A 48 ANNI HOLYFIELD RESISTE SUL RING

La sospensione del match per una ferita al sopracciglio permette a Evander Holyfield di conservare il titolo WBF dei pesi massimi. Il ritratto di un campione dall’immagine “buonista”, che dopo 35 anni di boxe esibisce ancora una forma smagliante.

Holyfield - WilliamsÉ Gesù a darmi la forza, è lui a muovere i miei pugni.”
Evander Holyfield

Il titolo mondiale WBF (acronimo di World Boxing Federation), non è proprio uno di quei trofei da ostentare con orgoglio in bacheca. Distanziata anni luce dalle quattro maggiori sigle internazionali: WBA, WBC, IBF e WBO, la WBF, sede legale in Lussemburgo e presidenza retta da un sudafricano bianco, vivacchia da un paio d’anni organizzando sfide tra pugili in disarmo, come quella di questa notte a White Sulphur Springs, nel West Virginia. A confrontarsi sono saliti sul ring il detentore, l’ormai 48enne vecchia (ma eterna) gloria Evander Holyfield e lo sfidante, il 38enne bahamense Sherman “Tank” Williams.

Quasi novant’anni insieme, i due pugili non hanno dato vita a un incontro particolarmente esaltante dal punto di vista agonistico, con un Williams sgraziato e appesantito, ma decisamente più efficace di un Holyfield, che a vederlo apparire sul ring, con tanto di fisico stilizzato da culturista, gli si sarebbero dati dieci anni di meno. Ma il peso dei 48 anni dell’ex campione mondiale dei massimi si è fatto sentire subito dopo la prima ripresa, quando lo si è visto in difficoltà sotto i potenti colpi del tozzo bahamense. Difficilmente Holyfield avrebbe potuto resistere per tutti i dieci round previsti da questa serata, battezzata dagli organizzatori con un pomposissimo “Redemption in America”, ma alla fine della terza ripresa una testata accidentale di Williams gli ha provocato una ferita all’arcata sopraccigliare, costringendo l’arbitro a dichiarare chiuso l’incontro con un verdetto di no contest, ovvero parità.

Considerato una sorta di anti-Tyson, il pio (a suo dire) Evander Holyfield ha improntato la propria carriera di pugile all’insegna della purezza stilistica e della correttezza, e ha cercato di costruire il proprio personaggio, anche nella vita privata, su un modello politically correct, che lo ha reso più popolare tra i bianchi yankee che tra gli afro americani. Da sempre praticante evangelico (ha fatto incidere anche un salmo della Bibbia sui pantaloncini da combattimento), non ha mai praticato troppo l’astinenza nella vita sentimentale. Almeno cinque dei suoi figli sono nati da altrettanti peccati extra coniugali, mentre le sue tre ex mogli hanno avuto a lamentarsi sia per il mancato pagamento degli alimenti che per le botte subite, tanto che l’anno scorso un giudice di Atlanta ha emesso un’ordinanza a suo carico di divieto di avvicinamento a meno di 500 metri dalla famiglia.

Nonostante queste contraddizioni tra atti di fede e vita reale, che potrebbero rimandare al gangster redento di Pulp Fiction interpretato da Samuel Jackson, la storia di Evander Holyfield è comunque un discreto esemplare di sogno americano. Cresciuto da una madre abbandonata dal marito in un sobborgo degradato di Atlanta insieme ad altri otto fratelli, è rimasto sempre a debita distanza dalle bande giovanili della sua zona, e nel 1980 si è diplomato a pieni voti alla Fulton High School. Essendo dotato di una predisposizione innata all’attività sportiva, si è cimentato con uguale successo in diverse discipline. Se fosse stato per lui, probabilmente avrebbe scelto il football americano; ma i suoi 188 centimetri di altezza erano stati considerati troppo pochi per i suoi selezionatori, e si era così dedicato anima e corpo alla boxe. La sua prima grande apparizione è datata 1984, alle Olimpiadi di Los Angeles, quando è arrivato a conquistare la medaglia di bronzo nei pesi massimi leggeri. L’anno dopo lo vedrà esordire come professionista, e la sua carriera diventerà un’ascesa trionfale, con la conquista del titolo unificato dei massimi nel 1990, e fino alla sfida cult del 28 giugno 1997 contro un Mike Tyson così inferocito da strappargli a morsi il lobo di un orecchio.

