NUOVI SPORT ASIATICI ALL’ARREMBAGGIO

L’evoluzione degli sport dei Giochi d’Asia rispecchia la sempre maggior centralità del continente nello scacchiere mondiale, non solo a livello economico e militare ma anche a livello culturale. Se alle Olimpiadi, ancora dominate da un’élite conservatrice europea, gli sport di origine non-occidentale si contano sulle dita di una mano, nei Giochi d’Asia aumentano di quadriennio in quadriennio. Nel 1951 le competizioni in programma erano tutte di origine occidentale; solo nel il sollevamento pesi alcuni paesi asiatici potevano vantare una certa tradizione. Tra il 1954 e il 1962 furono inseriti alcuni sport come la lotta, l’hockey su prato, il tennistavolo e il badminton che pur essendo di origine europea avevano un’importante diffusione in Asia. Dalla metà degli anni Sessanta a quella degli anni Ottanta furono aggiunti nel programma esclusivamente sport olimpici di origine occidentale. Nel 1986 spinti dal crescente peso politico-economico delle tigri asiatiche fecero il loro ingresso lo sport nazionale giapponese, il Judo, e quello coreano, il taekwondo.

La vera “rivoluzione asiatica” avvenne però negli anni Novanta quando apparvero sulla scena il kabaddi, lo sepaktakraw, il soft tennis, il wushu e il karate. Il kabaddi è uno sport tradizionalmente praticato nel subcontinente indiano in cui un atleta, seminudo e scalzo, affronta i quattro avversari cercando di lottare con uno di esso o semplicemente toccarlo prima di ritornare “sano e salvo” dietro la linea di partenza. Sviluppatosi come sport semiprofessionistico già dagli anni Trenta, il kabaddi è ampiamente diffuso fra la comunità indo-pakistana e bengalese del nostro paese, tant’è che la nostra nazionale ha conquistato un prestigioso quarto posto nella recente Kabaddi World Cup.

Lo sepaktakraw, sport assai praticato in Indocina è una specie di calcio-tennis indoor in cui si fronteggiano squadre composte da tre atleti utilizzando un piccolo pallone realizzato con intrecci di rattan (un tipo di palma). I maestri indiscussi del gioco sono i tailandesi.

Il soft tennis è uno sport prettamente asiatico (introdotto in Europa solo nel 2004), è molto simile al tennis, anche se prevede racchette più lunghe e palline più morbide.

Il wushu infine è il frutto della fusione di diverse arti marziali cinesi al fine di crearne un’unica riconoscibile a livello nazionale. In un certo senso l’evoluzione del wushu per la Cina rispecchia quella del judo giapponese e il passaggio da arte marziale a sport. Tuttavia difficilmente questo sport cinese riuscirà ad avere lo stesso successo internazionale del suo “rivale” giapponese.

Nell’edizione in corso si sono aggiunte le dragon boat, uno degli sport cinese per eccellenza che si sta diffondendo globalmente, e un po’ a sorpresa il cricket (versione Twenty20), che da qualche anno sta spostando inesorabilmente il suo baricentro dall’Inghilterra verso l’Asia. È curioso notare però come l’India non abbia mandato una squadra a competere in quello che rimane senza alcun dubbio il suo sport nazionale.

Di tutti questi sport di origine asiatica solo judo e karate sono riusciti a diventare sport globali in cui i migliori atleti non provengono esclusivamente dal paese in cui lo sport è nato e si è sviluppato tuttavia il loro possibile successo e la loro eventuale diffusione passa proprio dai Giochi d’Asia in corso in questi giorni a Guangzhou in Cina.

