STATI UNITI E SERBIA SBARRANO LA STRADA A ROMANIA E AUSTRALIA

Stati Uniti, Croazia e Spagna si qualificano ai Mondiali insieme alla Serbia, mentre Romania e Australia restano in lotta per un altro slot.

Fuori la Romania e l’Australia, dentro Serbia e Stati Uniti: questo il verdetto dei quarti di finale della Coppa FINA che hanno definito la composizione del tabellone alto e del tabellone basso del torneo. Restano quindi Stati Uniti, Croazia, Serbia e Spagna in lotta per il titolo e qualificate ai Mondiali di Shangai del prossimo anno. Nel tabellone basso invece occhi puntati su Australia e Romania che, con ogni probabilità, si scontreranno in una finale per il quinto posto con più argomenti del tabellone alto, visto che definirà quale tra le due squadre staccherà un pass per Shangai.

Nessun problema per Croazia e Spagna, impegnate rispettivamente contro l’Iran e la Cina. L’Iran per la quarta volta consecutiva affonda sotto oltre venti reti (sono 101 quelle subite finora dai persiani durante il torneo) e sotto i parziali di 6-0 e 8-1 dei primi due quarti. Per la nazionale di Rudić in meta quattro volte Bošković e il solito Sukno. La Spagna chiude la prima frazione di gioco in svantaggio per 2-1 contro i cinesi, per poi piazzare un allungo di 5-1 nel secondo quarto e amministrare senza problemi il match fino all’11-5 finale.

Più equilibrati gli altri due quarti di finale: la Serbia allunga nel secondo quarto e mantiene l’Australia costantemente a distanza di sicurezza, portandosi perfino a +5. In evidenza di nuovo Udovičić, protagonista dell’allungo decisivo, e Aleksić, autore di tre reti. Gli Stati Uniti faticano molto di più contro una Romania tenace, che riesce a imporre il pareggio a fine del terzo quarto. Solo nell’ultima frazione di gioco gli Stati Uniti si impongono nettamente, con un parziale di 5-3, e portano a casa una partita segnata dalle individualità dei rumeni Negrean e Iosep (4 reti a testa) e degli statunitensi Bailey (4 reti), Azevedo e Hutten (3 reti a testa).

QUARTI DI FINALE
Australia – Serbia 9-12
Romania – Stati Uniti 12-14
Spagna – Cina 11-5
Iran – Croazia 2-23

OGGI IN VASCA
Semifinali 5-8 posto

15:30 Australia – Cina
17:00 Romania – Iran

Semifinali 1-4 posto
18:30 Stati Uniti – Croazia
20:00 Serbia – Spagna

Damiano Benzoni

BRASILE E ARGENTINA: ANATOMIA DI DUE FALLIMENTI

Una chiave di lettura sull’eliminazione delle due sudamericane favorite per il titolo

Foto: EPA

Un Mondiale pubblicizzato come sudamericano ha perso le due regine ai quarti, con il solo Uruguay a vincere una partita persa. I motivi della disfatta di Brasile e Argentina sono di facile decrittazione. Contro l’Olanda è accaduto quello che sospettavamo: un Brasile senza nessun ricambio valido (tranne Dani Alves) che desse lo spunto decisivo per uscire da un gioco molto lineare è stato messo fuori dall’irruenza di Felipe Melo e dalla costanza dell’Olanda, capace di giocare allo stesso ritmo e con fraseggi molto simili per l’intero incontro (deve stare molto attenta all’Uruguay, capace di difendere forte e cambiare passo meglio del Brasile, anche se mancando Suárez, miglior attaccante del Mondiale insieme a Villa, perde tantissimo). Adesso la squadra deve rifondarsi e vincere in casa. Per questo motivo chi prenderà il posto di Dunga avrà all’inizio i benefici dell’effetto Prandelli (o post-Lippi, Dunga in questo caso), ma poi dovrà sobbarcarsi un lavoro psicologico tremendo. Brasile 2014 deve dare la sesta stella, c’è poco da stare lì a riflettere. Con quale Brasile, ad oggi, si arriverebbe ad un evento così importante? In difesa ci sono dei ricambi validi, primo fra tutti Thiago Silva, anche se Maicon, Lúcio e Juan non nascono ogni quattro anni. Il portiere potrebbe rimanere, anche se il vivaio è prolifico e qualche altro giovanissimo sulle fasce in Brasile nasce sempre. I veri problemi sono centrocampo e attacco.