Secondo i giornalisti statunitensi, Evander Holyfield continua a restare disperatamente aggrappato al ring per potersi pagare i debiti contratti in vent’anni vissuti come un sultano, e per mantenere la sua enorme famiglia, composta da tre ex mogli e da una torma di figlioli legittimi e non solo. A nulla sono serviti i consigli dei suoi medici di interrompere l’attività dopo che gli era stata diagnosticata una patologia cardiaca nel 1994 e l’intimazione al ritiro da parte delle autorità pugilistiche dello Stato di New York per manifesta debolezza.

In un momento di enorme crisi della boxe, oggi dominata dai pugili dell’est europeo, la sua immagine continua ad essere appetibile per il mercato americano, dove gli incontri sono trasmessi unicamente sulle televisioni pay per view. Anche a causa di questa vera e propria barriera tariffaria, la boxe oggi è sempre meno popolare tra gli afro americani dei sobborghi; e il sempreverde Holyfield, personaggio “noioso come una partita di canasta” secondo la definizione di un avversario scomparso nell’oblio, è ormai un mito “borghese” per l’America di oggi.

LA NAZIONALE FRANCESE VESTE NIKE

Dopo quasi quarant’anni di onorato servizio, la maglia della nazionale francese di calcio non avrà più lo storico marchio Adidas. Il 9 febbraio, con Francia-Brasile, la prima uscita ufficiale dell’era Nike.

Maglia FranciaA me sembra una bella maglietta, anche se mi ricorda un po’ quella dell’Italia.
Laurent Blanc, commissario tecnico della nazionale francese.

È stata presentata ufficialmente ieri sera a Parigi la nuova maglia della nazionale francese a marchio Nike, in stile retrò anni ’50, interamente blu, senza righe, bande e losanghe, e con chiusura a polo, sul modello di quella italiana. In veste di indossatori, hanno sfilato per l’occasione: Yann M’Vila, Alou Diarra, Abou Diaby e Florent Malouda.

Come deciso già nel febbraio 2008, il contratto tra la Federazione francese e la Nike, durerà dall’inizio di quest’anno fino al 2018. E in questi sette anni porterà nelle boccheggianti casse del calcio transalpino circa 43 milioni di euro all’anno a titolo di sponsorizzazione: la cifra più alta della storia, buona per fare arrossire i 20 milioni di euro annui incassati allo stesso titolo da un’altra potenza calcistica come la Germania.

Per l’Adidas, eterna rivale della Nike sul terreno dell’abbigliamento (e non solo) sportivo, questa sconfitta commerciale è piuttosto dura da metabolizzare, e segue quelle altrettanto recenti subite in Brasile e in Olanda. Infatti, l’inizio del connubio calcistico tra Francia e Adidas risaliva al 1972, quando la multinazionale tedesca aveva rimpiazzato il colosso nazionale di Le Coq Sportif come fornitore ufficiale.

La celebre maglietta blu, anzi bleu, già con lo stemma del galletto, ma ancora orfana di sponsor, aveva visto la luce il 19 marzo 1919 a Bruxelles, in occasione della partita amichevole contro il Belgio. Tra i geloni invernali e le saune estive dei calciatori, a quell’epoca si adottavano tessuti penitenziali come la lana e la flanella, e con questi si sarebbe andati avanti fino alla liberazione degli anni ’50, grazie all’arrivo del cotone.

Il fregio dello sponsor sul petto, a fianco dell’immancabile coq, arriverà invece nei primissimi anni ’70; e dal 1972 l’Adidas imporrà immediatamente il proprio inconfondibile stile con le tre righe bianche verticali sulle maniche, sia sulla maglia blu ufficiale, che su quella rossa di riserva. A parte la breve parentesi del 10 giugno 1978 per la partita del Mondiale d’Argentina contro l’Ungheria, quando, causa un disguido, verrà sfoderata una scioccante maglia a strisce bianco-verdi, il primo cambiamento si avrà nel 1980, con Michel Platini e compagni a esibirsi con una scollatura a V adornata di righe gessate bianche verticali.