Nicola Sbetti

GLI AUTORI

In rigoroso ordine alfabetico:

ANDREA BACCI: Nato a Chiusi nel 1970, è laureato in Scienze Politiche con una tesi sul giornalismo sportivo e sullo sport durante il fascismo e si guadagna da vivere istruendo passaporti e porti d’arma in un Commissariato P.S., cosa che dovrà fare per almeno per altri 25 anni se tutto va bene. Nel tempo libero, oltre che dedicarsi a una moglie e a tre bambini gemelli, scrive libri di sport: tredici delle sue quattordici pubblicazioni hanno carattere sportivo, nel 2007 con uno dei suoi libri, “L’ultimo volo dell’Angelo biondo” (Limina) sulla vita dello sfortunato pugile Angelo Jacopucci, ha vinto il Selezione Bancarella Sport. Il suo ultimo libro è “Quell’ultima notte a Las Vegas” sulla carriera dei grandissimi Marvelous Marvin Hagler e Sugar Ray Leonard e del loro famoso incontro del 1987, titolo che inaugura la collana “jab sinistro, gancio destro” dell’editore Bradipolibri dedicata alle storie della boxe e curata da Bacci medesimo. Preferirebbe, e di molto, vedere una riunione di boxe piuttosto che uscire con Belen Rodriguez.

DAMIANO BENZONI: Nato a Cantù nel 1985, laureato in Scienze e Tecnologie della Comunicazione Musicale e attualmente studente di Scienze Politiche e giornalista freelance, ha collaborato con diverse testate occupandosi di sport e politica (per la versione online di Limes e per il webmagazine Les Enfants Terribles) o di rugby locale (per Varese Web), svolgendo anche per un periodo l’attività di addetto stampa per l’Amatori Tradate Rugby Club, società in cui gioca nel ruolo di seconda linea. Ha partecipato alla redazione di diversi siti di informazione e storia sportiva come Pallaovale Rugby Site, Rugby Union, Storie di Sport e Sport Vintage. Attualmente collabora con la rivista mensile Rugby! e con la redazione locale di Lecco e Como de Il Giorno, occupandosi di calcio, rugby e pallanuoto, oltre a svolgere attività varie di ricerca sportiva.

MASSIMO BRIGNOLO: Nato a Torino il 15 maggio 1961, laureato in Economia Aziendale e responsabile finanziario di una divisione di una grande multinazionale americana. Pur amando e seguendo il calcio sin dalla più tenera età, conduce una personale battaglia contro la discriminazione operata da stampa e televisione nei confronti delle altre discipline sportive; dal febbraio 2007, cura, per il network italiano di blog professionali Blogosfere, il blog Olimpiadi attraverso il quale segue tutti gli sport del programma olimpico preparandosi all’appuntamento di Londra 2012 dopo aver vissuto i Giochi di Pechino con più di 200 ore di diretta web.

GIUSEPPE OTTOMANO: Nato a Bari il 29 ottobre 1965, e residente a San Donato Milanese, da un quarto di secolo lavora felicemente come contabile, e nel 2009 ha contribuito alla creazione del sito SportVintage, al quale collabora tuttora altrettanto felicemente. Grandissimo appassionato di sport tra l’infanzia e l’adolescenza, si considera una memoria storica degli avvenimenti sportivi intercorsi tra gli anni settanta e ottanta, senza disdegnare affatto escursioni in periodi differenti.

FRANCESCO FEDERICO PAGANI: nato a Tradate nel 1985,  laureando in Scienze della Comunicazione presso l’Insubria di Varese, fonde le sue due più grandi passioni – calcio e scrittura – in un blog che lo porta a farsi conoscere ed apprezzare da più parti. Collabora quindi con diversi siti (come Goal.com, Uccellinodidelpiero e la fan page Facebook di Volvo Italia, per cui segue l’Italia al Mondiale) e partecipa sin da subito con entusiasmo al progetto Pianeta Sport, sul cui sito diverrà redattore della rubrica di tattica calcistica “Quattroduequattro”.

MARCO REGAZZONI: Nato a Varese nel 1989, laureando in Scienze Politiche, è un grande appassionato di storia, politica e sport, in particolare di ciclismo, discipline invernali e calcio (l’unico sport praticato semi-seriamente da ragazzo, come portiere della squadra del quartiere). E’ riuscito a far convergere questa passioni nella collaborazione con Storie di Sport e SportVintage: per un breve periodo ha anche scritto sul giornale on line Varese7Press. Sul sito di Pianeta Sport cura la rubrica “Ritratti” e scrive articoli sul ciclismo e sullo sci alpino.

