LA FAVOLA DI MORENO TORRICELLI

Moreno Torricelli, il “Geppetto” del Calcio degli Anni Novanta

Moreno TorricelliIl mondo dello sport, e del calcio in particolare, è una piramide spietata: tutti ambiscono alla vetta, ma solo in pochissimi ci arrivano. Ogni ragazzo che gioca nella squadra del quartiere sogna ad occhi aperti correndo dietro al pallone, immagina il suo futuro sui campi dorati della serie A invece che su quelli fangosi della periferia, pensa a quando alzerà quella Coppa con le “grandi orecchie” come hanno fatto Maldini, Zanetti, Vialli, Baresi e tanti altri miti del passato. Tuttavia, quei sogni sono destinati a rimanere tali: a meno che, sin dalla tenera età, non si dimostrino doti tecniche tali da meritarsi il passaggio al settore giovanile di una squadra professionistica, per iniziare la scalata al vertice. Pochi ce la fanno a seguire questa strada, e ancora meno sono quelli che, pur crescendo e debuttando in qualche categoria inferiore, vengono successivamente notati dagli osservatori delle big; perché è chiaro, ormai si preferisce puntare solo calciatori affermati, su improbabili stranieri oppure (caso già più raro) su qualcuno svezzato in casa dal proprio settore giovanile. Come se nella nostra serie D non ci fossero giocatori, magari già di 23 o 24 anni, degni di un’occasione, anzi, dell’Occasione, quella che ti cambia la vita, che ti fa realizzare i sogni dell’infanzia. È per questo che la storia di Moreno Torricelli ha dell’incredibile, considerando la fredda (e stupida) razionalità del calcio moderno.

Moreno Torricelli nasce ad Erba, nella Brianza comasca, il 23 gennaio 1970, e cresce nel paese di Inverigo in una famiglia dove la determinazione e lo spirito di sacrificio sono sempre state le parole d’ordine, dal bisnonno che lavorava come fuochista in filanda al papà che, nonostante l’impegnativo lavoro di camionista, troverà sempre il tempo per seguire Moreno nelle sue avventure col pallone. Calcisticamente muove i primi passi nella Folgore di Verano Brianza; in una stagione, nella categoria Allievi Regionali, passa in prestito al Como, che ai tempi frequentava la serie A, ma ritorna poi nella squadra di origine, con la sensazione che il treno sia passato per sempre. Sacrificio e determinazione, si diceva. Passato all’Oggiono, in Promozione, e successivamente alla Caratese, nel Campionato Nazionale Dilettanti, è ancora ai margini del calcio professionistico, e dunque ha sì uno stipendio, ma non sufficiente per vivere in modo tranquillo: così Moreno, tutti i giorni, lavora fino alla sei di sera al mobilificio Spinelli come magazziniere, prima di recarsi al campo di allenamento, tornando a casa comprensibilmente stremato. Il pallone è un passione, il ventiduenne Torricelli non si aspetta certo chissà quali novità: dopo una gioventù come libero, si è riadattato a fare il terzino tutto grinta e corsa, su intuizione di Roberto Dustin Antonelli, già regista nel Milan dello scudetto della Stella e tecnico di quella Caratese che, nella primavera 1992, viene visionata da Claudio Gentile. L’indimenticabile campione del Mondo del 1982 è il direttore sportivo del Lecco, squadra di serie C2, e viene impressionato favorevolmente da questo ragazzo alto e con i capelli a spazzola (sono ancora lontani i tempi del suo look incolto, quasi western). Così, Gentile suggerisce il nome a Giovanni Trapattoni, allenatore della Juventus, che lo convoca prontamente e sorprendentemente per le tradizionali amichevoli di fine stagione, quando altre società di serie C erano ormai pronte ad avanzare un’offerta. Moreno Torricelli si trova, all’improvviso, catapultato nel sogno, indossando la maglia di uno dei club più prestigiosi; certo, il ragazzo, come da tradizione familiare, è interista, ma ovviamente non ci sono problemi “sentimentali” di fronte ad un’opportunità del genere. Il Trap gli parla in dialetto, lo sprona, lo incita e Torricelli sfrutta al volo questa grande possibilità; durante l’estate, tre giorni prima della partenza, gli arriva la telefonata che gli cambia la vita, perché viene convocato al raduno estivo della squadra, proprio quando nemmeno lui ci credeva più, visto che il telegramma di convocazione mandato in precedenza non era mai giunto a destinazione a causa di un refuso sull’indirizzo.

