FABIANO FONTANELLI, VELOCE E FURBO

Fabio FontanelliNelle stagioni d’oro di Marco Pantani, al centro del gruppo c’era sempre una “chiazza gialla”: era il Pirata con i suoi uomini della Mercatone Uno, presenza fissa nel plotone di quegli anni. Fabiano Fontanelli faceva parte di quella squadra, ma sarebbe riduttivo descrivere il corridore nato a Faenza nell’aprile di 46 anni fa come un gregario duro e puro. In quindici anni di onorata carriera il “Fonta” ha infatti portato a casa qualcosa come 37 vittorie, tra le quali spiccano quattro tappe al Giro d’Italia. Negli anni del fortunato sodalizio con Pantani, le sue doti di passista-veloce tornavano molto utili alla causa della Mercatone Uno: nelle stagioni precedenti invece, con le divise di Selca, Italbonifica, Navigare, ZG Mobili ed MG, spesso Fontanelli rivestiva i gradi di capitano e battagliava nelle volate di gruppo con Zabel, Cipollini e gli altri grandi sprinter dell’epoca, non disdegnando qualche coraggioso tentativo nelle grandi classiche del Nord. Sceso di sella a fine 2003, per un paio di stagioni ha diretto dall’ammiraglia la Ceramiche Panaria, la storica squadra guidata da Bruno e Roberto Reverberi, prima di staccare definitivamente la spina col ciclismo professionistico. Abbiamo avuto il piacere di sentirlo e di farci raccontare alcuni aneddoti della sua brillante carriera.

Fabiano Fontanelli, 37 successi in 15 anni di carriera: qual è quello che ricordi con maggior soddisfazione?

Sicuramente il mio primo successo al Giro d’Italia: era l’undicesima tappa dell’edizione 1993, col traguardo a Dozza, nella “mia” Romagna, davanti ai miei tifosi. Vincere praticamente in casa è stata davvero una grande gioia.

E invece, ripercorrendo tutte quelle annate, qual è il rammarico più grande?

Credo di aver fatto una bella carriera, per cui non ho grossi rimpianti: certo, sarebbe stato bello vincere una delle grandi classiche, però quella…è roba da campioni!

È normale che il tuo nome, data la lunga militanza in Mercatone Uno, sia associato a quello di Pantani: che ricordo hai di lui?

Non credo che il mio nome sia sempre e solo associato a quello di Marco, anche se, avendo corso con lui negli ultimi cinque anni di carriera, un po’ ci sta: era proprio un bel personaggio, che aveva la sua forza nella semplicità, e credo fosse questo il motivo per cui piaceva così tanto agli appassionati.

In diverse occasioni ti abbiamo visto lanciato anche negli sprint di gruppo: non bisogna essere un po’ “pazzi” per fare una volata a 70 km/h?

Eh sì, bisogna essere un po’ pazzi, non c’è che dire. Io comunque ho fatto poche volate di gruppo, quasi tutte nei primi anni di carriera: mi rendevo conto di essere veloce, ma non così tanto da mettere in fila duecento corridori. Per questa ragione, ho gradualmente cambiato il mio modo di correre, cercando di portar via una fuga già a parecchi chilometri dal traguardo per regolare i compagni di avventura allo sprint finale, sfruttando la mia rapidità. Veloce sì, ma anche furbo!

Come valuti la tua esperienza da direttore sportivo con la Ceramiche Panaria? Come mai non è proseguita?

E’ stata indubbiamente una bella esperienza, ma alla fine avevo dei problemi di salute ed ero anche stanco di star sempre via da casa: dopo 15 anni in gruppo, non sarei riuscito a farne altrettanti in ammiraglia, era davvero un grande impegno. Oggi seguo dei dilettanti (fa parte della Commissione Tecnica federale dell’Emilia-Romagna, ndr), lavoro un po’ meno impegnativo ma che mi permette anche di stare al contatto con i giovani, e questo è gratificante.

Cosa pensi del problema-doping nel mondo del ciclismo?

