SPAGNA: AL BARCELLONA LA SUPERCOPPA

In Spagna, il primo trofeo della nuova stagione va al Barcellona che batte 4-0 il Siviglia con tre gol di Messi.

Alla faccia della rimonta. Lionel Messi ricomincia da una tripletta, una delle tante messe a segno in questo anno solare, e conduce il Barcellona ad una vittoria che più limpida non si può: 4-0 e Supercoppa di Spagna in cassaforte, la sconfitta di  Siviglia (3-1) cancellata dai gol dell’argentino, dalle  geometrie di Xavi e Iniesta, dalla rapidità di Pedro. Gli uomini di Guardiola conquistano così il primo trofeo stagionale e regalano a Sandro Rosell la prima gioia da nuovo presidente della polisportiva blaugrana.

Come annunciato alla vigilia, il tecnico catalano richiama tra le riserve i giovani prodotti del vivaio e punta tutto sui reduci dal Mondiale: nella retroguardia si rivedono il portiere Valdés ed il centrale Piqué, le chiavi del centrocampo sono affidate a Busquets e Xavi mentre in attacco Messi viene lanciato dal primo minuto e, sulla corsia opposta, trova spazio Pedro. Ibrahimović parte invece dalla panchina, così come David Villa. Il Siviglia è impegnato negli spareggi per l’accesso alla Champions’ League e si vede: Álvarez lascia momentaneamente a riposo i titolari e prova a difendere i due gol di vantaggio dell’andata con i rincalzi. Niente maglia da titolare per Cigarini, Perotti e Luís Fabiano, mentre Kanouté si accomoda sulle tribune del Camp Nou.

La strategia del tecnico andaluso dura nemmeno un quarto d’ora: Pedro riceve palla sulla destra ed esegue una strabiliante serpentina tra le maglie della difesa biancorossa, poi il suo passaggio rasoterra viene deviato in porta dal malcapitato Konko. L’autorete dell’ex genoano riapre, così, immediatamente la contesa. Che viene virtualmente chiusa undici minuti più tardi: splendida intuizione di Xavi che serve Messi nel corridoio centrale, al resto ci pensa la Pulga che batte in velocità l’addormentata difesa sivigliana e conclude alle spalle di Palop. Al Barcellona basterebbero queste due reti per alzare il trofeo e invece i culé non sono ancora sazi: grande azione tutta in velocità con tocchi di prima, ottima progressione di Dani Alves che serve il pallone del 3-0 a Messi, su cui Konko interviene in evidente ritardo.

Nella ripresa Álvarez prova a giocarsi i suoi assi, mandando in campo al quarto d’ora proprio i tre esclusi eccellenti. Ma la testa è ormai proiettata al ritorno della delicata sfida contro lo Sporting Braga che vale il visto per l’Europa. Nel frattempo Iniesta e Villa rilevano Bojan e Pedro e sono proprio i due nuovi entrati a creare i presupposti per la quarta ed ultima rete, che giunge allo scoccare del novantesimo: l’ex attaccante del Valencia lancia il compagno di squadra e di nazionale, nel cuore dell’area piccola si inserisce Messi che al quale Iniesta porge un assist facile facile da depositare in rete. È il trionfo catalano, sul quale però si materializza una piccola ombra, quella di Zlatan Ibrahimović: l’attaccante svedese rimane in panchina, scuro in volto. Saprà guadagnarsi la fiducia di Guardiola o la sua avventura a Barcellona è già giunta al capolinea?

Sabato 22 agosto 2010
BARCELLONA-SIVIGLIA 4-0 (3-0)
Camp Nou, Barcellona

BARCELLONA (4-3-3): Valdés; Alves, Piqué, Abidal, Maxwell; Busquets, Keita (86’ Adriano), Messi, Bojan (55’ Iniesta), Pedro (55’ Villa). All. Guardiola.

SIVIGLIA (4-4-2): Palop; Dabo, Konko, Escudé, Fernando Navarro; Jesús Navas, Zokora, Romaric (59’ Cigarini), Capel (59’ Luís Fabiano); Alfaro (59’ Perotti), Negredo. All. Álvarez.

ARBITRO: Fernando Teixeira.

GOL: 13’ Konko ag, 24’, 44’ e 90’ Messi.

NOTE: ammoniti Piqué e Romaric.