Ma per il coup de theatre, bisognerà lasciar trascorrere tutto il decennio, e nel 1990 gli stilisti dell’Adidas proporranno le nuove spalle tratteggiate di fiammelle rosse su uno sfondo bianco: una moda che sarà riproposta con alcune varianti (come le losanghe, sempre bianche e rosse, lungo un fianco) per tutti gli anni ’90.

Dal decennio scorso, poi, un discreto e graduale ritorno a una maggiore essenzialità, fino all’ultima partita della nazionale francese in veste Adidas: il 17 novembre 2010 a Wembley contro l’Inghilterra.

10 giugno 1978 Michel Platini

ALGERIA: CALCIO E DISORDINI DAL 1988 A OGGI

La Federazione algerina ha sospeso il Campionato per un mese per circoscrivere la protesta che infuria.

“La musica e il calcio non hanno frontiere. Siccome trasmettono un’idea di festa, sono osteggiate da quelli che vogliono toglierci la libertà.” (Cheb Mami, cantante Raï algerino).

La decisione della Federcalcio algerina è di lunedì 10 gennaio: il campionato di calcio sarà sospeso per un mese, e non riprenderà prima del 10 febbraio. È la contromisura per i disordini scoppiati nei primi giorni dell’anno, in seguito ai rincari dei generi alimentari: olio e zucchero in particolare. Eppure le recenti sommosse non sono scoppiate all’interno degli stadi, ma nelle piazze e nelle vie delle più grandi città algerine: Orano, Constantine, Sétif, e soprattutto ad Algeri, dove si sono concentrate nel quartiere di Bab-el-Oued, l’epicentro della drammatica rivolta del cous cous dell’ottobre 1988.

Ma gli stadi di calcio rappresentano uno degli incubi peggiori del governo algerino. Diversamente che nei luoghi di lavoro, nei negozi, nei bar, sui mezzi pubblici e per le strade, dove la popolazione mantiene un atteggiamento estremamente guardingo, e pesa accuratamente le parole che dice, lo stadio è una zona franca. E come accadeva qualche decennio fa anche nei defunti regimi realsocialisti, sulle gradinate la libertà di espressione è garantita. Qui non solo è lecito ingiuriare il tifoso avversario o il proprio giocatore che svirgola il pallone, ma si può anche scaricare la frustrazione della vita quotidiana, magari infarcendo un’imprecazione con un insulto al governo, e ricevendo in cambio gli applausi convinti dei vicini di tribuna. Per questo motivo il regime algerino ha paura della potenzialità eversiva che può dirompere da uno stadio di calcio, e per circoscrivere la protesta ha deciso di mettere sotto chiave il campionato, almeno fino al ritorno della normalizzazione sperata. Dalla rivolta del 1988, che costò 162 morti e migliaia di feriti secondo le fonti ufficiali, ma che fornì anche le basi per l’avvio di un effimero processo di democratizzazione, degenerato quasi sul nascere in una lunga guerra civile strisciante tra la casta burocratico-militare al potere e gli estremisti islamici, il calcio ha giocato un ruolo di primo piano, al di là del significato sportivo intrinseco.

Ma ripercorriamo gli episodi di cronaca più drammaticamente significativi:

14 ottobre 1989 – Durante la partita tra la squadra locale del Mouludia Olimpique di Constantine e l’Entente Sportive di Sétif, un gruppo di ultras del Mouludia, armati di coltelli e spranghe, invade il campo, aggredendo i giocatori ospiti, e ferendone gravemente due, sotto gli occhi di sessantamila spettatori. In seguito a questo episodio e ad altri precedenti quasi altrettanto gravi, la Federcalcio algerina decide di sospendere il campionato per una giornata.

5 ottobre 1994 – Alì Tahanuti, presidente della Jeunesse Sportive di Bordj Menaiel, una squadra di prima divisione, viene assassinato da un commando armato di terroristi islamici. Il movente dell’attentato viene individuato nella calcio-fobia degli integralisti. Anche in quest’occasione le partite di campionato vengono sospese per un turno.