Inizia così la favola di Geppetto, il babbo e falegname della storia di Pinocchio, nomignolo scelto da Roberto Baggio: pronti via, alla seconda giornata di campionato è già titolare, e da lì in poi non lascerà più la fascia destra della difesa bianconera. La Juve di Trapattoni non fa faville in serie A ma si scatena in Coppa Uefa, vincendo il trofeo a spese del Borussia Dortmund, col comasco inamovibile sulla linea arretrata. Dopo un’altra stagione ad alti livelli, nella quale i torinesi giungono secondi alle spalle del Milan, inizia l’era Lippi: il tecnico viareggino non ha uno splendido rapporto con Torricelli, del quale però non può fare a meno, contribuendo a farlo crescere sul piano tecnico e a rafforzare sempre più il suo ruolo di indispensabile per quella Juventus che, tra il 1995 e il 1998, vincerà ben tre campionati, una Champions League e una Coppa Intercontinentale. Sono tre annate indimenticabili per Geppetto che, proprio contro l’Ajax, nella finale di Coppa 1996 disputata all’Olimpico di Roma, gioca probabilmente la sua migliore partita, contenendo le azioni offensive di Kanu e Kluivert, la coppia gol dei Lancieri. La mamma, vedendo Moreno alzare quel trofeo con le grandi orecchie, piange davanti al televisore, come le era successo solamente con Antonio Cabrini ai Mondiali di Spagna 1982. In sei anni con la divisa bianconera totalizza 153 presenze realizzando un’unica rete, e superando un gravissimo infortunio nel marzo 1997 che gli causa la lesione del crociato anteriore del ginocchio. Nel frattempo, per lui si spalancano anche le porte della nazionale italiana, con la quale contro il Galles nel 1996 e prende parte agli sfortunati Europei di quello stesso anno. Nonostante i problemi fisici, Cesare Maldini lo chiama per i Mondiali 1998, dove però non scende mai in campo, per poi chiudere la sua esperienza azzurra con una serie di amichevoli durante la gestione di Dino Zoff.

Tuttavia, nell’estate 1998 qualcosa si rompe nel suo legame con la società bianconera: senza essere avvertito, la dirigenza lo mette sul mercato e Moreno, pur deluso da un trattamento simile, rifiuta un’importante offerta del Middlesbrough per accasarsi alla Fiorentina, dove ritrova l’amico Trapattoni sulla panchina. Sempre presente e sempre affidabile, in maglia viola disputa quattro stagioni davvero significative, con la squadra più volte ad un passo da uno storico scudetto, prima dell’inglorioso fallimento della gestione Cecchi Gori. Il comasco conclude la carriera con un’esperienza a Barcellona, nelle file dell’Espanyol, ed infine all’Arezzo, prima di lanciarsi nella carriera di allenatore: gestisce i ragazzi della Fiorentina e passa poi alla Pistoiese e al Figline. La carriera da tecnico è difficile e ricca di ostacoli, e probabilmente Geppetto deve ancora trovare la sua giusta dimensione per questo ruolo, per quanto anche in panchina riesca a sfoggiare quella grinta da falegname che lo ha contraddistino nei lunghi anni in serie A. Il fatto che in queste avventure sia sempre seguito dagli amici Anselmo Robbiati e Gianmatteo Mareggini, conosciuti in maglia viola, conferma come Firenze sia la città del cuore per Torricelli, dove tuttora continua a vivere con la sua famiglia: è infatti sposato con Barbara, dalla quale ha tre figli, che viene tragicamente a mancare nell’ottobre 2010, a causa di un male incurabile. In fondo, in ogni favola c’è sempre un lato triste.