NICOLA SBETTI: Nato a Zevio (Vr) il 28 febbraio 1986 ma cresciuto a Venezia. Studente, si è laureato alla triennale di relazioni internazionali dell’università di Bologna con una tesi titolata «Le Olimpiadi e le relazioni internazionali». Laureando alla magistrale di relazioni internazionali sempre Bologna con una tesi comparata tra Inghilterra e Francia sul ruolo simbolico dello sport nell’identità nazionale e nella politica estera. Responsabile dello spazio “sport e politica” del centro studi Coni di Bologna. Membro della Società Italiana Storici dello Sport dal 2010. Partecipa al progetto di ricerca del dipartimento di Politica, Istituzioni e storia: “Se lo sport fa l’Europa”. Collabora con la rivista trimestrale di critica e storia dello sport «Lancillotto e Nausica» e con il settimanale online di politica internazionale The Post Internazionale . Grande appassionato di tutti gli sport ultimamente segue con particolare attenzione l’hockey su ghiaccio e il cricket.

CHRISTIAN TUGNOLI: Nato a Bazzano nel 1985,  è ideatore e co-fondatore della rivista. Collabora ad una miriade di progetti, specialmente di ricerca sportiva, che non riesce a seguire come vorrebbe. Recupera l’iper-attività mentale con una incredibile pigrizia fisica, nonostante abbia praticato calcio, pallacanestro, tennis, nuoto, baseball e lacrosse. Gradisce gli sport di squadra (prediligendo quelli in cui l’equipaggiamento ed il regolamento sono solamente scuse per darsele di santa ragione), la storia sportiva e non, i romanzi distopici, la musica ed il pensiero originale e sincero. Sulla rivista cura la rubrica di pedanterie sportive “Lo Spogliatoio” e cerca di dare una mano sul sito dove può.

NUMERO 2 – NOVEMBRE 2010


L’Editoriale

Non di solo calcio…

Finita la Coppa del Mondo non abbiamo avuto nemmeno un minuto per respirare: subito l’attenzione si è spostata sull’inizio dei campionati nazionali più importanti, sulle prime gare di qualificazione a Euro 2012, sugli esordi di Prandelli sulla panchina azzurra e sugli incidenti causati a Genova dagli ultrà nazionalisti serbi. Un evento che ha sottolineato ancora una volta l’inadeguatezza dei media italiani nel dare chiavi di lettura a avvenimenti del genere, vedasi il saluto cetnico scambiato per un banale gesto di “tre a zero a tavolino”. Il giornalista dell’Avvenire Andrea Varacalli, esperto di Troubles nordirlandesi e accreditato a Belfast per assistere alla gara tra Irlanda del Nord e Italia, ha testimoniato il quasi completo disinteresse da parte degli azzurri verso la realtà che li ospitava, con la sola eccezione di Chiellini, rimasto colpito dal cartello Red card for sectarianism nel tunnel che portava sul prato del Windsor Park. Lo stesso quotidiano ha dedicato un articolo alla mortalità scolastica dei giovani calciatori italiani, che si perdono per strada alla ricerca di un’affermazione che può non arrivare.

Sport e ignoranza, insomma, è un binomio che in Italia va forte, mentre all’estero ormai si è abituati quotidianamente a riflettere sulle storie che stanno “dietro” alla disciplina sportiva. Differente cultura e approccio letterario, volto a riflettere su quanto il gioco sia inserito nella vita reale di un paese o di una comunità, andando a influenzare e ad essere influenzato da temi quali identità e nazionalismo, migrazioni e cittadinanza, potere e totalitarismo, egemonia internazionale e propaganda. E ovviamente, volto a ricercare le storie umane, individuali o collettive, che stanno dietro al mero evento sportivo: una tendenza opposta a quella in cui lo sportivo professionista è una figura appiattita, fatta di veline, festini, capricci e superbia.