21 gennaio 1995 – Questa volta tocca a Rachid Haraigue, presidente della Federcalcio e uomo vicinissimo alla giunta militare al potere, soccombere sotto i colpi di un altro commando di terroristi. Dalla seconda metà degli anni novanta il calcio ritorna comunque a riempire gli stadi dell’Algeria, sia grazie alla diminuzione d’intensità della guerra civile, che come riflusso al progressivo disinteresse generale nei confronti della politica.

6 ottobre 2001 – La super-amichevole tra Francia e Algeria, organizzata allo Stade de France di Parigi a suggello della rappacificazione tra i due paesi un tempo nemici, viene interrotta pochi minuti prima del termine da un’invasione di campo dei giovanissimi tifosi franco algerini. Intervengono le brigate antisommossa francesi per riportare l’ordine sia nel campo che sugli spalti.

22 giugno 2002 – L’ennesimo commando armato del GIA (Gruppo Islamico Armato) irrompe in un campo di calcio, dove stanno giocando due squadre di ragazzini, provocando 6 vittime tra i giovanissimi calciatori.

26 maggio 2008 – Al termine del campionato, che vede il Meloudia di Orano retrocedere in seconda divisione, i tifosi inferociti mettono a soqquadro alcuni sobborghi della seconda città dell’Algeria. La polizia risponde con centinaia di arresti. Secondo gli organi d’informazione indipendenti, il calcio sta ormai diventando il pretesto per lo sfogo della frustrazione da parte della giovanissima popolazione algerina (il 75% degli algerini ha infatti meno di trent’anni).

18 novembre 2009 – Il rocambolesco spareggio di Khartoum, in Sudan, tra le nazionali dell’Egitto e dell’Algeria, finisce con la vittoria di quest’ultima, e la conseguente conquista della qualificazione ai mondiali 2010 in Sudafrica. Scoppiano incidenti tra le tifoserie contrapposte, che danno origine anche ad una crisi diplomatica. I festeggiamenti per la vittoria nella capitale algerina, diventano l’occasione per una caccia all’uomo nei confronti dei cittadini egiziani. Il bilancio di queste manifestazioni di giubilo si rivela pesantissimo: 14 morti e 250 feriti. È la pietra tombale sul vecchio ideale nasseriano della fratellanza araba.

MORTE NEL POMERIGGIO

Novanta anni fa, una partita qualunque di football gaelico si macchiava di sangue.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Secondo una leggenda mai provata fino in fondo, quel giorno i militari inglesi si sfregano le mani: non importa quale faccia della moneta verrà restituita dal lancio in aria, gli irlandesi la pagheranno cara, in quella domenica di fine novembre del 1920. Da qualche anno i rapporti tra l’Irlanda e la corona si sono irrigiditi: il Parlamento britannico approva l’Home Rule, riconoscendo così l’autogoverno dell’isola dei celti, mentre in Europa divampa la Prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto porta al rinvio dell’entrata in vigore dell’atto e contribuisce ad innervosire gli animi: il 1916 è l’anno dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua, una ribellione armata di sei giorni sedata duramente dagli inglesi. Lo scontro tocca l’apice con le elezioni del 1918, le prime con la nuova riforma elettorale che estende il diritto di voto anche alle donne ultratrentenni: il Sinn Féin, partito nazionalista irlandese, ottiene 73 seggi in Parlamento ma i suoi militanti si rifiutano di sedere sugli scranni di Westminster. Decidono, invece, di costituire un’assemblea irlandese – il Dáil Éireann – ed un proprio governo – l’Aireacht, guidato da Éamon de Valera: entrambi gli organi proclamano l’indipendenza dell’isola. Si apre, così, il conflitto anglo-irlandese, del quale la Bloody Sunday del 21 novembre 1920 costituisce una tappa cruciale.