UNA VITA A DUE RUOTE

Dieci anni in gruppo, quasi sempre a tirare per i più blasonati capitani, ma con alcune grandi soddisfazioni personali come la vittoria in una tappa al Giro d’Italia e in un’altra al Tour de France. Tante stagioni in ammiraglia, a dirigere Marco Pantani e Mario Cipollini, giusto per citarne due. E poi il suo inconfondibile accento toscano è diventato un simbolo, una garanzia di qualità per gli appassionati italiani delle due ruote, grazie alle sue telecronache con Andrea Berton, sulle frequenze di Eurosport. Senza dimenticare anche la passione dell’ippica, condivisa con un altro grande ex del ciclismo come Claudio Chiappucci, che lo porta a trottare per gli ippodromi d’Italia. Riccardo Magrini, classe 1954 di Montecatini Terme, è questo e tanto altro.

Riccardo Magrini, una vita legata al ciclismo: cosa ti spinse a salire in bicicletta?

«Ho cominciato la mia avventura casualmente, grazie al cugino di mio padre che aveva una bici da corsa e faceva il cicloamatore. Dopo essere stato promosso, chiesi ai miei un motorino in regalo, ma loro, ritenendolo troppo pericoloso, preferirono darmi una bicicletta da corsa. Così un giorno chiesi a Lauro Monti detto “Canardo”,il mio parente,  di portarmi con gli altri cicloamatori per vedere come fosse questo sport; pur senza forzare, li staccai tutti su una salitella, e proprio lui mi convinse a tentare la strada delle corse».

Com’era il Riccardo Magrini corridore? Qual è la vittoria che ricordi più volentieri?

«In gruppo mi chiamavano Jerry Lewis o Adriano Celentano, ma fondamentalmente per tutti ero il “Magro”, soprannome che mi è rimasto per sempre. Ero un corridore votato alla squadra, il classico gregario. Da dilettante andavo forte, e dopo la partecipazione ai Campionati del Mondo di Montreal nel 1974 sarei dovuto passare tra i professionisti, tuttavia rimasi ancora in quella categoria a causa di un inghippo regolamentare. Forse fu proprio questo episodio a condizionare tutta la mia carriera, ma comunque direi che è andata più che bene. La vittoria più bella? Beh, ho vinto solo tre gare e quindi le ricordo tutte volentieri: il Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, la tappa di Montefiascone al Giro d’Italia e quella di Île de Oléron al Tour de France nel 1983».

Poi sei salito in ammiraglia e hai diretto tanti grandi atleti: uno  rimasto nel cuore in particolare?

«Un nome secco: Marco Pantani».

L’esperienza di Eurosport, al fianco di Andrea Berton: come valuti questo lavoro? Dovessi ripartire da capo, rifaresti tutto il tuo percorso professionale?

«È un’esperienza bellissima che ho sempre desiderato di fare, sin da ragazzo. Grazie ad Andrea Berton sto avendo un grande consenso da parte di tanti appassionati che ci seguono assiduamente ed evidentemente apprezzano il nostro modo di raccontare il ciclismo. Se rifarei tutto? Correggendo qualche episodio sì, ma comunque non ho grossi rimpianti».

Quanto è diverso il ciclismo di oggi da quello che hai vissuto come atleta?

«Forse sono cambiati i rapporti umani, ma in fin dei conti, sia che vai in bici per divertimento, sia che lo fai per lavoro, alla base deve esserci sempre una grande passione. Il ciclismo è un bello sport proprio per questo».

Una curiosità: la tua insana passione per Carlos Barredo (corridore spagnolo della Rabobank, ndr) da dove deriva?

«(ride) È tutto nato dal mio modo di accostare, a volte, il cognome di un atleta con quello di altri personaggi. Con Carlos è stato facile, perché da Barredo a Barreto cambia solo una consonante, e quindi per me è diventato “Carlos Marino Barredo jr” giocando sull’assonanza del suo nome con un noto cantante cubano degli anni cinquanta, ovvero Don Marino Barreto jr. Il resto lo ha fatto lui col suo modo di interpretare le corse. Quando ho avuto il piacere di incontrarlo, si è dimostrato veramente molto gentile: da qui è nata l’insana passione, che mi porta a “tifare” per lui durante le varie competizioni».

Qualcuno ti avrà anche detto, nel corso degli anni, di “darti all’ippica”: alla fine hai seguito il consiglio… meglio un cavallo o una bicicletta?

