LE COREE E LA DIPLOMAZIA DEL CALCIO

Divise sul campo di battaglia, vicine su quello di calcio: ecco il destino di Corea del Nord e Corea del Sud.

Quando, nel 1948, viene adottata la decisione di suddividere la penisola coreana in due diversi Stati – l’uno ispirato al modello delle democrazie liberali, l’altro invece di stampo comunista – probabilmente, anzi, sicuramente nessuno si sofferma a riflettere sulle ripercussioni in ambito sportivo che essa avrà. Eppure, prima o poi, le strade di Corea del Nord e Corea del Sud troveranno un punto d’incontro (o di scontro, vedetela come volete) non solo in un campo di battaglia, ma anche da gioco. Forse perché, come sosteneva qualche anno prima George Orwell, lo sport non è altro che un’imitazione della guerra. E così fu.

Lo scrittore inglese, morto esattamente in quell’anno, sottolineava gli aspetti negativi dello sport: non è altro che una causa di attriti o, nel migliore dei casi, un pretesto per esibire con orgoglio una presunta superiorità tecnica nei confronti dei dirimpettai. E questo corrispondeva in parte a verità anche nel caso della Corea di fine anni ’20: la linea di demarcazione tra i due paesi, in corrispondenza del 38° parallelo, è un’ipotesi ancora piuttosto remota ma nello sport emerge comunque una rivalità tra Pyongyang e Seoul. Una rivalità calcistica che trova sfogo nell’istituzione dei giochi Gyung-Pyong, appuntamento fisso a partire dal 1929. Una tradizione che si ripete per otto volte, fino al 25 marzo 1946: è questa la data dell’ultimo incontro di calcio tra le due città con il paese unito. Trascorre un paio di anni e la Corea cessa di esistere, lasciando spazio a due nuovi stati che parlano la stessa lingua ma che finiscono sotto aree di influenza agli antipodi. Poi arriva il momento del conflitto bellico, quello vero: scoppiato nel 1950, finirà solamente tre anni dopo, con un accordo di pace che mai troverà una sua reale applicazione. Anche tra le due Coree è guerra fredda.

Poi, all’improvviso, a quasi trenta anni di distanza dalla divisione della penisola, ecco che il destino inizia a metter mano sui rapporti tra i due paesi: il 6 maggio 1976 diventa una data storica, allorché le rispettive selezioni calcistiche si ritrovano da avversarie. Per la prima volta, Corea del Nord e Corea del Sud si sfidano a colpi di pallone anziché di cannone: è Bangkok ad ospitare l’incontro, valido per le semifinali dei Campionati asiatici di calcio giovanili, che si conclude con la vittoria stringata (1-0) della metà settentrionale della penisola. Due anni dopo, poi, è la volta della prima sfida tra le nazionali maggiori: ironia della sorte, è nuovamente Bangkok il teatro della sfida fratricida tra Pyongyang e Seoul. E, questa volta, si lotta per un premio ancor più prestigioso: la vittoria dei Giochi asiatici. Quella del 22 dicembre 1978 diventa, così, un’edizione ricca di significati: la capitale thailandese viene scelta dopo le precedenti rinunce di Singapore per motivi finanziari e di Islamabad a causa dei conflitti che vedono il Pakistan impegnato contro Bangladesh e India. È anche l’edizione che coincide con l’espulsione delle rappresentative israeliane dai Giochi asiatici. Soprattutto, è l’edizione che regala Corea del Nord-Corea del Sud come duello finale del torneo di calcio nel trentesimo anniversario della loro data di fondazione: entrambe marciano spedite verso l’atto supremo, senza perdere un solo incontro e dando saggio di grande forza. Ma nell’atteso scontro tra titani nessuna delle due riesce a prevalere, neppure dopo i tempi supplementari: niente rigori, il regolamento prevede che il primo posto sia assegnato ex aequo. Vince, è il caso di dire, la Corea, senza operare distinzioni geopolitiche.

