ALLEGRI 3 – LEONARDO 0

Massimiliano Allegri e LeonardoLeonardo contro il suo passato, Allegri alla prova del nove. Ecco cosa rappresentava, per i due tecnici, il derby milanese giocato nel corso dell’ultimo week-end. A spuntarla, alla fine, è stato proprio l’ex coach del Cagliari di Cellino, che ha schierato una squadra molto compatta e determinata, abile a sfruttare al meglio tutte le mancanze degli avversari. In campo scendono i giocatori, certo. Ed in questo senso espressi sul mio blog il mio punto di vista, con i giocatori del Milan tutti oltre la sufficienza e quelli dell’Inter in più casi incapaci di profondere le giuste energie.  Per ciò che riguarda questa partita nello specifico, però, credo che una chiave di lettura importante sia data proprio nel confronto tra quanto svolto tra i due tecnici perché mai come in questo caso le scelte dell’uno e dell’altro hanno inciso così profondamente una partita.

Iniziamo dallo sconfitto, allora: Leonardo che schiera il suo solito 4-2-1-fantasia che, e dovrebbe averlo ormai capito, risulta totalmente inadeguato in partite di questa importanza e contro avversari così dotati.
I più attenti potrebbero ora obiettare che quello adottato dal tecnico brasiliano sia fondamentalmente lo stesso modulo utilizzato da Mourinho nella stagione del Triplete: una punta centrale, Eto’o, Sneijder e Pandev a dare sostanza alla fase offensiva, due mediani ed una difesa a quattro a protezione del solito Julio Cesar. La realtà dei fatti è però ben diversa. Perché non sono sempre i numeri possono spiegare tutto, ed anche volendo davvero azzardare questo parallelismo finiremmo col cadere in errore. Perché un modulo in sé e per sé vuol dire poco. Molto più importante è come lo stesso viene interpretato.

Facciamo un esempio slegato dalla situazione di cui stiamo parlando per provare a spiegare meglio. Il modulo classico nel calcio di oggi è il 4-4-2. Modulo che però può variare molto a seconda degli interpreti in campo ed a seconda di come gli stessi occupino le posizioni a loro assegnate. Pensate ad un 4-4-2 con Marchisio a sinistra, Aquilani e Melo centrali e Krasic a destra: facile vedere sovente – e così è successo più volte, infatti – il serbo arrivare quasi ad allinearsi con le punte, con lo scivolamento degli altri centrocampisti a formare, in buona sostanza, una linea a tre. Ben diverso, invece, sarebbe utilizzare due ali di ruolo che limitandosi a giocare solo sugli esterni darebbero un volto molto più lineare a questo modulo. O, ancora, ben diverso è trovarsi a giocare con un 4-4-2 utilizzando i terzini bloccati piuttosto che mettere in campo lo stesso modulo ma farlo sfruttando dei terzini dalla buona capacità di spinta e capaci di andare ad effettuare continue sovrapposizioni.

Allo stesso modo nel caso in esame ecco che non si può fare un facile parallelismo tra il modulo utilizzato sovente da Mourinho e quello schierato nel derby da Leonardo. Perché non basta notare certe somiglianze, bisogna entrare più nel merito dell’approccio tattico al modulo stesso. E allora ecco che si può subito vedere come il tecnico lusitano partisse dalla costruzione di una fase difensiva solida, prima che da trame offensive efficaci. Perché schierava sì tre punte, ma solo a livello nominale. Il tutto a differenza di quanto fatto da Leo, laddove Eto’o, Pazzini e Pandev si sono davvero comportati da punte effettive. Insomma, mentre lo scorso anno tutti, partendo da Milito, erano impegnati nella costruzione di una fase difensiva solida (emblematica, in tal senso, la partita del Camp Nou) nell’ultimo derby meneghino la stessa era limitata a sei giocatori: i quattro difensori ed i due mediani. E con questo approccio tattico è davvero impensabile poter portare a casa vittorie importanti contro squadre di livello. Che poi la casualità lo possa consentire è altrettanto vero, ma in linea di massima si soffrirà davvero più del dovuto. E Leonardo non può non porvi rimedio.