«Entrambe sono due grandi passioni. Il cavallo da corsa è l’atleta, esattamente come il ciclista, quindi avresti dovuto chiedermi di scegliere tra la bici e il Sulky. In quel caso ti avrei risposto così: che tutti e due hanno un sellino e le ruote, la differenza la fa proprio l’atleta, e io stimo sia il corridore, sia il cavallo. Come dico sempre in telecronaca, “Donne, Cavalli e Corridori non c’ha mai capito nulla nessuno!».

COMMESSO, UNA VITA ALL’ATTACCO

La testa piegata sul manubrio, le mani sul volto per coprire le lacrime di rabbia e delusione. E’ questa l’immagine di Totò Commesso rimasta nella mente di molti appassionati: un corridore umano, non una macchina come certi suoi colleghi, che, dopo essersi visto soffiare una vittoria attesa da 4 anni, sfoga tutta la sua frustrazione. Tour de France 2006, quattordicesima tappa, traguardo di Gap: sotto un sole che spacca le pietre, si presenta sul rettilineo finale il napoletano in compagnia del francese Pierrick Fédrigo, al termine di una fuga lunga e combattuta, col gruppo trainato dalla Liquigas che cerca di rientrare fino all’ultimo metro. Totò è favorito, parte ai -150 metri, ma ha un rapporto troppo duro, e il suo compagno d’avventura lo passa, lo beffa, lo scaraventa nella disperazione. Uno dei momenti più duri nella carriera di questo bravo corridore, una vita sempre in fuga, sempre all’attacco, sempre pronto a sorprendere.

Nato a Torre del Greco, cittadina della provincia napoletana, il 28 marzo 1975, Salvatore Commesso detto Totò non segue la strada abituale dei giovani di quelle parti, una strada a forma di pallone da calcio: gli piace andare in bici, gli piace pedalare, e allora inizia a correre con la squadra degli zii paterni, il GS Macelleria Fratelli Commesso, nella categoria Esordienti, appena undicenne. Ma nel nostro Meridione il ciclismo non è così sviluppato e seguito come in Toscana, in Veneto e in Lombardia: le corse sono poche, e le trasferte da sobbarcarsi per mettere a frutto questa grande passione sono enormi e dispendiose. Per chi vuole fare il corridore professionista, l’unica via percorribile è emigrare al Nord, lasciandosi tutto alle spalle, inseguendo il proprio sogno. Totò non si tira indietro: d’estate va sempre a Cesana Brianza, nel lecchese, dove abitano alcuni parenti, e nel 1989 trasferisce definitivamente la sua residenza a Pusiano, sempre da quelle parti, tesserandosi per l’Unione Ciclistica Costamasnaga, in una realtà così diversa dalla sua Campania. In tre stagioni con la squadra brianzola conquista 25 successi, dando prova non solo di ottime doti da corridore, ma anche di un carattere allegro ed altruista che lo fanno stimare da tutti: con queste vittorie, e un buon numero di piazzamenti, si rende conto che il sogno di diventare professionista non è così irrealizzabile. Continua la trafila delle categorie giovanili, con società comasche e bergamasche: ai mondiali Under 23 del 1996, a Lugano, una sua lunga fuga spiana la strada alla tripletta azzurra, guidata dal suo corregionale Giuliano Figueras; nello stesso anno è campione regionale di categoria e la stagione successiva vince il titolo europeo e i Giochi del Mediterraneo.