La lunga domenica di sangue a Dublino inizia con il sorgere del sole: di buon mattino, le squadre dell’IRA (Irish Republican Army) entrano in azione. Il piano è già predisposto: il capo dell’intelligence, nonché ministro delle finanze dell’Aireacht, Michael Collins ordina l’assassinio di alcune spie inglesi presenti in città. In particolare, l’attenzione è rivolta alla Cairo Gang, un gruppo di diciotto alti ufficiali britannici che hanno prestato servizio per Sua Maestà in Egitto e Palestina e che vorrebbero infiltrarsi nell’organizzazione di Collins: nessun dubbio, sono loro il bersaglio da colpire. Con la complicità di alcune domestiche e grazie alle soffiate di un poliziotto della RIC (Royal Irish Constabulary), gli uomini di Collins riescono a scovare il domicilio di numerosi agenti britannici: la maggior parte di essi è localizzata in un sobborgo meridionale di Dublino. All’alba iniziano le operazioni, che portano all’omicidio di quattordici persone, tra cui due appartenenti alla Divisione Ausiliaria, quattro ufficiali dell’intelligence britannica ed altrettanti agenti dei servizi segreti: sono meno della metà dei trentacinque nomi finiti sulla lista nera, ma la notizia scuote l’intelligence britannica presente in Irlanda. E la vendetta non tarda ad arrivare.

“Beh, allora? Testa o croce?”. Le truppe inglesi stanno predisponendo il contrattacco. Due le alternative: o si mette a ferro e fuoco Sackville Street, oppure si fa irruzione a Croke Park, cattedrale del football gaelico. Testa o croce. Croce. In tutti i sensi. Nonostante il clima di tensione, cinquemila – anzi, diecimila secondo altre fonti – persone si dirigono allo stadio: i locali del Dublino affrontano la squadra di Tipperary (nella foto a sinistra, il biglietto della partita). Iniziato alle 15.15, con mezzora di ritardo, l’incontro viene interrotto dopo dieci minuti: è in quell’istante che i Black and Tans, un gruppo paramilitare britannico, forzano i tornelli dell’entrata da Canal End e irrompono sul campo di gioco, spalleggiati all’esterno da truppe della RIC e della Divisione Ausiliaria. I militari aprono il fuoco sulla folla, sparando per novanta, interminabili secondi. Gli spettatori, in preda al panico, fuggono terrorizzati: alcuni di loro provano a mettersi in salvo scavalcando il muro della tribuna Canal End, altri si dirigono verso l’altra estremità dello stadio, gli ingressi su Clonliffe Road. Ad attenderli c’è un altro cordone di militari, supportato da un’autoblindo che lascia partire altri proiettili sopra le teste della folla impaurita. Per un macabro scherzo del destino, Londra restituisce il colpo a Dublino: quattordici le vittime del mattino, quattordici le vittime del pomeriggio. Al Croke Park sono sette le persone crivellate, mentre cinque vengono ferite mortalmente e, infine, altre due muoiono calpestate dalla folla in fuga: la morte si porta via due bambini di appena 10 e 11 anni e Jeannie Boyle, una ragazza che si era recata alla partita in compagnia del fidanzato che, cinque giorni dopo, l’avrebbe dovuta portare all’altare. Anche lo sport piange: rimangono a terra Jim Hegan del Dublino, che riesce tuttavia a sopravvivere, e Michael Hogan, capitano del Tipperary, che invece non viene risparmiato dai proiettili. Ed è proprio a lui che, qualche anno dopo, verrà intitolata una delle tribune del Croke Park. Ma gli irlandesi non hanno ancora finito di versare sangue: due alti ufficiali dell’IRA, Dick McKee e Peadar Clancy, assieme all’amico Conor Clune vengono portati al Castello di Dublino, quartier generale inglese sull’isola. Qui subiscono torture e muiono in circostanze misteriose. Il numero delle vittime sale, così, a trentuno. L’Irlanda paga con il sangue di alcuni suoi figli la sollevazione nei confronti dell’Inghilterra, ma la tragica vicenda segna le menti dell’opinione pubblica: la credibilità del Regno Unito sullo scenario politico internazionale ne esce a pezzi, il sostegno al governo repubblicano di de Valera si fa sempre più forte.