È assolutamente fondamentale combattere il doping con la massima serietà, ma a volte ho l’impressione che nel ciclismo ne sia stata fatta quasi una questione “politica”, che preferisco non commentare perché esula dalle mie capacità di comprensione.

PASSARETTI: “CREDO ANCORA NELLA NAZIONALE”

Il wicket-keeper della PGS Lux si racconta, tra i ricordi di inizio carriera ed il sogno azzurro non ancora accantonato.

Gabriele Passaretti, romano, 29 anni, è senza dubbio il miglior wicket-keeper di scuola italiana emerso negli ultimi quindici anni. Dopo essere stato premiato nel 2004 come miglior giocatore del torneo, in occasione dei Campionati Europei division II, non ha però più vestito la maglia azzurra in partite ufficiali, chiuso dall’italo-sudafricano Nicholas Northcote. Oggi gioca nel campionato italiano di serie A nella PGS Lux e non accantona del tutto il sogno della Nazionale.

Gabriele, com’è che un romano si avvicina al cricket?

“Fino a 14 anni giocavo a calcio nelle giovanili della Lodigiani (oggi Atletico Roma, ndr). Poi, dopo un infortunio al menisco, ho cominciato a giocare meno e a stufarmi dell’ambiente. È stato Ivan Sarnelli, amico di famiglia e attuale compagno di squadra, ad avvicinarmi a questo bellissimo sport. Un’estate in Inghilterra sono finito quasi per caso in campo, senza capirci un granché: l’anno dopo ero già ad allenarmi nelle giovanili della Lazio”.

Parlaci un po’ dei tuoi primi anni nella Lazio.

“Gli allenatori erano Manlio De Amicis e  Punya “Kary” Kariwasam, due persone che hanno contribuito moltissimo alla mia crescita. Ricordo che fin dai primissimi giorni Kary  mi disse “Mettiti i guanti che tu devi fare il wicket-keeper”: nel cricket il wicket-keeper è il giocatore che, mentre la sua squadra lancia, sta alle spalle del battitore avversario, una sorta di ricevitore. Le soddisfazioni arrivarono subito e l’anno successivo, ancora ragazzetto, entrai in punta di piedi in prima squadra come ultimo battitore. Da undicesimo ho poi cominciato a risalire l’ordine di battuta, continuando a migliorare il mio gioco, anche perché ero in squadra con degli autentici fuoriclasse”.

Non c’è stata solo la Lazio, però, nella tua carriera?

“No, infatti, dopo gli anni alla Lazio ho passato un biennio alla Roma come capitano, seguito da due anni al Pianoro dove ho vinto lo scudetto e la coppa Italia. Dopo la parentesi Bolognese però sono tornato a Roma con il Gallicano e, a seguito del fallimento della società, sono approdato alla Pgs Lux”.

L’esperienza più bella?

“Senza dubbio l’Australia: nel 2002 andai per tre mesi in Tasmania, a Hobart. Ho fatto davvero un importante salto di qualità. La sveglia era alle 7: piscina palestra e dopo la pausa, ben cinque ore di allenamento”.

L’azzurro arrivò di conseguenza?

“No, avevo già fatto tante manifestazioni internazionali, anche come capitano, con le nazionali juniores e da due anni partecipavo ad alcune di quelle della nazionale maggiore. Era bellissimo perché ci permetteva di viaggiare in tutta la Gran Bretagna e in tutta Europa, anche se molte volte finivamo in zone davvero disperse. Tra l’altro anche Manlio con la Lazio organizzò molte volte dei tour inglesi in cui soggiornavamo in una Club House accanto ai nonni di Ivan e Dylan Sarinelli. In nazionale maggiore arrivai quando era ancora allenata dal grande Doug Ferguson: pur giocando alle spalle di un mostro sacro come Kamal Kariwasam, fratello di Kary, riuscivo comunque a ritagliarmi lo spazio in qualche partita”.

Arriviamo al 2004, il tuo anno magico.