Il terzo confronto tra i due stati separati avviene, ancora una volta, in Thailandia: è qui che, nel novembre 1981, si disputa la quattordicesima King’s Cup, torneo internazionale a cadenza annuale al quale prendono parte anche alcune nazionali europee. Ad onor del vero, Corea del Nord e Corea del Sud inviano le loro rappresentative militari, i cui giocatori fanno in realtà parte delle forze armate, entrambe inserite nel girone 2: la vittoria, ancora una volta, arride ai settentrionali che, imponendosi per 2-0, ipotecano la qualificazione al turno successivo. In tre incontri, la Corea del Nord ne vince due, senza mai subire reti. Una gioia destinata, tuttavia, a non ripetersi per otto anni. 16 ottobre 1989: mentre la guerra fredda tra USA e URSS volge ormai al termine – e di lì a poche settimane crollerà il Muro di Berlino – a Singapore le due nazionali scendono in campo in un match valido per le qualificazioni ai Mondiali di Italia ’90. Dopo due sconfitte, un pareggio e nessun gol segnato, la Corea del Sud riesce a porre fine al malefico sortilegio: dopo diciotto minuti Hwang Sun-Hong segna la rete che decide l’incontro. Un successo storico bissato qualche mese dopo, il 29 luglio 1990: a Pechino le due nazionali tornano a fronteggiarsi per tenere a battesimo la Dynasty Cup, una manifestazione sportiva riservata alle federazioni calcistiche dell’Estremo Oriente e destinata a breve vita. E la Corea del Sud si impone nuovamente con il minimo scarto, trovando tuttavia solamente al novantesimo il gol della vittoria, a firma di Hwangbo Kwan.

Ma il vero evento è a ottobre: a distanza di due settimane, il derby del 38° parallelo si gioca per la prima volta nei rispettivi paesi. Una tantum, non ci sono trofei o qualificazioni ai Mondiali da vincere: Corea del Nord e Corea del Sud danno vita ad una serie di amichevoli meglio note come “partite della riunificazione”. Il calcio, dunque, diventa uno strumento diplomatico – come il ping pong lo fu per Cina e Stati Uniti – per favorire il disgelo tra i due paesi, far avvicinare le rispettive posizioni e, perché no?, sognare di unire nuovamente la penisola coreana sotto un’unica bandiera. Si arriva così ad un altro, storico incontro: quello dell’11 ottobre 1990 che ha per scenario il mastodontico stadio “Rungrado – May Day” di Pyongyang, avveniristica struttura simile ad un fiore di magnolia che può ospitare oltre 150mila spettatori. E, non a caso, gli spalti fanno registrare il tutto esaurito. A metà del primo tempo la rete del sudcoreano Kim Joo-Sung sembra presagire alla terza vittoria consecutiva di Seoul, ma ad inizio ripresa il capitano Yoon Jung-Soo fa impazzire i sostenitori locali siglando il gol del pareggio. Ed in pieno recupero, due minuti oltre lo scadere dei tempi regolamentari, Tak Yong-Bin trasforma il rigore che completa la rimonta e regala alla Corea del Nord il successo per 2-1. Dodici giorni dopo, il 23 ottobre, si torna nuovamente a giocare ma a campi invertiti: all’Olimpico di Seoul la sponda meridionale della penisola vendica il recente ko con un’altra rete decisiva di Hwang Sun-Hong, messa a segno dopo venticinque minuti.
Il 1991 è un anno di pausa, quanto ad amichevoli o partite di un certo peso. Ma non è un anno qualsiasi. Ai Mondiali di calcio Under 20, ospitati dal Portogallo, Nord e Sud uniscono le forze e si presentano sotto un’unica bandiera: è quella della Corea unificata, un vessillo bianco al cui centro risalta il profilo, colorato di azzurro, della penisola. Una circostanza che, però, non avrà alcun seguito, nonostante i giovani coreani scrivano una delle pagine più belle battendo di misura l’Argentina. Il confronto diretto tra le due Coree ritorna il 24 agosto 1992: ancora Pechino, ancora Dynasty Cup. A differenza delle precedenti sfide, però, in terra cinese esce un salomonico pareggio: al (solito) vantaggio sudcoreano del futuro capitano Hong Myung-Bo replica, nuovamente nelle battute conclusive, Choi Yong-Son. Senza storia, invece, l’incontro che va in scena in Qatar il 28 ottobre 1993: la Corea del Sud è in piena corsa per la qualificazione ai Mondiali americani ed i cugini del nord proprio non riescono ad opporre resistenza. Al triplice fischio finale è 3-0, la vittoria con il maggior scarto nella storia delle sfide fratricide, con le reti che giungono tutte nella ripresa: i marcatori sono Ko Jung-Woon, Ha Seok-Joo e, soprattutto, Hwang Sun-Hong. Segnando il momentaneo raddoppio sudcoreano, l’attaccante transitato brevemente dalla Bundesliga diventa il detentore di un curioso record: con tre reti è lui il cannoniere più prolifico nella storia delle sfide sull’asse Pyongyang-Seoul.