Da parte nostra, vorremmo smentire questo stereotipo andando a volgere il nostro sguardo sulle storie che stanno in ombra. Riflettendo sui grandi temi che lo sport porta con sé (proponendovi ad esempio un punto di vista sulla questione della nazionalità sportiva, come anche uno sulla crisi, finanziaria e d’immagine, della pallanuoto), sulle straordinarie storie di vita di alcuni sportivi, su come si trasforma lo sport sotto un regime (si parla di calcio e Germania Est), sul calcio di cui non si parla praticamente mai (abbiamo dedicato un lungo speciale ai campionati scandinavi e baltici) e infine sugli sport che in Italia definiamo minori, con la nostra solita attenzione per le vicende dei pionieri di alcune discipline, per ora recepite solamente come “stramberie”.

Abbiamo deciso quindi di dare largo spazio all’Aussie rules – disciplina appena importata nello Stivale e che sta vivendo un momento cruciale della sua crescita, visto che l’Italia ha ospitato per la prima volta una competizione internazionale e che si stanno aprendo prospettive importanti per la nazionale , al cricket – con un resoconto della stagione nazionale da poco terminata , alle competizioni europee di pallanuoto e alle regole basilari del lacrosse. Sperando che possa servire ad affrancare la concezione di sport dall’ignoranza di tanti stereotipi.

STORIA POLITICA DEGLI ASIAN GAMES

Venerdì 12 novembre si sono aperti in Cina i XVI° Giochi d’Asia. Se Pechino aveva avuto le Olimpiadi e Shanghai l’Expo, alla terza città della Cina, Guangzhou, sono toccati i Giochi d’Asia.

Nati nel secondo dopoguerra, dopo i falliti tentativi degli anni ’10 e ’30, i primi Asian Games si disputarono nel 1951 a Nuova Delhi in India. Questa scelta rispecchiava l’intenzione della neonata repubblica di svolgere un ruolo di guida politico-culturale fra sui suoi vicini. Le sole undici nazioni che vi parteciparono riflettevano la situazione di decolonizzazione e instabilità presente nel continente asiatico: del resto, nel 1951 era ancora in corso la Guerra di Corea.

Dal ’51 a oggi i Giochi si sono tenuti regolarmente in nove paesi diversi. Le squadre partecipanti sono passate da 11 a 45, gli atleti da 489 a 9.704 e gli sport da 6 a 42. Bangkok è stata la città che ha ospitato più edizioni, ben 4. Nel 1970 e nel 1978 la capitale della Tailandia salvò i Giochi dopo l’abbandono della Corea del Sud (1970) e del Pakistan (1978). Dal 1986 si disputano anche i Giochi d’Asia invernali e dal 2005 i Giochi d’Asia Indoor. L’ultima partecipazione di Israele fu quella del 1974; dopo di che, per ragioni politiche legate al crescente peso dei paesi arabi in seno all’Olympic Council of Asia, fu escluso e costretto a migrare nei Comitati Olimpici Europei.

È stato detto che il medagliere può essere visto come il barometro della salute delle nazioni. Personalmente non credo troppo a questa teoria, ma osservare la sua evoluzione resta sempre un esercizio molto interessante.

Dal 1951 al 1978, il Giappone, nazione sconfitta dalla guerra con un passato olimpico importante e bastione del cosiddetto occidente in Asia, ha dominato nettamente il medagliere, prima di cedere il passo alla Cina.

Quest’ultima, ammessa ai Giochi nel 1974, abbandonò l’ideologia maoista legata all’idea di uno sport salutista e non competitivo, ottenendo risultati stupefacenti. Con un sincronismo impressionante, infatti, i successi in campo sportivo andavano di pari passo a quelli economici. Dal 1982 a oggi la Cina ha sempre dominato il medagliere e, a partire dal 1990, le sue medaglie tendono ad essere più del doppio rispetto a quelle vinte dalla seconda. Ciò rende ancor più evidente l’egemonia, non solo sportiva, del paese sul continente.

I Giochi d’Asia sono stati anche un palcoscenico per le potenze medio-piccole. È il caso dell’Indonesia di Sukarno che sfruttò i giochi di Jakarta del 1962 per rafforzare il nazionalismo indonesiano e porsi come uno dei leader del movimento dei “non allineati”. Il veto a Israele e Taiwan da quell’edizione dei Giochi costò l’esclusione del Comitato Olimpico Indonesiano da parte del Cio.