“Mi convocarono per l’Europeo in Belgio come wicket-keeper titolare: giocai tutte le partite, vincemmo, fummo promossi e fui eletto miglior giocatore del torneo, riuscendo a fare dei record importanti per l’Italia e per un giocatore italiano. Tuttavi,a la bellezza del ricordo contrasta con l’amarezza di aver perso la maglia azzurra. L’arrivo degli oriundi mi ha chiuso le porte, però io alla nazionale ci credo e ci voglio credere. Purtroppo, migliorare il proprio gioco in Italia è molto difficile”.

Come concili la vita privata e il cricket?

“Non è sempre facile, c’è anche il lavoro in albergo e l’università, dove studio architettura. Poi, oltre agli allenamenti, mi dedico anche i giovani. Sostanzialmente è la passione che mi fa andare avanti, anche se il livello del campionato italiano di cricket non è così elevato. Poiché le partite in stagione sono poche, cerchiamo di organizzare anche altri incontri. Giocare a cricket è bellissimo però senza nazionale è un po’ più difficile trovare sempre gli stimoli”.

Passiamo al campionato. Come valuti la stagione della Pgs Lux?

“Essendo neopromossi e al primo anno in serie A, l’obiettivo era quello di non arrivare ultimi. Ce l’abbiamo fatta, la quota che ci eravamo prefissati era 100 punti e abbiamo chiuso con uno in più. Diciamo che in generale siamo soddisfatti”.

Nel 2010 chi sono i giocatori che ti hanno maggiormente impressionato?

“Dylan Sarnelli ha dimostrato di essere un buon lanciatore. Ha solo 19 anni e come fast bowler è forse il lanciatore di scuola italiana più forte in circolazione, anche se come tecnica ed esperienza c’è sempre uno come Edoardo Gallo che, pur allenandosi pochissimo, riesce comunque a esprimersi ad altissimi livelli”.

E fra gli avversari?

“Non lo so, non c’è un giocatore che gioca in Italia che ammiro particolarmente. I più forti sono sempre i soliti Hemanta Jayasena, Aklak Qureshi  o Crawley che è venuto quest’anno in Italia per poter giocare in nazionale”.

MALEDETTI TOSCANI

A Firenze un’amichevole tra squadre femminili finisce con una giocatrice ricoverata per una frattura della mandibola. Per la pallanuoto una pessima pubblicità.

Se, pur per pochi anni, Firenze fu la capitale dell’Italia unificata, le recenti cronache hanno fatto del capoluogo toscano un punto nevralgico della pallanuoto nazionale, tanto nel bene quanto nel male. Prima l’inizio della crisi della Fiorentina Waterpolo, un’istituzione in campo femminile, poi l’importante assegnazione della Super Final della World League maschile e lo sfogo su La Repubblica del santone Gianni De Magistris, cui ha fatto seguito dopo pochi giorni il suo ritorno alla guida della Fiorentina. E, infine, un episodio non certo ascrivibile alle cronache sportive, accaduto una settimana fa.

È un tranquillo pomeriggio, a Firenze. In piscina, per una partita di allenamento, si affrontano la Fiorentina Waterpolo e la Firenze Pallanuoto: tutto nella norma. Fino a quando non entrano in contatto Lucia Recupero, difensore della Fiorentina, e l’avversaria Giulia Bartolini, più volte pizzicate a farsi reciproche scorrettezze: è quest’ultima a farne le spese, uscendo dall’impianto con una frattura alla mandibola tanto da dover essere sottoposta ad un’operazione. Stando alla versione della giocatrice livornese, si sarebbe trattato di un banale scontro di gioco: lei avrebbe tagliato la strada alla Bartolini, tentando una controfuga, e l’avrebbe involontariamente colpita con il gomito. Diversa, invece, la successione dei fatti ricostruita dalla Firenze Pallanuoto in un comunicato stampa: la Recupero avrebbe volontariamente sferrato un pugno alla Bartolini, ad amichevole già terminata, ed avrebbe addirittura proseguito se non fosse stata fermata da alcune giocatrici della Firenze.