Per dodici anni, poi, non succede più nulla (eccezion fatta per un’amichevole a Seoul nel settembre 2002 tra le nazionali giovanili, organizzata dalla Fondazione Europa-Corea e sponsorizzata dalla federcalcio del Sud). Fino al 4 agosto 2005, nel pieno dei Campionati est-asiatici, competizione che ha raccolto l’eredità della Dynasty Cup: a Jeonju, città sudcoreana che ha ospitato alcune partite dei Mondiali di calcio, le due nazionali si preoccupano prima di tutto della fase difensiva e non si aggrediscono vicendevolmente. Come nel primo incontro tra le nazionali maggiori, avvenuto nel 1978, tra Corea del Nord e Corea del Sud è pareggio a reti bianche. Non sarà così dieci giorni dopo per un altro appuntamento con le amichevoli della riunificazione: è il 14 agosto e a Seoul regna un clima gioioso e ridanciano. Il giorno dopo, infatti, si celebra l’anniversario della liberazione dal Giappone. E i sessanta anni della prestigiosa ricorrenza non potevano ricevere miglior festeggiamento: i “diavoli rossi” assestano il secondo 3-0 nella storia dei confronti diretti, andando in gol con Chung Kyung-Ho, Kim Jin-Yong e Park Chu-Young.
Ma il vero anno che rimarrà nella storia è il 2008: per quattro volte in meno di sette mesi Nord e Sud si sfidano in ambito calcistico. Un’abbuffata di derby che si chiude senza vinti né vincitori. Si inizia il 20 febbraio con un altro incontro valido per i Campionati est-asiatici, nella città cinese di Chongping: l’ennesima illusione di supremazia sudcoreana si concretizza con il gol di Yeom Ki-Hun, ad un quarto d’ora dal termine Jong Tae-Se riporta tutti con i piedi per terra. Il 26 marzo, invece, ci si gioca la qualificazione ai Mondiali in Sud Africa: è Shangai ad ospitare, per motivi politici, l’incontro che vede i nordcoreani come nazione ospitante. Niente reti, niente vincitori o sconfitti: la stessa trama che offre il match di ritorno a Seoul, giocato il 22 giugno. Finita l’estate, è nuovamente Corea del Nord-Corea del Sud: a Shangai, il 10 settembre, le due cugine osano maggiormente rispetto alle precedenti uscite e segnano un gol a testa. E, come a voler spezzare la catena, stavolta sono i padroni di casa a sbloccare il risultato con il rigore di Hong Young-Jo, cui fa seguito dopo nemmeno cinque minuti il pareggio definitivo di Ki Sung-Yong. L’ultimo incrocio avviene il 1° aprile 2009 a Seoul, per la gara di ritorno della seconda fase della qualificazione mondiale: mancano appena tre minuti alla fine quando Kim Chi-Woo regala alla Corea del Sud la sesta vittoria in questa serie di derby dal sapore particolare.