L’escalation di violenza prosegue per oltre un anno, fino all’11 luglio 1921, quando viene firmata la tregua e lo Stato Libero d’Irlanda viene riconosciuto da Londra come dominion, una comunità cioè associata all’impero britannico ma con poteri autonomi ed un proprio Parlamento. Nel frattempo la GAA, l’associazione che promuove e coordina gli sport gaelici, vieta agli appartenenti alle truppe britanniche o alle forze dell’ordine nordirlandesi di assistere a eventi sportivi organizzati dalla GAA stessa. Al contempo, fa sì che gli sport “stranieri” e, nella fattispecie, britannici – ad esempio calcio e rugby – non possano essere giocati negli impianti della GAA come il Croke Park. Le conseguenze più importanti, però, si hanno in ambito giudiziario: due corti militari aprono immediatamente l’inchiesta sui fatti del 21 novembre e, in poco più di due settimane, emettono un verdetto. Il governo britannico, però, fa sparire le carte processuali, rimaste nascoste per oltre ottanta anni: una volta rinvenute – dieci anni fa – è stato possibile venire a conoscenza della sentenza. E cioè che il fuoco aperto sulla folla dagli inglesi era da considerarsi un gesto indiscriminato ed ingiustificabile e, soprattutto, veicolato senza alcun ordine superiore. Resta, ancor oggi, qualche dubbio su chi abbia effettivamente iniziato gli spari a Croke Park tra gli uomini dell’IRA e le truppe al servizio della Gran Bretagna (qui trovate tutte le ricostruzioni e numerose testimonianze). Ma sul sangue che scorreva a fiotti in quella maledetta domenica, no, non v’è dubbio alcuno.

AMERICA SOTTO SMACCO

Esattamente cinque anni il Maccabi Tel Aviv divenne la prima squadra europea di basket a sconfiggere una formazione NBA sul suolo americano.

No, gli Stati Uniti proprio non volevano saperne di ammettere di essere stati sconfitti dai “pivellini” europei. 8 settembre 1978: a Tel Aviv il Maccabi disputa un’amichevole contro i Washington Bullets, vincitori del loro primo – e, finora, unico – titolo NBA. Dick Motta, artefice del miracolo, porta in Israele appena nove giocatori, comprese le stelle Elvin Hayes e Wes Unseld. Ma i campioni americani sono fuori forma e con la testa ancora in vacanza: il raduno inizierà solamente tra un mese. I mediorientali intuiscono che può essere il momento propizio per scrivere una pagina di storia. E così è: Miki Berkovich, indiscusso trascinatore del Maccabi e della nazionale, segna da solo 26 punti. E contribuisce ad una clamorosa vittoria per 98-97. L’Europa batte l’America. O, data la nazionalità del Maccabi, David affossa Golia. Ma l’America non riconosce l’impresa compiuta dagli israeliani, che negli anni immediatamente successivi ottengono altri tre successi contro una selezione NBA, i New Jersey Nets ed i Phoenix Suns. Le amichevoli, però, si sono giocate nel mese di agosto: per il massimo organo cestistico d’oltreoceano le vittorie sono dunque da invalidare. Un boicottaggio che prosegue sino al 1987, anno di istituzione del McDonald’s Open, triangolare prima e quadrangolare poi che manda in pensione la Coppa Intercontinentale. Qui le squadre NBA, forse per la compartecipazione della Federbasket mondiale alla creazione dell’evento, non accettano semplicemente di confrontarsi ancora con avversari del Vecchio Continente: da questo momento, infatti, i confronti tra Europa e America acquisiscono il valore dell’ufficialità. Nello stesso anno la nazionale dell’URSS sconfigge, in amichevole, gli Atlanta Hawks con un pazzesco 132-123. Che facciamo, la riconosciamo? “No, non ancora. Il confronto è impari, è una nazionale opposta ad una franchigia NBA” bofonchiano dall’altra estremità dell’Atlantico. Le prime europee a sfiorare, questa volta sì, l’impresa sono le italiane: la Tracer Milano dà il via ai confronti ufficiali sull’asse America-Europa e la Scavolini Pesaro si arrende soltanto ai supplementari ai Knicks nel corso della quarta edizione del Mc Donald’s Open. Passano quattordici anni e la Benetton Treviso rischia un colpo ancor più grosso, perdendo 86-83 all’Air Canada Centre di Toronto contro i Raptors. La lacuna sembra ormai colmata.