Senza entrare nel merito della questione e, soprattutto, senza prendere le difese dell’una piuttosto che dell’altra, partiamo da un’amara constatazione. E cioè le (inevitabili) polemiche seguite alla vicenda: «Non ho mai visto un fatto così deplorevole e spaventoso e una frattura così brutta in trent’anni nel mondo della pallanuoto» (Cipriano Catellacci, presidente della Firenze Pallanuoto);  «Visto il comunicato stampa della Firenze Pallanuoto, comprendendo il clima nel quale è stato redatto, siamo obbligati a precisare quanto raccolto dalle testimonianze di alcune atlete e di un tecnico, dalle quali si evince che la partita di allenamento era ancora in corso e sospesa solo per l’incidente, che oltre al fatto citato, non sono stati dati ulteriori pugni da parte di Recupero, né nessuna delle ragazze in acqua è intervenuta per fermare la Recupero che era già ferma dopo l’unica azione contro la Bartolini» (Sandra Del Corona, presidente della Fiorentina Waterpolo);  «Non vorrei, ma viene da pensar male sulla volontarietà del gesto. Anche perché ho saputo che la ragazza non è nuova a episodi del genere» (la madre di Giulia Bartolini); «Si è trattato di un incidente di gioco e non era mia intenzione procurare danni a Giulia Bartolini; infine vorrei precisare che in dieci anni di campionati federali non sono mai stata squalificata per gioco violento e/o brutalità» (Lucia Recupero).

Ognuno si fa portavoce di una verità. La sua. Ma qui le certezze sono due. La prima è che la Bartolini si è ritrovata con una mandibola rotta e rischia di finire qui la sua stagione agonistica: difficile non augurarle di riprendersi in fretta. La seconda è che questo spiacevole episodio è avvenuto a margine di una semplice amichevole. Non è certo di questa pubblicità che ha bisogno la pallanuoto, già di per sé in preda ad una crisi d’immagine da cui uscire diventa sempre più difficile. No, non lo è. Per niente.

CROKE PARK: LO SPORT STRANIERO E IL VECCHIO NEMICO

Croke Park, centenario tempio irlandese degli sport gaelici, solo nel 2007 ospita il primo evento di uno sport di origine inglese, il Rugby.

RugbyIl 24 febbraio 2007 verrà ricordato come una giornata storica negli annali del rugby. Il pomeriggio rugbistico era iniziato da soli 7 minuti e l’Italia conduceva per 21-0 contro la Scozia a Edinburgo, pronta a strappare la sua prima vittoria esterna nel Sei Nazioni. Mentre gli italiani, ebbri di gioia, festeggiavano la vittoria, a Dublino gli Irlandesi si preparavano ad accogliere la nazionale inglese di rugby a Croke Park. In Irlanda (come anche in Scozia e Galles), gli inglesi sono da sempre chiamati the old enemy, il vecchio nemico, e a Croke Park il rugby è the foreign game, lo sport straniero. Mai come stavolta, però, il legame tra Irlanda, Croke Park, sport straniero e vecchio nemico è stato così stretto. A Croke Park, lo sport straniero non era il benvenuto fino a qualche mese prima quando, vista la necessità di abbattere Lansdowne Road e costruire uno stadio nuovo al suo posto, la nazionale irlandese di rugby chiese ospitalità alla GAA, la federazione degli sport gaelici. La GAA si è trovata di fronte a una decisione epocale. Primo, perché far giocare lo sport straniero nei propri campi avrebbe significato dover cambiare lo statuto stesso della GAA. Secondo, perché far giocare il Sei Nazioni a Croke Park avrebbe significato far giocare il vecchio nemico nel tempio del nazionalismo irlandese, quello stadio già violato, poco sportivamente, dagli inglesi.

