NUMERO 2 – NOVEMBRE 2010


L’Editoriale

Non di solo calcio…

Finita la Coppa del Mondo non abbiamo avuto nemmeno un minuto per respirare: subito l’attenzione si è spostata sull’inizio dei campionati nazionali più importanti, sulle prime gare di qualificazione a Euro 2012, sugli esordi di Prandelli sulla panchina azzurra e sugli incidenti causati a Genova dagli ultrà nazionalisti serbi. Un evento che ha sottolineato ancora una volta l’inadeguatezza dei media italiani nel dare chiavi di lettura a avvenimenti del genere, vedasi il saluto cetnico scambiato per un banale gesto di “tre a zero a tavolino”. Il giornalista dell’Avvenire Andrea Varacalli, esperto di Troubles nordirlandesi e accreditato a Belfast per assistere alla gara tra Irlanda del Nord e Italia, ha testimoniato il quasi completo disinteresse da parte degli azzurri verso la realtà che li ospitava, con la sola eccezione di Chiellini, rimasto colpito dal cartello Red card for sectarianism nel tunnel che portava sul prato del Windsor Park. Lo stesso quotidiano ha dedicato un articolo alla mortalità scolastica dei giovani calciatori italiani, che si perdono per strada alla ricerca di un’affermazione che può non arrivare.

Sport e ignoranza, insomma, è un binomio che in Italia va forte, mentre all’estero ormai si è abituati quotidianamente a riflettere sulle storie che stanno “dietro” alla disciplina sportiva. Differente cultura e approccio letterario, volto a riflettere su quanto il gioco sia inserito nella vita reale di un paese o di una comunità, andando a influenzare e ad essere influenzato da temi quali identità e nazionalismo, migrazioni e cittadinanza, potere e totalitarismo, egemonia internazionale e propaganda. E ovviamente, volto a ricercare le storie umane, individuali o collettive, che stanno dietro al mero evento sportivo: una tendenza opposta a quella in cui lo sportivo professionista è una figura appiattita, fatta di veline, festini, capricci e superbia.

Da parte nostra, vorremmo smentire questo stereotipo andando a volgere il nostro sguardo sulle storie che stanno in ombra. Riflettendo sui grandi temi che lo sport porta con sé (proponendovi ad esempio un punto di vista sulla questione della nazionalità sportiva, come anche uno sulla crisi, finanziaria e d’immagine, della pallanuoto), sulle straordinarie storie di vita di alcuni sportivi, su come si trasforma lo sport sotto un regime (si parla di calcio e Germania Est), sul calcio di cui non si parla praticamente mai (abbiamo dedicato un lungo speciale ai campionati scandinavi e baltici) e infine sugli sport che in Italia definiamo minori, con la nostra solita attenzione per le vicende dei pionieri di alcune discipline, per ora recepite solamente come “stramberie”.

Abbiamo deciso quindi di dare largo spazio all’Aussie rules – disciplina appena importata nello Stivale e che sta vivendo un momento cruciale della sua crescita, visto che l’Italia ha ospitato per la prima volta una competizione internazionale e che si stanno aprendo prospettive importanti per la nazionale , al cricket – con un resoconto della stagione nazionale da poco terminata , alle competizioni europee di pallanuoto e alle regole basilari del lacrosse. Sperando che possa servire ad affrancare la concezione di sport dall’ignoranza di tanti stereotipi.

STORIA POLITICA DEGLI ASIAN GAMES

Venerdì 12 novembre si sono aperti in Cina i XVI° Giochi d’Asia. Se Pechino aveva avuto le Olimpiadi e Shanghai l’Expo, alla terza città della Cina, Guangzhou, sono toccati i Giochi d’Asia.

Nati nel secondo dopoguerra, dopo i falliti tentativi degli anni ’10 e ’30, i primi Asian Games si disputarono nel 1951 a Nuova Delhi in India. Questa scelta rispecchiava l’intenzione della neonata repubblica di svolgere un ruolo di guida politico-culturale fra sui suoi vicini. Le sole undici nazioni che vi parteciparono riflettevano la situazione di decolonizzazione e instabilità presente nel continente asiatico: del resto, nel 1951 era ancora in corso la Guerra di Corea.