Finalmente, nel 1998, dopo un percorso caratterizzato da sudore e sacrifici, Totò Commesso passa tra i professionisti, nella rossa Saeco di Re Leone Cipollini. Quello stesso anno vince una tappa al Giro del Capo, in Sudafrica, e coglie una serie di buoni piazzamenti, tra cui spiccano il terzo posto al Campionato di Zurigo e il quarto ad Amburgo in prove di Coppa del Mondo: questi risultati sono la conferma di come sia uno dei giovani più interessanti del panorama ciclistico italiano, dotato di una buona velocità negli sprint e soprattutto di una propensione all’attacco fuori dal comune. Il 1999, seconda stagione tra i pro, è forse la più bella per Commesso: il 28 giugno ad Arona si disputa il Campionato Nazionale e, dopo una corsa combattutissima, sul traguardo con vista sul Verbano si presentano in quattro, tre dei quali (Commesso, Petito e Celestino) in maglia Saeco. Proprio Celestino si sacrifica lanciando lo sprint ai compagni, e in volata Commesso sorprende tutti precedendo Petito, che non la prende propriamente bene perché quel giorno la squadra aveva lavorato per lui, e rimane stupito dall’esuberanza e da questa “mancanza di rispetto” dello scugnizzo napoletano. Comunque sia, Totò onora al meglio la maglia tricolore conquistata in queste condizioni un po’ particolari: al Tour de France dello stesso anno, nella tappa di Albi, il campione nazionale corona una fuga di ben 232 chilometri, precedendo in uno sprint senza storia l’altro azzurro Serpellini, e diventando così il primo napoletano di sempre ad imporsi in una frazione della Grande Boucle. In quell’anno, ad onor del vero, si macchia anche di una vicenda non propriamente onorevole, visto che alla Vuelta di Spagna reagisce agli insulti di uno spettatore con un cazzotto in diretta televisiva.

Tour de France e Tricolore, sono queste le corse della vita per il bravo Totò. Nel 2000, sempre in maglia Saeco, sempre alla corsa francese, stavolta sul traguardo tedesco di Friburgo, realizza un altro capolavoro: 242 chilometri di fuga, prima in compagnia e poi in coppia con il solo Vinokourov, puntualmente sconfitto nello sprint finale da questo napoletano piccolino (165 cm di statura) ma con due gambe che girano a meraviglia.

Nel 2002 invece, sulle strade trevigiane, dopo un paio di stagioni buie, segnate da soli due successi in Portogallo, la sua stella torna a splendere, vincendo il secondo campionato nazionale della sua vita, davanti a Dario Frigo e Francesco Casagrande. Quella stessa estate si aggiudica il Trofeo Matteotti e il Criterium d’Abruzzo, importanti classiche di metà stagione. Da lì in poi inizia una sorta di maledizione per questo corridore tanto amato dal pubblico: sempre all’attacco e sempre in fuga, non riuscirà più a trovare quella brillantezza e quella lucidità necessaria per vincere. Non si contano i suoi piazzamenti tra i primi cinque, tanto nelle frazioni di Giro e Tour quanto in svariate corse in linea: per sei, interminabili anni Commesso, che veste anche le maglie di Lampre e Tinkoff, insegue il successo senza ottenerlo, con punte di assoluto rammarico come quella descritta in apertura.

L’incantesimo si spezza in una tappa del Giro del Lussemburgo 2008 quando, con la divisa della piccola Preti Mangimi, può finalmente scatenare tutta la sua incontenibile gioia, tornando ad alzare le braccia al cielo dopo questa lunga e dolorosa astinenza. E’ l’ultimo squillo in carriera per questo simbolo della Campania ciclistica, che chiude la sua avventura da professionista accasandosi per due stagioni alla Meridiana-Kalev, la prima squadra della storia con base nel nostro Meridione. Un atleta particolare, sempre all’attacco senza paura e spesso senza calcoli, capace in questo modo di guadagnarsi gli apprezzamenti degli addetti ai lavori e del grande pubblico, come solo i veri campioni sanno fare.

IL FU NUOVO BATISTUTA

Il calcio italiano è ricco di storie dei cosiddetti “bidoni”: giocatori arrivati da ogni parte del mondo, magari con un curriculum di tutto rispetto, ma schiacciati dalle troppe attese che gravavano sulle loro spalle. O forse semplicemente mediocri, perché nello sport non ci sono solo i campioni. Da Blisset a Pancev, dal fratello di Maradona a quello di Zarate, ogni club della nostra serie A può vantare un elenco più o meno lungo di delusioni e fallimenti: il Napoli non fa eccezione, e José Luis Calderón rientra appieno in questa categoria.

