STORIA POLITICA DEGLI ASIAN GAMES

Venerdì 12 novembre si sono aperti in Cina i XVI° Giochi d’Asia. Se Pechino aveva avuto le Olimpiadi e Shanghai l’Expo, alla terza città della Cina, Guangzhou, sono toccati i Giochi d’Asia.

Nati nel secondo dopoguerra, dopo i falliti tentativi degli anni ’10 e ’30, i primi Asian Games si disputarono nel 1951 a Nuova Delhi in India. Questa scelta rispecchiava l’intenzione della neonata repubblica di svolgere un ruolo di guida politico-culturale fra sui suoi vicini. Le sole undici nazioni che vi parteciparono riflettevano la situazione di decolonizzazione e instabilità presente nel continente asiatico: del resto, nel 1951 era ancora in corso la Guerra di Corea.

Dal ’51 a oggi i Giochi si sono tenuti regolarmente in nove paesi diversi. Le squadre partecipanti sono passate da 11 a 45, gli atleti da 489 a 9.704 e gli sport da 6 a 42. Bangkok è stata la città che ha ospitato più edizioni, ben 4. Nel 1970 e nel 1978 la capitale della Tailandia salvò i Giochi dopo l’abbandono della Corea del Sud (1970) e del Pakistan (1978). Dal 1986 si disputano anche i Giochi d’Asia invernali e dal 2005 i Giochi d’Asia Indoor. L’ultima partecipazione di Israele fu quella del 1974; dopo di che, per ragioni politiche legate al crescente peso dei paesi arabi in seno all’Olympic Council of Asia, fu escluso e costretto a migrare nei Comitati Olimpici Europei.

È stato detto che il medagliere può essere visto come il barometro della salute delle nazioni. Personalmente non credo troppo a questa teoria, ma osservare la sua evoluzione resta sempre un esercizio molto interessante.

Dal 1951 al 1978, il Giappone, nazione sconfitta dalla guerra con un passato olimpico importante e bastione del cosiddetto occidente in Asia, ha dominato nettamente il medagliere, prima di cedere il passo alla Cina.

Quest’ultima, ammessa ai Giochi nel 1974, abbandonò l’ideologia maoista legata all’idea di uno sport salutista e non competitivo, ottenendo risultati stupefacenti. Con un sincronismo impressionante, infatti, i successi in campo sportivo andavano di pari passo a quelli economici. Dal 1982 a oggi la Cina ha sempre dominato il medagliere e, a partire dal 1990, le sue medaglie tendono ad essere più del doppio rispetto a quelle vinte dalla seconda. Ciò rende ancor più evidente l’egemonia, non solo sportiva, del paese sul continente.

I Giochi d’Asia sono stati anche un palcoscenico per le potenze medio-piccole. È il caso dell’Indonesia di Sukarno che sfruttò i giochi di Jakarta del 1962 per rafforzare il nazionalismo indonesiano e porsi come uno dei leader del movimento dei “non allineati”. Il veto a Israele e Taiwan da quell’edizione dei Giochi costò l’esclusione del Comitato Olimpico Indonesiano da parte del Cio.

La Corea del Sud, negli anni Sessanta, emerse anch’essa come potenza sportiva (ed economica) sotto il regime di Park Chung Hee. Poco prima di essere assassinato nel 1979, l’ex generale golpista aveva dato il là alla candidatura olimpica per Seul 1988.

Non fa testo invece l’India, la cui cultura sportiva è assai lontana da quella occidentale delle competizioni olimpiche, presenti in massa nei Giochi d’Asia. Gli unici sport di origine occidentale che appassionano realmente le folle indiane sono il cricket e, in seconda battuta, l’hockey su prato. Il suo essere una potenza asiatica con ambizioni globali quindi non si riflette, al contrario della Cina, nelle medaglie vinte, anche perché, se è vero che l’India vuole essere un “player” internazionale, è evidente che cerca di esserlo alle sue condizioni, non rinnegando la propria cultura.

Nicola Sbetti