Era il 21 novembre 1920. L’aria che tirava a Dublino era tesa: su ordine di Michael Collins, l’IRA aveva ucciso 14 uomini dell’intelligence britannica nei loro appartamenti. Erano uomini della Cairo Gang, una squadra che doveva infiltrarsi nell’organizzazione di Collins. La leggenda vuole che gli inglesi, affamati di vendetta, avessero lanciato una moneta per decidere con quale atto di rappresaglia punire l’attentato dell’IRA. Testa, saccheggio di Sackville Street. Croce, strage a Croke Park. Al Croker, nonostante la tensione palpabile, c’erano diecimila persone. La squadra di football gaelico di Dublino affrontava i rivali di Tipperary. Il match era cominciato da pochi minuti quando i Black and Tans irruppero sul rettangolo di gioco. Croce. I Black and Tans, le feroci forze speciali impiegate dall’esercito britannico in irlanda, aprirono il fuoco sulla folla. I giocatori fuggirono dal campo, lasciando a terra due giocatori: Jim Egan e Michael Hogan. Il primo, solo ferito, sopravvisse, mentre i colpi che crivellarono Hogan si rivelarono mortali. Tra le vittime dell’efferata violenza del vecchio nemico ci furono anche tre ragazzi di 10, 11 e 14 anni e una donna che si sarebbe dovuta sposare cinque giorni dopo, andata ad assistere alla partita con il futuro marito.

C’è da immaginarsi perché dall’alto della Hogan Stand, la curva del Croke Park dedicata al giocatore morto sul campo quel giorno, il vecchio nemico fosse tutt’altro che benvenuto. L’affronto degli inglesi aveva colpito lo spirito nazionale irlandese al cuore. Vari passi dello statuto della GAA parlano di identità nazionale e di un’Irlanda a 32 contee: sia le 26 della Repubblica sia le sei tuttora facenti parte del Regno Unito. Su quello statuto crebbero le lapidi del massacro del 1920: l’articolo 21 e l’articolo 42. L’articolo 21 vietava a chiunque fosse arruolato nelle truppe britanniche o nella polizia nordirlandese di prendere parte alle attività sportive organizzate dalla GAA. L’articolo 42 bandiva gli sport britannici dagli impianti GAA, come il Croke Park. Sport britannici come calcio e rugby. Lo sport straniero.

Quando gli inglesi si presentano sull’erba del Croke Park, l’atterraggio dello sport straniero nel maestoso stadio dublinese è già avvenuto da due settimane: una sconfitta maturata all’ultimo minuto contro la Francia, in quella che molti definiscono la finale del Sei Nazioni, di fronte a più di ottantamila spettatori. Lansdowne Road ha chiuso i battenti da poco più di un mese, l’ultimo giorno del 2006. La nazionale irlandese, senza più una casa, chiede ospitalità al Croke Park e la GAA fa passare una mozione, per 227 voti contro 97. L’articolo 42 viene temporaneamente sospeso, e lo sport straniero viene ammesso al Páirc an Chrócaigh fino al 2008. Dietro al voto, la lotta immane tra i conservatori, che vogliono mantenere gli sport gaelici esclusivo appannaggio dell’identità irlandese, e i progressisti, che si battono perché i giochi della GAA entrino nel terzo millennio, diventando a tutti gli effetti uno sport moderno.

I conservatori storcono tutti il naso quando la palla ovale si stacca dal piede di David Skrela, l’apertura francese, per decollare per la prima volta nel cielo del Croke Park, ma si mordono la lingua. Non riescono invece a trattenersi quando scoprono che gli inglesi invaderanno di nuovo il campo, armati di 22 tra i loro migliori rugbisti e dell’inno nazionale, l’odiato God Save the Queen. Gli eredi del sei volte campione d’Irlanda Joe Barrett annunciano che, in segno di protesta, ritireranno le sue medaglie dal museo del Croke Park. Il Republican Sinn Féin invece proclama una manifestazione contro God Save the Queen nei pressi dello stadio, sperando di ispirare la folla a fischiare l’inno invasore e causando il rinforzo della sicurezza di Croke Park da parte della polizia, preoccupata da eventuali tafferugli. Nel frattempo arrivano gli appelli dell’Arcivescovo di Cashel, membro del consiglio GAA, e di Eddie O’Sullivan, coach della nazionale irlandese di rugby. L’Arcivescovo spiega come sia logico che a Croke Park si debba rispettare il medesimo protocollo che si sarebbe rispettato a Lansdowne Road, mentre O’Sullivan dichiara che, come gli irlandesi esigono rispetto per il proprio inno e per la propria nazione, debbono essere i primi a mostrare quello stesso rispetto verso qualsiasi altro inno e nazione. O’Sullivan ricorda anche che God Save the Queen è stata cantata in un’occasione precedente alle Special Olympics, i giochi riservati ad atleti con disabilità intellettuale, senza causare alcuna polemica.