Dal ’51 a oggi i Giochi si sono tenuti regolarmente in nove paesi diversi. Le squadre partecipanti sono passate da 11 a 45, gli atleti da 489 a 9.704 e gli sport da 6 a 42. Bangkok è stata la città che ha ospitato più edizioni, ben 4. Nel 1970 e nel 1978 la capitale della Tailandia salvò i Giochi dopo l’abbandono della Corea del Sud (1970) e del Pakistan (1978). Dal 1986 si disputano anche i Giochi d’Asia invernali e dal 2005 i Giochi d’Asia Indoor. L’ultima partecipazione di Israele fu quella del 1974; dopo di che, per ragioni politiche legate al crescente peso dei paesi arabi in seno all’Olympic Council of Asia, fu escluso e costretto a migrare nei Comitati Olimpici Europei.

È stato detto che il medagliere può essere visto come il barometro della salute delle nazioni. Personalmente non credo troppo a questa teoria, ma osservare la sua evoluzione resta sempre un esercizio molto interessante.

Dal 1951 al 1978, il Giappone, nazione sconfitta dalla guerra con un passato olimpico importante e bastione del cosiddetto occidente in Asia, ha dominato nettamente il medagliere, prima di cedere il passo alla Cina.

Quest’ultima, ammessa ai Giochi nel 1974, abbandonò l’ideologia maoista legata all’idea di uno sport salutista e non competitivo, ottenendo risultati stupefacenti. Con un sincronismo impressionante, infatti, i successi in campo sportivo andavano di pari passo a quelli economici. Dal 1982 a oggi la Cina ha sempre dominato il medagliere e, a partire dal 1990, le sue medaglie tendono ad essere più del doppio rispetto a quelle vinte dalla seconda. Ciò rende ancor più evidente l’egemonia, non solo sportiva, del paese sul continente.

I Giochi d’Asia sono stati anche un palcoscenico per le potenze medio-piccole. È il caso dell’Indonesia di Sukarno che sfruttò i giochi di Jakarta del 1962 per rafforzare il nazionalismo indonesiano e porsi come uno dei leader del movimento dei “non allineati”. Il veto a Israele e Taiwan da quell’edizione dei Giochi costò l’esclusione del Comitato Olimpico Indonesiano da parte del Cio.

La Corea del Sud, negli anni Sessanta, emerse anch’essa come potenza sportiva (ed economica) sotto il regime di Park Chung Hee. Poco prima di essere assassinato nel 1979, l’ex generale golpista aveva dato il là alla candidatura olimpica per Seul 1988.

Non fa testo invece l’India, la cui cultura sportiva è assai lontana da quella occidentale delle competizioni olimpiche, presenti in massa nei Giochi d’Asia. Gli unici sport di origine occidentale che appassionano realmente le folle indiane sono il cricket e, in seconda battuta, l’hockey su prato. Il suo essere una potenza asiatica con ambizioni globali quindi non si riflette, al contrario della Cina, nelle medaglie vinte, anche perché, se è vero che l’India vuole essere un “player” internazionale, è evidente che cerca di esserlo alle sue condizioni, non rinnegando la propria cultura.

Nicola Sbetti

MORTE NEL POMERIGGIO

Novanta anni fa, una partita qualunque di football gaelico si macchiava di sangue.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Secondo una leggenda mai provata fino in fondo, quel giorno i militari inglesi si sfregano le mani: non importa quale faccia della moneta verrà restituita dal lancio in aria, gli irlandesi la pagheranno cara, in quella domenica di fine novembre del 1920. Da qualche anno i rapporti tra l’Irlanda e la corona si sono irrigiditi: il Parlamento britannico approva l’Home Rule, riconoscendo così l’autogoverno dell’isola dei celti, mentre in Europa divampa la Prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto porta al rinvio dell’entrata in vigore dell’atto e contribuisce ad innervosire gli animi: il 1916 è l’anno dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua, una ribellione armata di sei giorni sedata duramente dagli inglesi. Lo scontro tocca l’apice con le elezioni del 1918, le prime con la nuova riforma elettorale che estende il diritto di voto anche alle donne ultratrentenni: il Sinn Féin, partito nazionalista irlandese, ottiene 73 seggi in Parlamento ma i suoi militanti si rifiutano di sedere sugli scranni di Westminster. Decidono, invece, di costituire un’assemblea irlandese – il Dáil Éireann – ed un proprio governo – l’Aireacht, guidato da Éamon de Valera: entrambi gli organi proclamano l’indipendenza dell’isola. Si apre, così, il conflitto anglo-irlandese, del quale la Bloody Sunday del 21 novembre 1920 costituisce una tappa cruciale.