Proprio questa questione è, a mio avviso, il tema tattico centrale del match andato in scena sabato sera. Perché proprio attorno a questa scelta si è deciso un match che ha visto l’Inter subire quasi costantemente gli avversari. Al di là di questa questione meramente tattica si possono comunque trovare anche altre colpe al tecnico nerazzurro. Innanzitutto la mollezza dei suoi giocatori: trovo sia piuttosto incredibile che una squadra come l’Inter possa scendere in campo per affrontare quella che è probabilmente la partita chiave di tutto il suo campionato con uno spirito così poco combattivo. E se in ciò hanno sicuramente parzialmente colpa i giocatori stessi non si può certo dire sia esente da colpe il tecnico, che dovrebbe lavorare nel corso della settimana precedente il match proprio anche su questi aspetti psicologici. Una partita del genere, insomma, dev’essere affrontata con ben altro mordente: ogni singolo uomo in campo ha l’obbligo di aggredire gli avversari su ogni pallone, di giocare con la massima attenzione e di lasciare il minor numero di spazi possibili, per poi cercare di sfruttare gli errori altrui al meglio. Esattamente il contrario rispetto a quanto accaduto a Zanetti e compagni, che sono scesi sul terreno di gioco molli come non mai e si sono fatti lungamente dominare dagli avversari, capaci di riportare una vittoria assolutamente meritatissima.

Tornando a parlare di scelte compiute da Leonardo, poi, va detto che il tecnico brasiliano ha perso la partita a centrocampo: ad una mediana schierata a tre con il supporto di Boateng sulla trequarti, infatti, Leo ha risposto, come detto, con due soli centrocampisti di ruolo a supporto del trequartista Sneijder. Finendo così sotto costantemente nel reparto nevralgico del campo. L’avanzamento di Zanetti sulla linea di Cambiasso e Motta, con magari la freschezza e la vivacità di Nagatomo a coprire la fascia sinistra e Sneijder alle spalle di Eto’o e Pazzini (con Pandev quindi relegato in panchina) avrebbe forse garantito all’Inter di andare meno in difficoltà e, se non altro, di schermare indubbiamente meglio la propria difesa, che avrebbe quindi probabilmente sofferto meno gli attacchi altrui.

In tutto ciò bisogna comunque dare anche i giusti meriti ad Allegri e ad i suoi ragazzi. Ma prima di entrare nello specifico delle scelte compiute dal tecnico rossonero due paroline vorrei spenderle proprio riguardo agli interpreti milanisti, che hanno giocato in linea generale davvero una buona gara. E allora oltre a fare i complimenti ad una linea difensiva molto solida ed attenta (dove il solo Zambrotta, rientrante dopo quattro mesi, è sembrato soffrire qualcosina, ma sicuramente la ruggine che si porta ancora addosso non l’ha aiutato in questo senso) e ad un attacco che ha messo ripetutamente in difficoltà la retroguardia avversaria (con Pato assolutamente decisivo ed un Robinho capace di far vedere i sorci verdi a Ranocchia e soci… se solo trovasse più freddezza sotto porta sarebbe davvero un giocatore difficilmente relegabile in panchina) non posso non soffermarmi proprio su quel centrocampo che ha saputo sfruttare al meglio le scelte avventate – di cui ho appena parlato – compiute da Leonardo per prendere possesso del reparto nevralgico del campo. In questo senso, quindi, non posso che complimentarmi con tutti e quattro i centrocampisti rossoneri: da Van Bommel, che ha interpretato alla grande il ruolo di vertice basso guidando molto bene il reparto e schermando al meglio la coppia Nesta-Silva, passando per Gattuso, che fino a che è rimasto in campo è stato utilissimo nel dare nerbo al centrocampo raddoppiando poi sovente su Eto’o, e Boateng, magistrale nel supportare gli attaccanti dando inoltre sostanza al proprio reparto grazie alle sue notevoli qualità fisiche, finendo con un Seedorf davvero magistrale che, al solito, si è esaltato nelle occasioni che contano. Sublime il match disputato dall’olandese, che ha insegnato calcio a tutto San Siro.