Il vecchio nemico ormai è sul tappeto rosso, una delle tante parti di quel protocollo pre-match così lento, studiato e snervante che caratterizza ogni partita della nazionale irlandese di rugby. Su quel tappeto, al Lansdowne Road, gli inglesi suscitarono parecchie polemiche quando, nel 2003, impedirono al Presidente della Repubblica d’Irlanda di passare, violando il protocollo ufficiale. Il Presidente è ancora lo stesso – Mary McAleese, famiglia nordirlandese – e stringe le mani dei giocatori. Prima dei 22 inglesi; poi, accompagnata da capitan Brian O’Driscoll, dei 22 irlandesi. Il protocollo prevede che la McAleese riprenda il suo posto in tribuna d’onore prima che la banda inizi con gli inni. Un protocollo di una lentezza estenuante, quasi fosse pensato per far salire la tensione e far percorrere lo stadio da un brivido: il vecchio nemico è venuto a giocare lo sport straniero sul campo della Bloody Sunday, e sta per cantare il suo inno. Qualcuno ha brividi di raccapriccio, qualcuno teme le rimostranze del Republican Sinn Féin, altri si godono il momento: la folla non fiata e gli inglesi cantano l’inno con orgoglio e convinzione. Gli irlandesi rispondono, prima con Amhrán na bhFiann, l’inno della Repubblica, poi con Ireland’s Call, l’inno della nazionale di rugby irlandese. Inno della nazionale che è riuscita a unire le 32 contee. Dopo che i verdi hanno urlato l’ultimo “We’ll answer Ireland’s call”, la storia si fa da parte e cede il passo al rugby. Gli irlandesi, quando scendono in campo, hanno sempre qualcosa da dire. I greens lasciano tutti a bocca aperta: un’intensità di gioco e una determinazione offensiva fuori dal comune li portano a stravincere: 43-13. Sono evidentemente parecchie le cose da dire stavolta, serbate per gli 80 minuti in cui i greens infliggono all’Inghilterra la sua peggiore sconfitta in 130 anni di Torneo.

LA LEGGENDA DI LANSDOWNE ROAD

I centotrentanni di storia del Lansdowne Road, lo storico stadio di rugby di Dublino, abbattuto nel 2006 per far posto a un impianto più moderno.

Lansdowne RoadIl 31 dicembre 2006, Dublino ha detto addio a un simbolo della città: il Lansdowne Road, lo stadio che ospitava le nazionali irlandesi di calcio e rugby. Uno stadio vecchio oltre 130 anni, costruito interamente in legno, quasi a dargli le sembianze di uno scrigno zeppo di aneddoti e impregnato di storia. Lo scrigno è stato raso al suolo per lasciare spazio a un più moderno all-seater, l’Aviva Stadium, sul quale si sono abbattuti gli strali degli amanti della tradizione sportiva e quelli delle commissioni edilizie, alcune delle quali sostenevano che il nuovo stadio avrebbe deturpato l’ambiente del quartiere di Ballsbridge, Dublin 4. La ristrutturazione si era fatta urgente quando nel novembre 2005 un incendio aveva reso inagibile il North Terrace la notte prima di un importante incontro tra la nazionale di rugby e i temibili All Blacks, la nazionale neozelandese. La squadra irlandese ha dato il proprio addio all’impianto con una serie di vittorie illustri contro Sudafrica, Australia e Pacific Islanders nei test-match di novembre del 2006.

Lansdowne Road ha ospitato diversi eventi di rilievo, oltre alle partite delle rappresentative nazionali di calcio e rugby e alle finali della FAI Cup, la Coppa Irlanda di calcio. Sono state disputate al Lansdowne Road le finali di Heineken Cup (la maggior competizione rugbistica europea per club) del 1999 e del 2003, e nello stadio hanno tenuto concerti artisti del calibro di U2, Oasis, Eagles e Red Hot Chili Peppers.