La lunga domenica di sangue a Dublino inizia con il sorgere del sole: di buon mattino, le squadre dell’IRA (Irish Republican Army) entrano in azione. Il piano è già predisposto: il capo dell’intelligence, nonché ministro delle finanze dell’Aireacht, Michael Collins ordina l’assassinio di alcune spie inglesi presenti in città. In particolare, l’attenzione è rivolta alla Cairo Gang, un gruppo di diciotto alti ufficiali britannici che hanno prestato servizio per Sua Maestà in Egitto e Palestina e che vorrebbero infiltrarsi nell’organizzazione di Collins: nessun dubbio, sono loro il bersaglio da colpire. Con la complicità di alcune domestiche e grazie alle soffiate di un poliziotto della RIC (Royal Irish Constabulary), gli uomini di Collins riescono a scovare il domicilio di numerosi agenti britannici: la maggior parte di essi è localizzata in un sobborgo meridionale di Dublino. All’alba iniziano le operazioni, che portano all’omicidio di quattordici persone, tra cui due appartenenti alla Divisione Ausiliaria, quattro ufficiali dell’intelligence britannica ed altrettanti agenti dei servizi segreti: sono meno della metà dei trentacinque nomi finiti sulla lista nera, ma la notizia scuote l’intelligence britannica presente in Irlanda. E la vendetta non tarda ad arrivare.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Le truppe inglesi stanno predisponendo il contrattacco. Due le alternative: o si mette a ferro e fuoco Sackville Street, oppure si fa irruzione a Croke Park, cattedrale del football gaelico. Testa o croce. Croce. In tutti i sensi. Nonostante il clima di tensione, cinquemila – anzi, diecimila secondo altre fonti – persone si dirigono allo stadio: i locali del Dublino affrontano la squadra di Tipperary (nella foto a sinistra, il biglietto della partita). Iniziato alle 15.15, con mezzora di ritardo, l’incontro viene interrotto dopo dieci minuti: è in quell’istante che i Black and Tans, un gruppo paramilitare britannico, forzano i tornelli dell’entrata da Canal End e irrompono sul campo di gioco, spalleggiati all’esterno da truppe della RIC e della Divisione Ausiliaria. I militari aprono il fuoco sulla folla, sparando per novanta, interminabili secondi. Gli spettatori, in preda al panico, fuggono terrorizzati: alcuni di loro provano a mettersi in salvo scavalcando il muro della tribuna Canal End, altri si dirigono verso l’altra estremità dello stadio, gli ingressi su Clonliffe Road. Ad attenderli c’è un altro cordone di militari, supportato da un’autoblindo che lascia partire altri proiettili sopra le teste della folla impaurita. Per un macabro scherzo del destino, Londra restituisce il colpo a Dublino: quattordici le vittime del mattino, quattordici le vittime del pomeriggio. Al Croke Park sono sette le persone crivellate, mentre cinque vengono ferite mortalmente e, infine, altre due muoiono calpestate dalla folla in fuga: la morte si porta via due bambini di appena 10 e 11 anni e Jeannie Boyle, una ragazza che si era recata alla partita in compagnia del fidanzato che, cinque giorni dopo, l’avrebbe dovuta portare all’altare. Anche lo sport piange: rimangono a terra Jim Hegan del Dublino, che riesce tuttavia a sopravvivere, e Michael Hogan, capitano del Tipperary, che invece non viene risparmiato dai proiettili. Ed è proprio a lui che, qualche anno dopo, verrà intitolata una delle tribune del Croke Park. Ma gli irlandesi non hanno ancora finito di versare sangue: due alti ufficiali dell’IRA, Dick McKee e Peadar Clancy, assieme all’amico Conor Clune vengono portati al Castello di Dublino, quartier generale inglese sull’isola. Qui subiscono torture e muiono in circostanze misteriose. Il numero delle vittime sale, così, a trentuno. L’Irlanda paga con il sangue di alcuni suoi figli la sollevazione nei confronti dell’Inghilterra, ma la tragica vicenda segna le menti dell’opinione pubblica: la credibilità del Regno Unito sullo scenario politico internazionale ne esce a pezzi, il sostegno al governo repubblicano di de Valera si fa sempre più forte.