Nato il 24 ottobre 1970 a La Plata,  città della provincia di Buenos Aires dove il calcio è più di una religione, muove i primi passi sportivi nel Club Defensores de Cambaceres, squadra della terza serie locale: sono gli anni dell’Argentina di Maradona, campione del mondo nel 1986 dopo il primo, contestato successo nel Mondiale casalingo del 1978. Alto 178 cm e con una buona potenza fisica, è una prima punta possente dotato di un discreto fiuto del gol, capace anche di mettere in mostra una tecnica degna dei migliori numeri 10: insomma, un giocatore che in attacco potrebbe fare faville in ogni posizione. A ventidue anni si trasferisce all’Estudiantes di La Plata, il glorioso e plurititolato club per il quale il Caldera, com’è soprannominato, fa il tifo sin da bambino. In tre stagioni, tra la massima serie e la serie B, segna ben 52 gol in 139 partite ufficiali, numeri assolutamente di tutto rispetto per un giocatore così giovane. Nel 1996 passa ad un’altra squadra ricca di storia e fascino, l’Independiente di Avellaneda, e con la maglia dei Diavoli Rossi realizza altre 23 reti in una sola stagione, facendo le prime comparse anche nella nazionale guidata da Daniel Passarella: il tutto gli vale le attenzioni del Napoli.

Il club campano infatti, dopo una stagione di basso profilo con l’unica soddisfazione della finale di Coppa Italia, è in cerca di qualche giocatore in grado di fargli fare il salto di qualità: il presidente Ferlaino non bada a spese e porta a casa il Principe Giannini, il funambolo Asanović, il geniale ma sregolato Allegri e appunto Calderón che, nel progetto del numero uno della società partenopea, con Protti e l’altro neoacquisto Bellucci andrà a costituire l’attacco più temibile della serie A. A Napoli poi, com’è noto, c’è un’attrazione particolare per gli argentini grazie allo straordinario e indelebile ricordo lasciato da Diego Armando Maradona, e dunque le attese attorno a questo oggetto misterioso venuto dal Sudamerica sono davvero tante. Attese che aumentano ulteriormente, quando durante l’estate il buon Calderón si lascia andare a dichiarazioni indimenticabili, come quella nella quale afferma di voler fare più gol di Angelillo, autore di 33 realizzazioni nella sola stagione 1958-1959: sarà forte, sarà bravo, ma di certo il novello Batistuta, altro soprannome che si porta dietro dall’Argentina, non trasuda umiltà.

Il Napoli di mister Mutti parte male: quattro punti in sei gare e l’allenatore bergamasco viene prontamente esonerato. Mazzone lo rimpiazza, ma quattro sconfitte in altrettante partite fanno saltare la seconda panchina dell’anno alla squadra partenopea; non va molto meglio a Galeone, che verrà licenziato alla ventesima giornata, mentre Vincenzo Montefusco, ultimo tecnico di quell’indimenticabile stagione, avrà l’amaro compito di traghettare la squadra verso una precoce retrocessione in serie B, con soli 14 punti totali, ben 24 in meno del Vicenza salvo. Cosa c’entra Calderón in tutto questo? Poco, a dir la verità. Arrivato al San Paolo con l’intenzione, come abbiamo visto, di spaccare record, mari e monti, pagato ben 7,5 miliardi di vecchie lire nonostante quella del Napoli fosse stata l’unica offerta presentata (e già lì si sarebbe potuto fiutare la puzza di bruciato), tra un proclama e l’altro il “bomber” argentino scende in campo solo sei volte, spesso per scampoli di partita, realizzando zero reti. Lui si lamenta pubblicamente, accusando i vari mister di schierarlo fuori ruolo o di non dargli abbastanza spazio: in compenso, il pubblico del San Paolo, resosi conto ben prima della dirigenza di questo pacco colossale, lo subissa di fischi ad ogni occasione. Lento e macchinoso come pochi altri giocatori apparsi in serie A e con una mira sotto porta piuttosto inguardabile, è anche poco considerato dai tecnici, come ricordato da alcuni ripetuti siparietti tra il presidente Ferlaino, che spinge per vedere in campo questo costoso gioiello, e il mister Mazzone che risponde “Se m’incavolo, lo faccio giocare sul serio!”. A nulla valgono le notevoli interviste rilasciate ai giornali locali e nazionali, nelle quali, oltre a parlare spesso in terza persona (altra prova di un’umiltà evidentemente non eccelsa), dice di aver bisogno di tempo per capire il calcio italiano e per entrare nei vari meccanismi, oltre che ovviamente di spazio per giocare. Il dato inconfutabile è che Calderón viene prontamente fatto fuori a gennaio, tornando all’Independiente, che lo paga circa un terzo di quanto aveva incassato d’estate: insomma, un vero pacco, anche dal punto di vista economico.