Simone Pierotti

BRASILE E ARGENTINA: ANATOMIA DI DUE FALLIMENTI

Una chiave di lettura sull’eliminazione delle due sudamericane favorite per il titolo

Foto: EPA

Un Mondiale pubblicizzato come sudamericano ha perso le due regine ai quarti, con il solo Uruguay a vincere una partita persa. I motivi della disfatta di Brasile e Argentina sono di facile decrittazione. Contro l’Olanda è accaduto quello che sospettavamo: un Brasile senza nessun ricambio valido (tranne Dani Alves) che desse lo spunto decisivo per uscire da un gioco molto lineare è stato messo fuori dall’irruenza di Felipe Melo e dalla costanza dell’Olanda, capace di giocare allo stesso ritmo e con fraseggi molto simili per l’intero incontro (deve stare molto attenta all’Uruguay, capace di difendere forte e cambiare passo meglio del Brasile, anche se mancando Suárez, miglior attaccante del Mondiale insieme a Villa, perde tantissimo). Adesso la squadra deve rifondarsi e vincere in casa. Per questo motivo chi prenderà il posto di Dunga avrà all’inizio i benefici dell’effetto Prandelli (o post-Lippi, Dunga in questo caso), ma poi dovrà sobbarcarsi un lavoro psicologico tremendo. Brasile 2014 deve dare la sesta stella, c’è poco da stare lì a riflettere. Con quale Brasile, ad oggi, si arriverebbe ad un evento così importante? In difesa ci sono dei ricambi validi, primo fra tutti Thiago Silva, anche se Maicon, Lúcio e Juan non nascono ogni quattro anni. Il portiere potrebbe rimanere, anche se il vivaio è prolifico e qualche altro giovanissimo sulle fasce in Brasile nasce sempre. I veri problemi sono centrocampo e attacco.

La volontà di Dunga di giocarsela con chi gli ha fatto vincere Coppa America e Confederations Cup, convocando giocatori inutili (Júlio Baptista, Josué, Gilberto Melo, Grafite) lo ha lippizzato e ha creato lo stesso sconquasso generazionale in cui si trova l’Italia. Una generazione in Brasile è totalmente saltata e dei nati nella prima metà degli anni ’80 c’è il solo Robinho che può arrivare, da grande vecchio, all’appuntamento brasiliano. C’è da puntare quindi sui giovanissimi: qui sorge un altro problema che è invece tipico del paese sudamericano (a differenza dell’Argentina). Una marea di calciatori giovani lasciano prestissimo i loro club di appartenenza, come è sempre successo. Ma invece di arrivare in Italia, Spagna, Germania o Inghilterra, i dollaroni di Russia, Giappone, Grecia e addirittura Ucraina fanno più gola. Della squadra vicecampione mondiale under 20, Dunga non ha convocato nessuno. E, tra quelli che giocavano in quella squadra, Douglas Costa e Alex Texeira sono allo Šachtar Donec’k, Rafael Tolói è vicino ad una delle grandi di Mosca, Renan è allo Xerez in prestito dal Valencia, Diogo all’Olimpiakos, Alan Kardec al Benfica e Souza al Porto. Della squadra titolare della finale contro il Ghana nessun elemento gioca in una grande squadra europea, molti vincitori di quel match (solo ai rigori e in modo immeritato) giocano in squadre di seconda fascia europea, ma almeno sono stati convocati e hanno giocato già il loro primo Mondiale. Con una squadra completamente da rifare, giovani che non hanno nessuna grande esperienza internazionale e senza convocazioni in Nazionale, il Brasile è un cantiere in cui è tutto ancora da decidere.

Per l’Argentina invece, il discorso è molto diverso. Il più grande errore di Maradona è stato credere che Messi fosse lui. Un errore che ha creato le premesse per la figuraccia tattica di ieri. Ieri l’Argentina era una squadra da dopolavoro. Tutti fermi ad aspettare le accelerazioni di Lionel. Come accadeva nel 1986, secondo un calcio di mille anni fa. L’idea di Maradona era fotocopiare il 1986 e riproporlo grazie alla Pulce. Una difesa bloccatissima (Brown, Cuciuffo e Ruggeri erano tre centrali e Olarticoechea non garantiva una grandissima spinta), centrocampo di lotta con un mediano compassato che moderava i ritmi e faceva muovere a cadenza bassissime la squadra (e qui nasce il primo grande problema: Batista nel 1986 poteva giocare al calcio perché bastava fraseggiare a velocità da dopolavoro nella propria metà campo, mentre con il pressing di oggi Verón è improponibile e Maradona sapeva di non poterlo schierare dopo che lo aveva testato nella prima gara con la Nigeria), un attacco con un centravanti goleador e una seconda punta che svariava.