L’escalation di violenza prosegue per oltre un anno, fino all’11 luglio 1921, quando viene firmata la tregua e lo Stato Libero d’Irlanda viene riconosciuto da Londra come dominion, una comunità cioè associata all’impero britannico ma con poteri autonomi ed un proprio Parlamento. Nel frattempo la GAA, l’associazione che promuove e coordina gli sport gaelici, vieta agli appartenenti alle truppe britanniche o alle forze dell’ordine nordirlandesi di assistere a eventi sportivi organizzati dalla GAA stessa. Al contempo, fa sì che gli sport “stranieri” e, nella fattispecie, britannici – ad esempio calcio e rugby – non possano essere giocati negli impianti della GAA come il Croke Park. Le conseguenze più importanti, però, si hanno in ambito giudiziario: due corti militari aprono immediatamente l’inchiesta sui fatti del 21 novembre e, in poco più di due settimane, emettono un verdetto. Il governo britannico, però, fa sparire le carte processuali, rimaste nascoste per oltre ottanta anni: una volta rinvenute – dieci anni fa – è stato possibile venire a conoscenza della sentenza. E cioè che il fuoco aperto sulla folla dagli inglesi era da considerarsi un gesto indiscriminato ed ingiustificabile e, soprattutto, veicolato senza alcun ordine superiore. Resta, ancor oggi, qualche dubbio su chi abbia effettivamente iniziato gli spari a Croke Park tra gli uomini dell’IRA e le truppe al servizio della Gran Bretagna (qui trovate tutte le ricostruzioni e numerose testimonianze). Ma sul sangue che scorreva a fiotti in quella maledetta domenica, no, non v’è dubbio alcuno.

DALL’ARGENTINA CON FURORE

Christian Javier Simari Birkner racconta l’insolita carriera di uno sciatore argentino.

Cristian Javier Simari Birkner, 31 anni, professione sciatore. Apparentemente non c’è nulla di strano: centinaia  sono gli atleti che praticano questo sport a livello agonistico. Ma la particolarità è che il ragazzo in questione è originario di una terra che certo, nell’immaginario collettivo, non viene mai affiancata allo sci alpino: l’Argentina. E con lui ci sono due sorelle, Macarena e Maria Belén, anch’esse presenze fisse nel Circo Bianco, senza perdersi un’edizione del Mondiale o dei Giochi Olimpici. Anche una terza sorella, la giovanissima Angelica, è in procinto di debuttare tra i big.

I Simari Birkner, famiglia di sciatori: che effetto fa rappresentare l’Argentina nel mondo con questo sport?

«Lo sci mi ha dato tutto, e dunque secondo me la cosa più importante non è tanto rappresentare il mio Paese in giro per il mondo, ma poter fare quello che più mi piace. E farlo bene. Certo che se non fosse stato per la mia famiglia, non avrei mai potuto arrivare a questi livelli».

Come mai hai scelto di praticare questo sport a livello agonistico? In Argentina non è certo la disciplina più popolare, sebbene non manchino le montagne.

«Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di sportivi, quasi tutti sciatori: i miei zii hanno partecipato anche ad un’edizione dei Giochi Olimpici e a più Campionati del Mondo. Da ragazzo vivevo le gare dei miei parenti molto da vicino, ma penso che la decisione definitiva di impegnarmi agonisticamente in questo sport l’ho presa vedendo meglio l’ambiente dello sci alpino, andando per dieci anni a Madonna di Campiglio a veder correre Tomba, Girardelli e gli altri campioni, svegliandomi alle quattro del mattino solo per poter arrivare sulla “3 Tre” (la pista di Madonna di Campiglio, ndr) per guardare le gare. È grazie a queste cose che ho capito di non volermi limitare ad osservare, ma di voler partecipare anch’io direttamente».

Chi è lo sciatore che ti ha fatto innamorare di questo sport? E adesso, chi stimi maggiormente?

«Come persona, e come atleta, ammiravo tantissimo Marc Girardelli: secondo me è riuscito a cambiare lo sci, a migliorarlo, e il fatto che lui corresse per il Lussemburgo praticamente da solo, con suo padre ed un gruppo di allenatori, si avvicina anche alla mia esperienza personale. Adesso lo sci è ancora diverso da prima, c’è maggiore equilibrio e quindi penso che ogni atleta della Coppa del Mondo meriti il mio rispetto e la mia stima».

Obiettivi per questa stagione? Anche se la tua è già iniziata d’estate, con una buona serie di vittorie nella South American Cup.

«Il primo obiettivo era rivincere la South American Cup e ce l’ho fatta: adesso sto recuperando da una piccola lesione al ginocchio sinistro rimediata durante la discesa di Chillan, e dunque spero di essere in forma per i primi di dicembre, in modo da poter gareggiare in Coppa del Mondo, Coppa Europa e North American Cup, preparandomi al meglio per il Campionato del Mondo di Garmisch-Partenkirchen».

Sei un atleta polivalente, gareggi dallo slalom alla discesa: qual è la tua disciplina preferita? E su che genere di tracciato ti trovi meglio?

«La specialità che mi piace maggiormente è il gigante, è anche quella in cui sono più allenato. Come tracciati, preferisco quelli duri, con delle pendenze davvero aspre, per cui mi trovo davvero benissimo sulla Podkoren di Kranjska Gora e in Val d’Isere».

6)Quali sono state la tua maggiore soddisfazione e la tua peggiore delusione in questa prima parte di carriera?

«La mia delusione più grande è quella di non essere ancora riuscito a chiudere nei 30 una gara di Coppa del Mondo: una volta sono uscito nella seconda manche a Kranjska Gora, dove oltretutto stavo facendo davvero bene. Ricordo con rammarico anche il Campionato del Mondo del 2001, a Sankt Anton: ero al nono posto dopo la prima manche dello slalom della combinata, e stavo scendendo come un pazzo nella seconda, prima di commettere un grave errore a sette porte dalla fine, compromettendomi la gara. La maggiore soddisfazione la lego invece ai Mondiali di Sankt Moritz di due anni dopo: ero ventiseiesimo e già contento dopo la prima prova del gigante, ma poi nella seconda mi sono scatenato realizzando il quarto tempo parziale e chiudendo al diciassettesimo posto complessivo, davanti a grandi atleti come Lasse Kjus e Christian Mayer».

Quali sono i tuoi hobby? Sei molto attivo su Facebook…

«Adoro la natura, andare a cavallo e in bicicletta, mi piace stare, quando posso, nella mia Argentina, magari mangiando un bel piatto di asado (un arrosto tipicamente sudamericano, ndr). In generale, prediligo le attività all’aria aperta, anche se ammetto che con tutti i viaggi e il tempo da trascorrere nei vari hotel utilizzo spesso il computer, che mi permette di comunicare con il mondo in ogni momento».

Ultima domanda: oltre a Cristian, Macarena e Maria Belén, c’è qualche altro sciatore argentino che può fare strada?

«Io credo dì sì. In Argentina abbiamo molti sportivi di livello mondiale, anche se in generale manca sempre una buona organizzazione. Spero quindi che si sviluppi una struttura migliore, in grado di permettere ai vari atleti di esprimere appieno il loro talento. Inoltre, penso anche che l’attuale sistema della Coppa del Mondo di sci non sia perfetto per le realtà minori: le gare si fanno solo in poche nazioni, e nelle seconde manche degli slalom e dei giganti partecipano solo trenta atleti, spesso solo austriaci, italiani, svizzeri e francesi. Questo secondo me non aiuta i paesi più giovani da un punto di vista sciistico che avrebbero bisogno di maggiore spazio, anche se resto convinto che l’Argentina abbia grandi potenzialità».