Bóthar Lansdún (questo il nome dell’impianto in gaelico) vanta il titolo di stadio di rugby più vecchio del mondo e apre nel 1872, quando Henry William Dunlop, proprietario di 28 ettari tra il fiume Dodder e la stazione ferroviaria di Lansdowne, fonda il Lansdowne Rugby Club. Dunlop lascia il terreno alla squadra come campo da gioco e concede ospitalità anche a una squadra di calcio, i Dublin Wanderers FC. Per rifarsi delle spese nel 1878 Dunlop affitta il campo per la prima Irlanda-Inghilterra della storia al prezzo, allora salatissimo, di 5 sterline. Ha così inizio la leggenda, continuata quando nel 1904 l’IRFU acquista l’impianto, iniziando nel 1908 a costruire il vero e proprio stadio, che oggi conta 49250 posti.

Come per ogni stadio, non sono tanto le assi di legno o i pali o le zolle del campo a rendere Lansdowne Road leggendario. Certo, la presenza dei binari della DART (la linea urbana di Dublino) che passano sotto il West Upper Stand aiuta a dare un sapore tutto particolare al tempio del rugby irlandese. Però sono le lacrime, le gocce di birra e il sudore di spettatori e giocatori a costruire la leggenda. E nel caso di Lansdowne Road sono i canti dei supporters, sempre pronti a intonare la ballata tradizionale Fields of Athenry quando la propria squadra è in difficoltà, come anche ad applaudire una bella giocata degli avversari. Per creare una leggenda ci vogliono anche dei riti, come quel protocollo ufficiale pre-partita che prevede che il Presidente della Repubblica passi su un tappeto rosso a stringere le mani dei giocatori. Nel 2003 gli inglesi impedirono alla Presidente Mary McAleese di passare sul tappeto, costringendola a camminare sull’erba. Lo stadio si alzò e intonò Fields of Athenry con orgoglio, riuscendo perfino ad intimidire gli inglesi. Per creare quel sapore epico, poi, ci sono anche quei due inni cantati l’uno a ridosso dell’altro: prima A Soldier’s Song (Amhrán na bhFiann), inno della nazione ospitante, la Repubblica Irlandese; poi Ireland’s Call, inno scritto appositamente per la nazionale di rugby, per rappresentare sia i giocatori della Repubblica, sia quelli provenienti dall’Irlanda del Nord.

Uno scrigno di aneddoti, di leggende e di storia, dicevamo. Come quando nell’agosto 1914, all’indomani della discesa in campo del Regno Unito nella Prima Guerra Mondiale, centinaia di rugbisti si ritrovarono all’interno dello stadio e decisero di arruolarsi nei Royal Dublin Fusiliers come Pals Battalion. I Pals Battalion erano uno stratagemma inventato da sir Henry Rawlinson per incoraggiare gli arruolamenti: si trattava di speciali battaglioni formati localmente, di modo che i soldati non fossero costretti a combattere a fianco di perfetti sconosciuti. O come quando nel 1927 fu costruito l’East Stand: per via di alcuni ritardi nei lavori, la copertura dello Stand non fu eretta in tempo per il match contro la Scozia, ricordato per la pioggia torrenziale in cui fu disputato.

Nel 1929, quando lo stadio non aveva ancora raggiunto la capienza odierna, Lansdowne Road accolse 40mila spettatori per una partita contro la Scozia. I quarantamila, troppi per la capienza dell’impianto, si assieparono attorno al campo, impedendo al trequarti irlandese Jack Arigho, andato in meta, di schiacciare l’ovale in mezzo ai pali: l’area di meta era invasa da spettatori in festa; nello stesso match l’arbitro Cumberledge annullò la marcatura del trequarti ala Rowland Byers, placcato in area di meta dall’estremo scozzese Tom Aitchison, per via della quantità di gente che aveva invaso il campo. Le leggende sul Lansdowne Road riguardano anche il vento impetuoso che spazza il campo, come l’aneddoto raccontato dall’apertura gallese Mike Watkins (“All’inizio della partita non capivo che stesse succedendo: le bandiere sventolavano in tutte le direzioni!”) o quello che ricorda il pilone azzurro Martin Castrogiovanni (“Le bandierine stavano piegate a terra, sembravano lottare per restare aggrappate al suolo. Dei miei amici venuti dall’Argentina non riuscirono neanche a tirare fuori uno striscione preparato per festeggiarmi, il vento gliel’avrebbe strappato dalle mani!”).