A rendere ancor più intricati i legami tra calcio e politica nelle vicinanze del 38° parallelo ha poi provveduto la FIFA: giovedì 2 dicembre, infatti, verranno decisi i paesi che ospiteranno le edizioni 2018 e 2022 dei Mondiali di calcio. Nel secondo caso ha avanzato la propria candidatura anche la Corea del Sud, opposta ad Australia, Qatar, Stati Uniti e Giappone (già, c’eravamo tanto amati…). E Seul ha fatto sapere che, in caso di assegnazione, lavorerà affinché alcune partite siano giocate al di là del 38° parallelo. Assai singolare, comunque, che negli stessi giorni le due Coree siano coinvolte in questi giochi: non sorprenderebbe se nuovi, paventati scontri influissero negativamente sulla decisione della FIFA e se, viceversa, l’assegnazione dei Mondiali 2022 alla Corea del Sud indirizzasse i due paesi verso una riappacificazione e, chissà, una riunificazione della penisola.  La partita, insomma, si gioca tanto a Zurigo quanto nel Mar Giallo. Può un semplice pallone di cuoio decidere i destini di due paesi?

Simone Pierotti

NUOVI SPORT ASIATICI ALL’ARREMBAGGIO

L’evoluzione degli sport dei Giochi d’Asia rispecchia la sempre maggior centralità del continente nello scacchiere mondiale, non solo a livello economico e militare ma anche a livello culturale. Se alle Olimpiadi, ancora dominate da un’élite conservatrice europea, gli sport di origine non-occidentale si contano sulle dita di una mano, nei Giochi d’Asia aumentano di quadriennio in quadriennio. Nel 1951 le competizioni in programma erano tutte di origine occidentale; solo nel il sollevamento pesi alcuni paesi asiatici potevano vantare una certa tradizione. Tra il 1954 e il 1962 furono inseriti alcuni sport come la lotta, l’hockey su prato, il tennistavolo e il badminton che pur essendo di origine europea avevano un’importante diffusione in Asia. Dalla metà degli anni Sessanta a quella degli anni Ottanta furono aggiunti nel programma esclusivamente sport olimpici di origine occidentale. Nel 1986 spinti dal crescente peso politico-economico delle tigri asiatiche fecero il loro ingresso lo sport nazionale giapponese, il Judo, e quello coreano, il taekwondo.

La vera “rivoluzione asiatica” avvenne però negli anni Novanta quando apparvero sulla scena il kabaddi, lo sepaktakraw, il soft tennis, il wushu e il karate. Il kabaddi è uno sport tradizionalmente praticato nel subcontinente indiano in cui un atleta, seminudo e scalzo, affronta i quattro avversari cercando di lottare con uno di esso o semplicemente toccarlo prima di ritornare “sano e salvo” dietro la linea di partenza. Sviluppatosi come sport semiprofessionistico già dagli anni Trenta, il kabaddi è ampiamente diffuso fra la comunità indo-pakistana e bengalese del nostro paese, tant’è che la nostra nazionale ha conquistato un prestigioso quarto posto nella recente Kabaddi World Cup.

Lo sepaktakraw, sport assai praticato in Indocina è una specie di calcio-tennis indoor in cui si fronteggiano squadre composte da tre atleti utilizzando un piccolo pallone realizzato con intrecci di rattan (un tipo di palma). I maestri indiscussi del gioco sono i tailandesi.

Il soft tennis è uno sport prettamente asiatico (introdotto in Europa solo nel 2004), è molto simile al tennis, anche se prevede racchette più lunghe e palline più morbide.

Il wushu infine è il frutto della fusione di diverse arti marziali cinesi al fine di crearne un’unica riconoscibile a livello nazionale. In un certo senso l’evoluzione del wushu per la Cina rispecchia quella del judo giapponese e il passaggio da arte marziale a sport. Tuttavia difficilmente questo sport cinese riuscirà ad avere lo stesso successo internazionale del suo “rivale” giapponese.

Nell’edizione in corso si sono aggiunte le dragon boat, uno degli sport cinese per eccellenza che si sta diffondendo globalmente, e un po’ a sorpresa il cricket (versione Twenty20), che da qualche anno sta spostando inesorabilmente il suo baricentro dall’Inghilterra verso l’Asia. È curioso notare però come l’India non abbia mandato una squadra a competere in quello che rimane senza alcun dubbio il suo sport nazionale.

Di tutti questi sport di origine asiatica solo judo e karate sono riusciti a diventare sport globali in cui i migliori atleti non provengono esclusivamente dal paese in cui lo sport è nato e si è sviluppato tuttavia il loro possibile successo e la loro eventuale diffusione passa proprio dai Giochi d’Asia in corso in questi giorni a Guangzhou in Cina.

