attuale sistema della Coppa del Mondo di sci non sia perfetto per le realtà minori: le gare si fanno solo in poche nazioni, e nelle seconde manche degli slalom e dei giganti partecipano solo trenta atleti, spesso solo austriaci, italiani, svizzeri e francesi. Questo secondo me non aiuta i paesi più giovani da un punto di vista sciistico che avrebbero bisogno di maggiore spazio, anche se resto convinto che l’Argentina abbia grandi potenzialità».

Marco Regazzoni