Lansdowne Road non fu la casa fissa della nazionale al Cinque Nazioni fino al 1954: gli incontri si disputavano alternativamente a Dublino e Belfast. Sabato 27 febbraio 1954: a poche ore dal match previsto all’impianto di Ravenhill, nella capitale nordirlandese, sei giocatori nordirlandesi parlano al capitano James McCarthy. “Siamo onorati di essere stati chiamati a far parte della Nazionale – dicono – ma non ce la sentiamo di entrare in campo sul suolo irlandese e sentir suonare God Save The Queen!”. In quelle poche ore si consumano disperati negoziati, fino ad arrivare al compromesso: da quella Irlanda-Scozia in poi i greens non giocano mai più in Irlanda del Nord (l’assenza della nazionale dalle six counties verrà interrotta, dopo 53 anni, questo agosto, in occasione di un test-match contro l’Italia). Lansdowne Road diventa così a tutti gli effetti la casa del rugby irlandese, tanto che l’IRFU trasferisce nello stadio i propri uffici.

Tante tradizioni che crollano, insomma, con questo impianto storico, forse il più romantico tra gli stadi di rugby. Tradizioni che non riguardano la sola palla ovale: crolla anche, infatti, la Regola 42. La Regola 42 è un articolo dello statuto della Gaelic Athletic Association, anche conosciuta con il nome irlandese di Cumann Lúthchleas Gael. La GAA è la federazione degli sport gaelici (football gaelico e hurling) e in quell’articolo vietava l’ospitalità nei suoi impianti agli sport stranieri, in particolare modo quelli inglesi, come il calcio e il rugby. Una regola che affondava le sue radici nella Bloody Sunday del 21 novembre 1920, in piena guerra di indipendenza irlandese, quando a un incontro di football gaelico tra le rappresentative di Dublino e Tipperary i Black and Tans (forze speciali dell’esercito inglese) fecero irruzione al Croke Park, lo stadio GAA di Dublino, nonché il più grande impianto sportivo di tutta Irlanda. I Black And Tans aprirono il fuoco sulla folla, macchiandosi del sangue di un giocatore e di 14 spettatori, compresi tre ragazzi di 10, 11 e 14 anni. La Regola 42 però non esiste più, seppellita proprio dalle macerie del Lansdowne Road: l’assemblea della GAA ha votato per l’abolizione dell’articolo, concedendo ospitalità provvisoria alle nazionali di calcio e rugby proprio al Croke Park. Un’altra svolta epocale per lo sport irlandese e tutto quello che rappresenta nella cultura e nella società della nazione.

L’estremo saluto allo stadio Dublino l’ha dato il pomeriggio del 31 dicembre 2006, in occasione della partita di Celtic League tra le provincie irlandesi del Leinster e dell’Ulster. I padroni di casa hanno primeggiato 20-12, grazie alle mete dell’ala Denis Hickie, del seconda linea Owen Finegan e del numero 8 Jamie Heaslip, l’ultimo a schiacciare un ovale in meta su quel manto erboso. La partita, ribattezzata dai media “The Last Stand”, ha avuto un degno contorno, grazie ad un pubblico record di 48mila spettatori che la pioggia non è riuscita a scoraggiare. La folla ha riservato al Lansdowne Road una grande festa d’addio, condita perfino nell’intervallo tra i due tempi da una proposta di matrimonio. L’ultimo dei mille aneddoti di uno stadio che non sembrava ancora stanco di raccontare storie.