La Corea del Sud, negli anni Sessanta, emerse anch’essa come potenza sportiva (ed economica) sotto il regime di Park Chung Hee. Poco prima di essere assassinato nel 1979, l’ex generale golpista aveva dato il là alla candidatura olimpica per Seul 1988.

Non fa testo invece l’India, la cui cultura sportiva è assai lontana da quella occidentale delle competizioni olimpiche, presenti in massa nei Giochi d’Asia. Gli unici sport di origine occidentale che appassionano realmente le folle indiane sono il cricket e, in seconda battuta, l’hockey su prato. Il suo essere una potenza asiatica con ambizioni globali quindi non si riflette, al contrario della Cina, nelle medaglie vinte, anche perché, se è vero che l’India vuole essere un “player” internazionale, è evidente che cerca di esserlo alle sue condizioni, non rinnegando la propria cultura.

Nicola Sbetti

MORTE NEL POMERIGGIO

Novanta anni fa, una partita qualunque di football gaelico si macchiava di sangue.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Secondo una leggenda mai provata fino in fondo, quel giorno i militari inglesi si sfregano le mani: non importa quale faccia della moneta verrà restituita dal lancio in aria, gli irlandesi la pagheranno cara, in quella domenica di fine novembre del 1920. Da qualche anno i rapporti tra l’Irlanda e la corona si sono irrigiditi: il Parlamento britannico approva l’Home Rule, riconoscendo così l’autogoverno dell’isola dei celti, mentre in Europa divampa la Prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto porta al rinvio dell’entrata in vigore dell’atto e contribuisce ad innervosire gli animi: il 1916 è l’anno dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua, una ribellione armata di sei giorni sedata duramente dagli inglesi. Lo scontro tocca l’apice con le elezioni del 1918, le prime con la nuova riforma elettorale che estende il diritto di voto anche alle donne ultratrentenni: il Sinn Féin, partito nazionalista irlandese, ottiene 73 seggi in Parlamento ma i suoi militanti si rifiutano di sedere sugli scranni di Westminster. Decidono, invece, di costituire un’assemblea irlandese – il Dáil Éireann – ed un proprio governo – l’Aireacht, guidato da Éamon de Valera: entrambi gli organi proclamano l’indipendenza dell’isola. Si apre, così, il conflitto anglo-irlandese, del quale la Bloody Sunday del 21 novembre 1920 costituisce una tappa cruciale.

