MORTO ANTON GEESINK, PRIMO JUDOKA A SCONFIGGERE I GIAPPONESI

Anton GeesinkIl 27 agosto è morto in un ospedale di Utrecht, la stessa città dove era nato nel 1934, Anton Geesink, il gigantesco judoka olandese (2 metri per 115 chili), vincitore della medaglia d’oro nella categoria open (senza distinzioni di peso) alle olimpiadi di Tokyo nel 1964.

Fu proprio alle Olimpiadi di Tokyo che il judo venne sdoganato per la prima volta come disciplina olimpica, e secondo tutti i pronostici, i maestri giapponesi avrebbero dovuto conquistare tutte e quattro le medaglie in palio; ma Anton Geesink arrivò a rovinare la festa che i 15mila spettatori dell’arena del Nippon Budokan (quella che nel 1966 avrebbe ospitato la tournée dei Beatles) stavano già preparando. Infatti, dopo appena nove minuti di gara l’olandese riuscì sorprendentemente a stendere al tappeto per tutti i 30 secondi previsti dal regolamento il beniamino di casa Akio Kaminaga, facendo calare un silenzio glaciale tra il pubblico di casa.

Comunque, già alla finale dei campionati mondiali di Parigi del 1961, Geesink si era rivelato come il primo judoka capace di sconfiggere un campione giapponese. In questo caso la vittima predestinata era stata il detentore del titolo precedente, quello di Tokyo 1958: il trentatreenne Koji Sone.
Anton Geesink, per la precisione Antonius Johannes, si era affacciato al judo a 14 anni, e dopo appena due anni, nel 1950, aveva conquistato il titolo olandese, finché la passione per questo sport e una metodica volontà di perfezionamento lo avevano spinto fino in Giappone, dove avrebbe incontrato i migliori istruttori sulla piazza mondiale.

La trasferta nel paese del sol levante si era rivelata proficua, e nel 1952 era arrivato a conquistare il suo primo titolo europeo. Sarebbe stato solo il primo anello di una collana di trionfi di livello internazionale davvero formidabile: 21 titoli europei, due mondiali ed uno olimpico. Dotato di un appetito ancora più formidabile, tanto da fargli divorare a pranzo un pollo fritto e mezzo, innaffiato da una cassetta di birre in lattina, come avrebbe poi ricordato il suo collega statunitense e medaglia di bronzo a Tokyo ’64, Jim Bregman, in Olanda era considerato un eroe nazionale. Nella sua Utrecht gli erano stati dedicati una strada e un monumento, e la regina Beatrice gli aveva conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine di Orange-Nassau per meriti sportivi.

Dopo essersi ritirato dalle competizioni ufficiali nel 1967, si dedicò al wrestling professionistico, che praticò soprattutto in Giappone, per ritornare poi al judo negli anni ’80, prima come istruttore e poi come dirigente sportivo. E in quest’ultima veste, dal 1987 rivestì ininterrottamente la carica di membro del Comitato Olimpico Internazionale (CIO).

Giuseppe Ottomano

È MORTO HAROLD CONNOLLY, MARTELLISTA ROMANTICO

Harold ConnollyIl campione olimpico di lancio del martello Harold Connolly è morto il 18 agosto, per un attacco cardiaco mentre stava facendo ginnastica in una palestra di Catonsville nel Maryland, la cittadina dove viveva con la sua seconda moglie.

Nove volte campione nazionale statunitense e medaglia d’oro nel martello alle Olimpiadi di Melbourne del 1956, Connolly era nato nel Massachussets nel 1931 con una malformazione al braccio sinistro che ne aveva menomato lo sviluppo.

Proprio per tonificare la muscolatura delle braccia, aveva cominciato a praticare il lancio del martello negli anni del college a Boston, e nel 1955 era diventato il primo statunitense a superare il muro dei 200 piedi, con un lancio di 61,42 m.

Durante le Olimpiadi di Melbourne era balzato agli onori delle cronache per la sua love story con un’altra medaglia d’oro nei lanci: la discobola cecoslovacca Olga Fikotovà, conosciuta al villaggio olimpico.

Sbocciata in piena guerra fredda, la loro passione, al pari di due moderni Romeo e Giulietta, era stata ostacolata dai pessimi rapporti diplomatici tra i loro rispettivi paesi; e solo la titanica determinazione di Connolly, che nel 1957 andrà a chiedere (e ottenere) la mano di Olga ai massimi dignitari del regime cecoslovacco, renderà possibile il loro matrimonio a Praga, con una spettacolare cornice di due ali di folla festante.

La coppia andrà a vivere negli Stati Uniti, farà un figlio che diventerà un discreto decatleta, per poi scoppiare e divorziare a metà degli anni settanta. Nel frattempo Connolly partecipa ad altri tre giochi olimpici, quelli di Roma 1960, Tokyo 1964 e Città del Messico 1968. Fallisce di poco la qualificazione per quelli di Monaco 1972, classificandosi al quinto posto nei Trials alla veneranda età di quarantun anni.

Sia durante la carriera sportiva (da dilettante), che dopo il ritiro, Harold Connolly aveva lavorato come insegnante alle scuole superiori, e nel 1983, nel corso di un’intervista al New York Times aveva candidamente ammesso l’uso di steroidi anabolizzanti. Niente di illegale per quei tempi, comunque. Gli steroidi anabolizzanti verranno banditi ufficialmente solo nel 1976.