Scacciato da Napoli, dove è rimasta la tradizione di chiamare “Calderón”i bidoni di ogni calciomercato, questo giocatore si ricostruisce un’apprezzabile carriera tra Independiente, Estudiantes, Argentinos Juniors, Arsenal de Sarandí e due squadre messicane, con anche qualche prova memorabile come un gol da oltre 40 metri segnato nel 1998 al Boca Juniors: tuttavia, le buone prestazioni in questi campionati non sono sufficienti a farlo rientrare nel giro della Selección, né tantomeno a concedergli una seconda chance in Europa, anche a causa di un carattere difficilmente gestibile. Certo, forse i 200 gol in carriera, tra Argentina e Messico, sono una testimonianza del suo buon talento: inoltre, il Napoli di quella dannata stagione non era certo l’ambiente migliore dove confermarsi; resta il fatto che comunque, per demeriti propri o per sfortuna, José Luis Calderón è ricordato da tutti gli appassionati di calcio, non solo da quelli partenopei, come uno dei fiaschi più colossali della storia calcistica italiana.

 

ROBERTO LAISEKA, CUORE BASCO

Andiamo alla scoperta di Roberto Laiseka, uno dei principali intepreti del ciclismo basco

Roberto LaisekaDa anni ormai, in ogni grande corsa a tappe del ciclismo mondiale c’è una presenza fissa, una squadra che non cambia né sponsor né maglia: è la Euskaltel-Euskadi, una vera nazionale basca, formata unicamente da corridori e tecnici di questa particolare comunità della Spagna pirenaica. Sin dal 1994 le divise arancioni di questo team sono il simbolo ciclistico dei Paesi Baschi: persino le biciclette usate dagli atleti, di marca Orbea, sono fabbricate in quella regione. Considerando il paesaggio tipicamente montano della zona in questione, non c’è da stupirsi che quasi tutti i ciclisti della Euskaltel siano scalatori puri. Nelle tappe di montagna, infatti, sono sempre tra i protagonisti principali, incitati da migliaia di loro tifosi e corregionali che accorrono sulle principali salite alpine e pirenaiche, colorando di arancione la giornata al grido di “Gora Euskadi”, forza Paesi Baschi. Roberto Laiseka, al pari di Iban Mayo e Haimar Zubeldia, è stato uno dei principali interpreti non solo del ciclismo basco, ma anche del carattere mai domo, fiero ed orgoglioso di quella gente.

Nato a Guernica, la città immortalata in tutto il suo dolore da Pablo Picasso, il 17 giugno 1969, Laiseka cresce negli anni in cui, a breve distanza, si alternano due campionissimi delle due ruote, ovvero Eddy Merckx e Bernard Hinault, stagioni nelle quali il ciclismo spagnolo è comunque brillante con ottimi atleti dal calibro di Luis Ocaña, José Manuel Fuente e Pedro Delgado. Alto e slanciato (184 cm per 63 kg), Roberto ha dunque il “phisique du role” per fare lo scalatore. Dopo la tradizionale gavetta nelle categorie giovanili e dilettantistiche, passa tra i professionisti nel 1994, con la neonata Euskadi. Nelle prime stagioni da professionista non riesce a dare pieno sfogo alle sue grandi capacità, sbagliando spesso i tempi dell’azione in corsa: anno dopo anno tuttavia, l’esperienza accumulata gli permette di guadagnare lucidità e razionalità, doti fondamentali per vincere ad alto livello, perché anche nelle tappe di montagne, notoriamente le più spettacolari, spesso non bastano un gran cuore e due gambe in forma per poter trionfare. Per scoprire la gioia della vittoria, Laiseka deve aspettare i 30 anni: è la diciottesima tappa della Vuelta a España 2000, con traguardo sul temibile Alto de Abantos, salita che l’atleta basco doma sfruttando in maniera perfetta la volontà di Ullrich, Gonzales de Galdeano e Heras, i big della classifica, di controllarsi reciprocamente; in un mare di bandiere arancioni, Roberto transita per primo sul traguardo con una ventina di secondi sul belga Vandenbroucke, straordinario e sfortunato campione. L’anno dopo la stessa corsa gli regala il secondo urrà della carriera: al termine di una lunga fuga a sei, Laiseka scatta ad una manciata di chilometri dall’ambito traguardo di Andorra-Arcalis, facendo letteralmente il vuoto, visto che il secondo classificato, il bravo Carlos Sastre, è a quasi un minuto di distacco. Sfiora il successo anche dieci giorni più tardi, a Ciudad Rodrigo, ma qualche incomprensione di troppo con l’altro fuggitivo García Acosta permette al kazako Vinokourov di rientrare su di loro, beffandoli a 400 metri dall’arrivo, tra lo sconforto generale del pubblico. Per quanto in montagna sia sempre tra i protagonisti, Laiseka perde un’eternità nelle prove a cronometro, come succede sempre agli scalatori più puri, e quindi non può mai essere pienamente competitivo per la vittoria finale di una grande corsa a tappe, dovendosi accontentare solo di qualche piazzamento: infatti, potrà vantare al massimo un sesto posto nella graduatoria generale proprio di quella Vuelta.