La lunga domenica di sangue a Dublino inizia con il sorgere del sole: di buon mattino, le squadre dell’IRA (Irish Republican Army) entrano in azione. Il piano è già predisposto: il capo dell’intelligence, nonché ministro delle finanze dell’Aireacht, Michael Collins ordina l’assassinio di alcune spie inglesi presenti in città. In particolare, l’attenzione è rivolta alla Cairo Gang, un gruppo di diciotto alti ufficiali britannici che hanno prestato servizio per Sua Maestà in Egitto e Palestina e che vorrebbero infiltrarsi nell’organizzazione di Collins: nessun dubbio, sono loro il bersaglio da colpire. Con la complicità di alcune domestiche e grazie alle soffiate di un poliziotto della RIC (Royal Irish Constabulary), gli uomini di Collins riescono a scovare il domicilio di numerosi agenti britannici: la maggior parte di essi è localizzata in un sobborgo meridionale di Dublino. All’alba iniziano le operazioni, che portano all’omicidio di quattordici persone, tra cui due appartenenti alla Divisione Ausiliaria, quattro ufficiali dell’intelligence britannica ed altrettanti agenti dei servizi segreti: sono meno della metà dei trentacinque nomi finiti sulla lista nera, ma la notizia scuote l’intelligence britannica presente in Irlanda. E la vendetta non tarda ad arrivare.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Le truppe inglesi stanno predisponendo il contrattacco. Due le alternative: o si mette a ferro e fuoco Sackville Street, oppure si fa irruzione a Croke Park, cattedrale del football gaelico. Testa o croce. Croce. In tutti i sensi. Nonostante il clima di tensione, cinquemila – anzi, diecimila secondo altre fonti – persone si dirigono allo stadio: i locali del Dublino affrontano la squadra di Tipperary (nella foto a sinistra, il biglietto della partita). Iniziato alle 15.15, con mezzora di ritardo, l’incontro viene interrotto dopo dieci minuti: è in quell’istante che i Black and Tans, un gruppo paramilitare britannico, forzano i tornelli dell’entrata da Canal End e irrompono sul campo di gioco, spalleggiati all’esterno da truppe della RIC e della Divisione Ausiliaria. I militari aprono il fuoco sulla folla, sparando per novanta, interminabili secondi. Gli spettatori, in preda al panico, fuggono terrorizzati: alcuni di loro provano a mettersi in salvo scavalcando il muro della tribuna Canal End, altri si dirigono verso l’altra estremità dello stadio, gli ingressi su Clonliffe Road. Ad attenderli c’è un altro cordone di militari, supportato da un’autoblindo che lascia partire altri proiettili sopra le teste della folla impaurita. Per un macabro scherzo del destino, Londra restituisce il colpo a Dublino: quattordici le vittime del mattino, quattordici le vittime del pomeriggio. Al Croke Park sono sette le persone crivellate, mentre cinque vengono ferite mortalmente e, infine, altre due muoiono calpestate dalla folla in fuga: la morte si porta via due bambini di appena 10 e 11 anni e Jeannie Boyle, una ragazza che si era recata alla partita in compagnia del fidanzato che, cinque giorni dopo, l’avrebbe dovuta portare all’altare. Anche lo sport piange: rimangono a terra Jim Hegan del Dublino, che riesce tuttavia a sopravvivere, e Michael Hogan, capitano del Tipperary, che invece non viene risparmiato dai proiettili. Ed è proprio a lui che, qualche anno dopo, verrà intitolata una delle tribune del Croke Park. Ma gli irlandesi non hanno ancora finito di versare sangue: due alti ufficiali dell’IRA, Dick McKee e Peadar Clancy, assieme all’amico Conor Clune vengono portati al Castello di Dublino, quartier generale inglese sull’isola. Qui subiscono torture e muiono in circostanze misteriose. Il numero delle vittime sale, così, a trentuno. L’Irlanda paga con il sangue di alcuni suoi figli la sollevazione nei confronti dell’Inghilterra, ma la tragica vicenda segna le menti dell’opinione pubblica: la credibilità del Regno Unito sullo scenario politico internazionale ne esce a pezzi, il sostegno al governo repubblicano di de Valera si fa sempre più forte.

L’escalation di violenza prosegue per oltre un anno, fino all’11 luglio 1921, quando viene firmata la tregua e lo Stato Libero d’Irlanda viene riconosciuto da Londra come dominion, una comunità cioè associata all’impero britannico ma con poteri autonomi ed un proprio Parlamento. Nel frattempo la GAA, l’associazione che promuove e coordina gli sport gaelici, vieta agli appartenenti alle truppe britanniche o alle forze dell’ordine nordirlandesi di assistere a eventi sportivi organizzati dalla GAA stessa. Al contempo, fa sì che gli sport “stranieri” e, nella fattispecie, britannici – ad esempio calcio e rugby – non possano essere giocati negli impianti della GAA come il Croke Park. Le conseguenze più importanti, però, si hanno in ambito giudiziario: due corti militari aprono immediatamente l’inchiesta sui fatti del 21 novembre e, in poco più di due settimane, emettono un verdetto. Il governo britannico, però, fa sparire le carte processuali, rimaste nascoste per oltre ottanta anni: una volta rinvenute – dieci anni fa – è stato possibile venire a conoscenza della sentenza. E cioè che il fuoco aperto sulla folla dagli inglesi era da considerarsi un gesto indiscriminato ed ingiustificabile e, soprattutto, veicolato senza alcun ordine superiore. Resta, ancor oggi, qualche dubbio su chi abbia effettivamente iniziato gli spari a Croke Park tra gli uomini dell’IRA e le truppe al servizio della Gran Bretagna (qui trovate tutte le ricostruzioni e numerose testimonianze). Ma sul sangue che scorreva a fiotti in quella maledetta domenica, no, non v’è dubbio alcuno.