La volontà di Dunga di giocarsela con chi gli ha fatto vincere Coppa America e Confederations Cup, convocando giocatori inutili (Júlio Baptista, Josué, Gilberto Melo, Grafite) lo ha lippizzato e ha creato lo stesso sconquasso generazionale in cui si trova l’Italia. Una generazione in Brasile è totalmente saltata e dei nati nella prima metà degli anni ’80 c’è il solo Robinho che può arrivare, da grande vecchio, all’appuntamento brasiliano. C’è da puntare quindi sui giovanissimi: qui sorge un altro problema che è invece tipico del paese sudamericano (a differenza dell’Argentina). Una marea di calciatori giovani lasciano prestissimo i loro club di appartenenza, come è sempre successo. Ma invece di arrivare in Italia, Spagna, Germania o Inghilterra, i dollaroni di Russia, Giappone, Grecia e addirittura Ucraina fanno più gola. Della squadra vicecampione mondiale under 20, Dunga non ha convocato nessuno. E, tra quelli che giocavano in quella squadra, Douglas Costa e Alex Texeira sono allo Šachtar Donec’k, Rafael Tolói è vicino ad una delle grandi di Mosca, Renan è allo Xerez in prestito dal Valencia, Diogo all’Olimpiakos, Alan Kardec al Benfica e Souza al Porto. Della squadra titolare della finale contro il Ghana nessun elemento gioca in una grande squadra europea, molti vincitori di quel match (solo ai rigori e in modo immeritato) giocano in squadre di seconda fascia europea, ma almeno sono stati convocati e hanno giocato già il loro primo Mondiale. Con una squadra completamente da rifare, giovani che non hanno nessuna grande esperienza internazionale e senza convocazioni in Nazionale, il Brasile è un cantiere in cui è tutto ancora da decidere.

Per l’Argentina invece, il discorso è molto diverso. Il più grande errore di Maradona è stato credere che Messi fosse lui. Un errore che ha creato le premesse per la figuraccia tattica di ieri. Ieri l’Argentina era una squadra da dopolavoro. Tutti fermi ad aspettare le accelerazioni di Lionel. Come accadeva nel 1986, secondo un calcio di mille anni fa. L’idea di Maradona era fotocopiare il 1986 e riproporlo grazie alla Pulce. Una difesa bloccatissima (Brown, Cuciuffo e Ruggeri erano tre centrali e Olarticoechea non garantiva una grandissima spinta), centrocampo di lotta con un mediano compassato che moderava i ritmi e faceva muovere a cadenza bassissime la squadra (e qui nasce il primo grande problema: Batista nel 1986 poteva giocare al calcio perché bastava fraseggiare a velocità da dopolavoro nella propria metà campo, mentre con il pressing di oggi Verón è improponibile e Maradona sapeva di non poterlo schierare dopo che lo aveva testato nella prima gara con la Nigeria), un attacco con un centravanti goleador e una seconda punta che svariava.

Il nodo e lo snodo è il numero 10. Lì c’era Maradona, che saltava gli uomini e riusciva a non imbottigliarsi mai (anche per la mancanza di pressing). In questo modo apriva spazio per gli altri due attaccanti che trovavano sempre la strada spalancata. Messi invece saltava i primi due e andava ad imbottigliarsi in mezzo a tre avversari che gli negavano tutti gli spazi di passaggio. In questo modo continuava a dribblare, perdendo palla o tirando in porta sbilanciato. Messi non è Maradona perché doveva capire di anticipare il tempo di passaggio, così da coinvolgere gli altri nel gioco e destabilizzare la difesa avversaria. Non è Maradona perché se vicino non gli metti Xavi e Iniesta che portano la palla pulita fino ai 25 metri, Messi non è capace di far muovere la squadra, costretta a stare appresso alle sue briciole. Nel Barcelona può aspettare a sinistra lo svolgimento del gioco e poi accendersi quando la difesa avversaria deve già prendere in carico l’intero fronte del gioco, mentre nell’Argentina, non avendo mediani di costruzione, parte dal centro e va a fare confusione sia a destra che a sinistra, bloccando qualsiasi gioco in fascia. Con un Verón, e non con Cambiasso e Zanetti che non avrebbero portato nessuna variante in questo sistema di gioco, questo gioco si poteva attuare, ma la Brujita era da pensione. Sciocco anche il richiamo a Milito, che sa giocare soprattutto in profondità con una batteria di mezze punte che portavano palla senza darla mai nello spazio. Maradona per me ha fatto il massimo con una squadra facilmente disinnescabile.