17 ottobre 2005. Stesso scenario, stesso avversario. L’Europa lancia ancora il guanto di sfida ai Raptors e nella circostanza si affida alla vincitrice dell’Eurolega, il Maccabi Tel Aviv, seguito sugli spalti dell’arena canadese dalla numerosa comunità ebrea. Per quanto sia un’amichevole, il coach americano Sam Mitchell non vuol passare per il buon samaritano e fin da subito schiera Chris Bosh, Morris Peterson e Jalen Rose, i giocatori più talentuosi della sua squadra. Pini Gershon replica con un dispiegamento di forze tutt’altro che inferiore: Nikola Vujčić, Anthony Parker e l’ex di turno Maceo Baston sono della partita già dal primo minuto.
La trama dell’amichevole è paragonabile a quei libri gialli in cui nelle pagine iniziali si deduce già il nome dell’assassino, perché i Raptors mantengono sempre la situazione a proprio vantaggio e chiudono il primo quarto avanti per 24-20. Il Maccabi non abbassa la guardia e, anzi, durante il successivo parziale pareggia temporaneamente con una schiacchiata di Anthony Parker. I canadesi riordinano presto le loro idee: nella seconda metà del quarto segnano diciassette punti, concedendone appena sette, e arrivano così all’intervallo lungo con dieci lunghezze di vantaggio (56-46).

In America, esattamente in occasione del titolo NBA di Washington di ventisette anni prima, fu coniata una massima divenuta assai presto di uso comune: “L’opera non è finita fino a quando canta la donna grassa”. Mai darsi per spacciati nello sport, almeno fino a quando il direttore di gara non fischia la fine della contesa. Il Maccabi, sospinto dal calore degli ebrei canadesi, prova a giocarsi le sue carte vincenti anche quando si trova a dover saldare un debito da quattordici punti. Due tiri liberi di Baston avvicinano nuovamente gli israeliani che hanno il merito di decurtare di sei punti lo scarto: l’impresa non appare più così impossibile da portare a compimento. E, quando il tabellone dell’Air Canada Centre ricorda che ci sono meno di tre minuti da giocare, il Maccabi passa per la prima volta in vantaggio (95-93), spinto da una tripla di Will Solomon. Una prodezza preceduta dalla monumentale difesa di Yaniv Green, vigile custode del canestro israeliano che stoppa un tiro in sospensione di Mike James e, soprattutto, rende nullo il tentativo di lay-up di Rose. Le certezze dei canadesi si sono sgretolate, oramai si lotta punto su punto.

Diciannove secondi alla conclusione. James ha appena messo dentro il canestro del 103-103. Il Maccabi gestisce l’ultima azione dell’incontro. Gli israeliani puntano tutto su Anthony Parker, miglior giocatore dell’Eurolega vinta dai gialloblù di Tel Aviv. Lui è nato a Naperville, Illinois, ha giocato a Philadelphia e Orlando, il basket americano non è certo un mistero per lui. E la guardia del Maccabi si mette in testa di diventare un eroe. Otto decimi alla conclusione: Parker, tutto isolato in un angolo, mira il tabellone e spicca il volo, Peterson prova ad oscurargli la visuale ma invano. Il pallone si accoccola tra le maglie della retina. Canestro. 105-103. Il Maccabi riscrive la storia del basket: mai una formazione europea aveva sconfitto una franchigia NBA sul suolo americano. Gli Stati Uniti erano usciti malconci dai Mondiali di Indianapolis e dai Giochi olimpici di Atene, ma con le squadre di club avevano sempre salvato l’onore. Adesso no, non più. Inutili i puerili tentativi della NBA di occultare, sul proprio sito web, anche questa sconfitta, stavolta sì ufficiale: l’ultimo baluardo è stato abbattuto.

Simone Pierotti