Il nodo e lo snodo è il numero 10. Lì c’era Maradona, che saltava gli uomini e riusciva a non imbottigliarsi mai (anche per la mancanza di pressing). In questo modo apriva spazio per gli altri due attaccanti che trovavano sempre la strada spalancata. Messi invece saltava i primi due e andava ad imbottigliarsi in mezzo a tre avversari che gli negavano tutti gli spazi di passaggio. In questo modo continuava a dribblare, perdendo palla o tirando in porta sbilanciato. Messi non è Maradona perché doveva capire di anticipare il tempo di passaggio, così da coinvolgere gli altri nel gioco e destabilizzare la difesa avversaria. Non è Maradona perché se vicino non gli metti Xavi e Iniesta che portano la palla pulita fino ai 25 metri, Messi non è capace di far muovere la squadra, costretta a stare appresso alle sue briciole. Nel Barcelona può aspettare a sinistra lo svolgimento del gioco e poi accendersi quando la difesa avversaria deve già prendere in carico l’intero fronte del gioco, mentre nell’Argentina, non avendo mediani di costruzione, parte dal centro e va a fare confusione sia a destra che a sinistra, bloccando qualsiasi gioco in fascia. Con un Verón, e non con Cambiasso e Zanetti che non avrebbero portato nessuna variante in questo sistema di gioco, questo gioco si poteva attuare, ma la Brujita era da pensione. Sciocco anche il richiamo a Milito, che sa giocare soprattutto in profondità con una batteria di mezze punte che portavano palla senza darla mai nello spazio. Maradona per me ha fatto il massimo con una squadra facilmente disinnescabile.

LA GERMANIA PUNISCE MARADONA E VOLA IN SEMIFINALE

La Germania umilia l’Argentina di Maradona ed applica anche ai sudamericani la legge del quattro che gìà aveva riservato all’Inghilterra.

L'esultanza di Friedrich
Foto: Ansa.it

Finisce anche l’avventura dell’Argentina di Diego Maradona, umiliata a Cape Town dalla giovane Germania che sta sorprendendo partita dopo partita critici ed appassionati che alla vigilia dei Mondiali non la vedevano nel ruolo di protagonista.

L’assenza di Ballack, che poteva essere alla partenza di quest’avventura sudafricana un alibi, si è trasformata nella molla che ha permesso a Joachim Löw di impostare una squadra giovane e compatta con delle grandi individualità come Özil e Müller a innescare i terminali Klose e Podolski. Una esitazione con la Serbia nel girone e poi la gioiosa macchina da guerra tedesca si è messa in moto: quattro reti all’Inghilterra e quattro reti oggi contro l’Argentina.

La squadra di Maradona non ha potuto giocare la partita che aveva disegnato: uscita dagli spogliatoi senza gli occhi di tigre – forse un peccato di presunzione – è stata punita dopo 4′ da Müller (a proposito la squalifica che seguirà il cartellino giallo di oggi priva la semifinale di un protagonista) alla prima disattenzione difensiva e ha dovuto inseguire senza successo con il solito  evanescente Messi di questo Mondiale e con Higuaín e Tévez annullati dalla retroguardia tedesca.

Con il passare dei minuti le folate argentine continuavano ad infrangersi contro la diga di Löw mentre le ripartenze tedesche erano una spina nel fianco dell’Argentina; il secondo tempo, con Maradona che non cambia nulla fino a quando è troppo tardi, segue lo stesso copione fino alla rete del raddoppio di Klose (oggi alla centesima partita con la maglia della Nazionale) al 68′ che apre le porte alla pesante punizione. Segnano ancora Friedrich al 74′ e Klose al 89′ a chiudere un poker che lancia la Germania alla terza semifinale consecutiva mentre potrebbe chiudere l’era Maradona alla guida della Albiceleste. I futuri avversari sono avvisati: questa Germania fa tremendamente sul serio.

Sabato 3 luglio 2010
ARGENTINA – GERMANIA 0-4 (0-1)
Green Point, Città del Capo (RSA)

ARGENTINA: Romero, Otamendi (70′ Pastore), Demichelis, Burdisso, Heinze, M.Rodríguez, Mascherano (c), Di María (75′ Agüero), Higuaín, Messi, Tévez.
GERMANIA: Neuer, Lahm (c) Mertesacker, Friedrich, Boateng (72′ Jansen), Khedira (77′ Kroos), Schweinsteiger, Müller (84′ Trochowski), Özil, Podolski, Klose.

ARBITRO: Ravshan Ermatov (UZB)

GOL: 3′ Müller (GER), 68′ Klose (GER), 74′ Friedrich (GER), 89′ Klose (GER)

NOTE: ammoniti Mascherano, Otamendi (ARG), Müller (GER). Müller salta le semifinali in quanto già diffidato.

Massimo Brignolo