Marco Regazzoni

HOCKEY GHIACCIO: IL PUNTO DOPO IL PRIMO GIRONE D’ANDATA

Con la fine del primo girone d’andata il campionato italiano di hockey su ghiaccio è entrato oramai nel vivo. Poche le novità, molte le conferme. Come lo scorso anno infatti il Valpusteria è già in fuga, apparentemente irraggiungibili. I lupi di Brunico, allenati dal confermatissimo Mair e forti di una rosa pressoché immutata a cui è stato aggiunta un portiere affidabile come il finlandese Tommi Nikkila, non hanno ancora perso una partita. Primi con 24, punti frutto di otto vittorie piene, i giallo-neri hanno espresso ad oggi il miglior hockey della serie A. Resta però un interrogativo; saranno in grado di continuare a pattinare a questi livelli o crolleranno nel finale di stagione come accaduto nello scorso campionato?

Oltre alla capolista sono parecchie le similitudini con la passata stagione. Il Renon (3° a 16 punti), già vincitore della Supercoppa Italian, segue il Valpusteria a debita distanza pur dando l’impressione di estrema solidità grazie al duo Cloutier-Tudin e agli italiani sempre più protagonisti. Il Bolzano, che tra Palaonda e prima linea è stato letteralmente un cantiere aperto, si trova con 15 punti al 4° posto. Un ottima base di partenza per una squadra che, con un portiere super come Matt Zaba e un centro di tutto rispetto come l’ultimo arrivato Danny Irmen, non può non essere considerata fra le favorite allo scudetto.

E i campioni d’Italia? Esattamente come la passata stagione l’Asiago galleggia sornione a metà classifica (6° con 11 punti). Guai però a sottovalutare i leoni veneti.

Bene anche i friulani del Pontebba (5° con gli stessi punti dell’Asiago) che, anche con la nuova divisa bianconera, si stanno riconfermando come squadra di medio – alta classifica. Fra i friulani il difensore di scuola Renon, Andreas Lutz è diventato il nuovo recordman di presenze della squadra superando una bandiera come Fabio Armani.

Male, molto male invece il trio Alleghe (7° a 6 punti), Fassa (8° a 5 punti), e Cortina (9° a 1 solo punto). Gli agordini continuano a palesare drammatici problemi difensivi e, con 30 goal subiti, sono la peggior difesa della serie A. Il Fassa paga la perdita di Dennis e i problemi estivi nella costruzione della squadra, mentre il Cortina, ormai nobile decaduta, è ancora in attesa della prima vittoria stagionale.

A sparigliare le carte rispetto un film già visto ci ha pensato la Valpellice dei fratelli Aquino, seconda in classifica a 19 punti. Da squadra competitiva quasi esclusivamente fra le mura amiche la Valpe sta evolvendo in una potenziale squadra d’alto livello. È ancora presto per dire se i Piemontesi sono diventati grandi, quello che è certo è che non sono più una matricola.

Il mese di ottobre per altro è stato caratterizzato da un’intensa attività dell’hockeymercato. Detto di Irmen a Bolzano colpisce come ben tre squadre abbiano cambiato in corsa il proprio goalie. Certo il portiere resta un ruolo delicatissimo e spesso determinante per le sorti di una squadra ma è difficile pensare che i problemi di Asiago Alleghe e Cortina siano stati esclusivamente legati alle prestazione dei loro estremi difensori. Il campionato italiano riabbraccia quindi l’Mvp della passata stagione Daniel Bellissimo, tornato a difendere la gabbia dell’Asiago al posto di Perugini e l’ex portierone del Fassa Adam Dennis sbarcato ad Alleghe in sostituzione di un comunque discreto Gusten Tornqvist. A Cortina invece è stato chiamato in tutta fretta Adam Munro (17 presenze in Nhl) per fronteggiare la partenza oltreoceano di Adam Russo

Nicola Sbetti