Nicola Sbetti

STORIA POLITICA DEGLI ASIAN GAMES

Venerdì 12 novembre si sono aperti in Cina i XVI° Giochi d’Asia. Se Pechino aveva avuto le Olimpiadi e Shanghai l’Expo, alla terza città della Cina, Guangzhou, sono toccati i Giochi d’Asia.

Nati nel secondo dopoguerra, dopo i falliti tentativi degli anni ’10 e ’30, i primi Asian Games si disputarono nel 1951 a Nuova Delhi in India. Questa scelta rispecchiava l’intenzione della neonata repubblica di svolgere un ruolo di guida politico-culturale fra sui suoi vicini. Le sole undici nazioni che vi parteciparono riflettevano la situazione di decolonizzazione e instabilità presente nel continente asiatico: del resto, nel 1951 era ancora in corso la Guerra di Corea.

Dal ’51 a oggi i Giochi si sono tenuti regolarmente in nove paesi diversi. Le squadre partecipanti sono passate da 11 a 45, gli atleti da 489 a 9.704 e gli sport da 6 a 42. Bangkok è stata la città che ha ospitato più edizioni, ben 4. Nel 1970 e nel 1978 la capitale della Tailandia salvò i Giochi dopo l’abbandono della Corea del Sud (1970) e del Pakistan (1978). Dal 1986 si disputano anche i Giochi d’Asia invernali e dal 2005 i Giochi d’Asia Indoor. L’ultima partecipazione di Israele fu quella del 1974; dopo di che, per ragioni politiche legate al crescente peso dei paesi arabi in seno all’Olympic Council of Asia, fu escluso e costretto a migrare nei Comitati Olimpici Europei.

È stato detto che il medagliere può essere visto come il barometro della salute delle nazioni. Personalmente non credo troppo a questa teoria, ma osservare la sua evoluzione resta sempre un esercizio molto interessante.

Dal 1951 al 1978, il Giappone, nazione sconfitta dalla guerra con un passato olimpico importante e bastione del cosiddetto occidente in Asia, ha dominato nettamente il medagliere, prima di cedere il passo alla Cina.

Quest’ultima, ammessa ai Giochi nel 1974, abbandonò l’ideologia maoista legata all’idea di uno sport salutista e non competitivo, ottenendo risultati stupefacenti. Con un sincronismo impressionante, infatti, i successi in campo sportivo andavano di pari passo a quelli economici. Dal 1982 a oggi la Cina ha sempre dominato il medagliere e, a partire dal 1990, le sue medaglie tendono ad essere più del doppio rispetto a quelle vinte dalla seconda. Ciò rende ancor più evidente l’egemonia, non solo sportiva, del paese sul continente.

I Giochi d’Asia sono stati anche un palcoscenico per le potenze medio-piccole. È il caso dell’Indonesia di Sukarno che sfruttò i giochi di Jakarta del 1962 per rafforzare il nazionalismo indonesiano e porsi come uno dei leader del movimento dei “non allineati”. Il veto a Israele e Taiwan da quell’edizione dei Giochi costò l’esclusione del Comitato Olimpico Indonesiano da parte del Cio.

La Corea del Sud, negli anni Sessanta, emerse anch’essa come potenza sportiva (ed economica) sotto il regime di Park Chung Hee. Poco prima di essere assassinato nel 1979, l’ex generale golpista aveva dato il là alla candidatura olimpica per Seul 1988.

Non fa testo invece l’India, la cui cultura sportiva è assai lontana da quella occidentale delle competizioni olimpiche, presenti in massa nei Giochi d’Asia. Gli unici sport di origine occidentale che appassionano realmente le folle indiane sono il cricket e, in seconda battuta, l’hockey su prato. Il suo essere una potenza asiatica con ambizioni globali quindi non si riflette, al contrario della Cina, nelle medaglie vinte, anche perché, se è vero che l’India vuole essere un “player” internazionale, è evidente che cerca di esserlo alle sue condizioni, non rinnegando la propria cultura.

Nicola Sbetti