L’impresa più bella della sua carriera non arriva sulle strade spagnole, ma su quelle francesi: è la quattordicesima tappa del Tour de France 2001, ultima frazione di montagna di quella Grande Boucle, col traguardo posto a Luz Ardiden, spettacolare località pirenaica. Ullrich, Kivilev e Beloki non hanno né le possibilità né le gambe per attaccare Lance Armstrong, dominatore assoluto, per la seconda delle sue sette volte, di quel Tour, e dunque c’è spazio per i cacciatori di tappe, per gli scalatori puri in cerca di gloria. La lunga fuga partita sin dal mattino si sparpaglia tra l’Aspin e il Tourmalet, e il bergamasco Wladimir Belli, eterno piazzato del grande ciclismo (basti pensare ai 25 piazzamenti tra i primi dieci in tappe del Giro d’Italia, senza la gioia di un successo), culla il sogno dell’impresa, ma non ha fatto i conti con Roberto Laiseka: quel giorno, l’atleta basco non è da solo, perché tutto il suo popolo è sulle strade di quell’ascesa, tra prati e tornanti, in un tripudio di bandiere arancioni e di Gora Euskadi. Ai -10 dal traguardo Laiseka rompe gli indugi, salutando il gruppo dei migliori e piazzandosi all’inseguimento del bergamasco, ormai sfinito, raggiungendolo nel giro di pochi minuti. In testa da solo, gli ultimi chilometri segnano il vero trionfo del ragazzo di Guernica, incitato da due ali di folla che sembrano due pareti umane a fianco della strada: uno spettacolo, quello di un pubblico del genere, che solo il ciclismo sa regalare. Laiseka passa la linea d’arrivo facendosi ripetutamente il segno di croce e fatica, dopo uno sforzo ed un’emozione del genere, a trovare il fiato e le parole giuste per rispondere alle domande degli incombenti cronisti; Belli, che dedica il piazzamento al compianto Casartelli, è secondo a 54’’.

Dopo quel giorno di gloria, il Cuore Basco di Laiseka, sempre più in sintonia con una grande lucidità tattica e un’ottima visione di corsa, brillerà altre due volte: ad Arrate, nella Bicicletta Basca del 2004, e ad Aramón Cerler, stazione sciistica dell’Aragona, nella Vuelta 2005. Appende la bicicletta al chiodo al termine della stagione successiva, a 37 anni suonati solamente a causa di un infortunio al ginocchio: la sua carriera gli ha regalato solo cinque successi, ma di una qualità veramente straordinaria. Le tredici stagioni in sella lo hanno visto indossare unicamente la casacca dell’Euskaltel-Euskadi, contribuendo a renderlo un vero idolo dei tifosi baschi, tra i quali è ancora oggi idolatrato come una delle principali espressioni sportive del coraggio, del temperamento e, appunto, del cuore di quella popolazione.