Giuseppe Ottomano

OBITUARIES: NINO DEFILIPPIS

Nino DefilippisMentre il Tour de France sta celebrando la sua tappa alpina per eccellenza, il mondo del ciclismo perde Nino Defilippis, il “cit” delle due ruote italiane. Nato a Torino nel 1932, Defilippis si guadagna l’appellativo di “cit”, ragazzo in piemontese, quando all’età di 20 anni 2 mesi e 15 giorni diventa il più giovane vincitore di una tappa del Giro d’Italia imponendosi nella Sanremo – Cuneo.

Specialista delle corse di un giorno, Defilippis ha al suo attivo il Giro di Lombardia del 1958, 9 tappe del Giro d’Italia. 7 tappe del Tour de France, 2 campionati italiani e un secondo posto ai Campionati Mondiali del 1961 a Berna quando fu preceduto in volata solo dal belga Rik van Looy. Non disdegnando le gare a tappe salì sul podio del Giro d’Italia del 1962, terzo a 5’02” dal vincitore Franco Balmamion, e fu primo degli italiani nel Tour de France del 1956 quando chiuse al quinto posto a 10’25” dal francese Roger Walkowiak.

Ritiratosi dall’attività agonistica nel 1964, ricoprì il ruolo di commissario tecnico della nazionale professionistica dal 1972 al 1975: siedeva sull’ammiraglia azzurra nel 1973 al Montjuïc quando Felice Gimondi conquistò la maglia iridata superando in una volata a quattro Eddy Merckx, Freddy Maertens e lo spagnolo Luis Ocaña.

Massimo Brignolo

ADDIO HERBERT ERHARDT

Campione del Mondo senza giocare nemmeno un match e in seguito capitano della Germania Ovest: si è spento Erhardt.

Mentre la Germania demoliva l’Argentina 4-0, un pezzo della sua storia se ne andava, a soli tre giorni dal suo ottantesimo compleanno: Herbert Erhardt. Nato il sei luglio 1930 a Fürth, dove poi si sarebbe spento, iniziò la sua carriera nella squadra locale a diciott’anni. Difensore centrale, duro negli interventi e punto di riferimento dei compagni sul campo, fece la sua prima apparizione con la maglia della Germania Ovest nel 1953, guadagnando poi la convocazione per la Coppa del Mondo dell’anno successivo, che i tedeschi vinsero. Sebbene l’allenatore Sepp Herberger avesse considerato l’idea di utilizzarlo nella controversa finale con l’Ungheria, Erhardt non scese mai in campo durante quel Mondiale, stabilendosi come punto fermo della nazionale solo successivamente, nell’inedito ruolo di stopper. Nel 1962 si trasferì al Bayern Monaco, dove terminò la sua carriera due anni più tardi, e si ritirò dalla nazionale, dopo 50 partite, sedici delle quali disputate con la fascia di capitano al braccio.

Damiano Benzoni

OBITUARIES: ROBERTO ROSATO E MANUTE BOL

Roberto Rosato, calciatore italiano che disputò la “Partita del Secolo”, e Manute Bol, altissimo cestista sudanese che affiancò all’NBA l’attivismo politico e umanitario.

Si festeggiava pochi giorni fa il quarantesimo anniversario del Partido del Siglo, la partita del secolo che vide Italia e Germania affrontarsi allo stadio Azteca di Città del Messico alla Coppa del Mondo del 1970: dopo un pareggio 1-1 alla fine dei tempi regolamentari, i supplementari resero la partita immortale, con cinque reti segnate per un risultato finale di 4-3 per gli azzurri. Tra i giocatori che componevano quella nazionale c’era il torinese Roberto Rosato, nato il 18 agosto 1943 a Chieri: ai tempi dell’Azteca giocava per il Milan, dove approdò nel 1966 dopo sei stagioni al Torino. Tre anni dopo quel Mondiale, Rosato si trasferì al Genoa, per poi chiudere la propria carriera con due stagioni all’Aosta verso la fine degli anni ’70. In nazionale collezionò 37 presenze tra il ’65 e il ’72, vinse un Europeo e, alla fine della finale mondiale persa 4-1 con il Brasile nel 1970, scambiò la maglietta con Pelé. Morto a 67 anni dopo aver combattuto per un decennio contro il cancro, è stato ricordato dalla nazionale italiana che, in suo onore, ha indossato il lutto nell’incontro con la Nuova Zelanda.

Nel week-end il mondo dello sport ha detto addio anche a Manute Bol, il cestista sudanese alto 2 metri e 31 che giocò per nove anni in NBA: scoperto dagli Washington Bullters, giocò anche per Golden State Warriors, Philadelphia 76ers e Miami Heat. Recordman di tiri bloccati grazie alla sua altezza straordinaria, fuori dal campo Manute Bol era un uomo molto impegnato in cause umanitarie a favore del Sudan. Nel 2001 gli fu offerta la carica di ministro dello sport del paese, che Bol rifiutò per non essere costretto a convertirsi all’Islam. Un’insufficienza renale l’ha stroncato lo scorso sabato, all’età di 47 anni.

Durante il fine settimana si sono spenti anche Lai Sun Cheung, ex-allenatore della nazionale di calcio di Hong Kong, il pilota di NASCAR Raymond Parks e il cricketer indiano Gundibail Sunderam.

Damiano Benzoni