E proprio nella costruzione di questo predominio a centrocampo possiamo trovare i maggiori meriti di Allegri. Meriti che però non si esauriscono tutti lì. Di certo il tecnico di Livorno deve aver studiato a fondo la partita. Perché questo dominio a centrocampo non è frutto del caso, così come frutto del caso non può essere l’utilizzazione di Seedorf come mezz’ala, laddove da tempo ormai lo stesso veniva usato quasi solamente in appoggio alle punte. Riportarlo in una posizione più arretrata in un’occasione del genere, però, gli ha permesso di sfruttare tutta la sua classe senza, nel contempo, rinunciare alla straripante forza fisica di Boateng. Affiancare a Clarence due mastini come Van Bommel e Gattuso (sostituito in seguito da Flamini, col discorso che quindi non cambia), poi, significa proprio essere a conoscenza anche dei limiti del colored olandese, andando quindi a bilanciare la sua sempre più scarsa capacità di ripiegare con prontezza con due giocatori capaci di colmare, alla bisogna, le eventuali mancanze del più creativo compagno di reparto.

Sfida studiata nei minimi dettagli, insomma. Perché anche l’esclusione di Cassano a favore del duo Pato-Robinho non può essere certo stata frutto del caso. Così come proprio a seguito della mancanza di Ibrahimovic Allegri ha dovuto ridisegnare un po’ le manovre offensive dei suoi, con la squadra che in determinate circostanze ha cercato di più la profondità e che in linea di massima ha comunque cercato di sfruttare al meglio la rapidità dei due furetti là davanti.

In linea di massima, devo ammetterlo, a livello tattico più che di sfida vinta da Allegri mi verrebbe da parlare di sfida persa da Leonardo, capace di compiere errori marchiani. E’ altresì vero, però, che l’ex allenatore del Cagliari ha, come detto, grandi meriti, ed è assolutamente giusto riconoscerglieli. Sono ora curioso di sapere, in questo senso, cosa ne pensi Buffa del derby: dopo aver un po’ attaccato il tecnico livornese gli riconoscerà i tanti meriti per la splendida vittoria ottenuta in quest’importantissima stracittadina?

MILAN: BUFFA PORTA LA TESI, IO L’ANTITESI

Francesco F. Pagani confuta le analisi tattiche di Federico Buffa. Uno scontro tra titani.

Federico BuffaQualche giorno fa mi è capitato di assistere ad una delle analisi tattiche di Federico Buffa – noto giornalista Sky competentissimo in materia di calcio e basket – riguardante il Milan di Massimiliano Allegri. Nella stessa il sempre ottimo Avvocato dice cose condivisibili ed altre meno. Un punto di vista è sempre assolutamente rispettabile, ci mancherebbe; a maggior ragione quando espresso con la competenza e lo stile del cinquantaduenne opinionista milanese. Nel contempo, però, è altrettanto bello poter esprimere il proprio dissenso. Che è proprio ciò che farò in questo articolo, punto per punto.

Il Milan va al ritmo di Gennaro Gattuso

Tesi condivisibile solo parzialmente, a mio avviso. Il problema non è tanto a livello emozionale quanto a livello di solidità. Nel momento in cui l’ex Campione del Mondo 2006 scende in campo più spento del solito, difatti, a mancare non è tanto la sua verve carismatica – laddove questa squadra ha diversi altri punti di riferimento in questo senso – quanto più il suo apporto in mediana. Difficile pensare che giocatori come Nesta ed Ibrahimovic, per dirne due, possano farsi influenzare negativamente nel vedere Gattuso meno esplosivo del solito. Indubbiamente più probabile che a mancare sia proprio il suo apporto di ruba palloni: senza di esso, difatti, la squadra rischia di non essere così compatta e solida in fase difensiva. Inoltre Ringhio è un giocatore piuttosto lineare: non ha grandi colpi di classe ed un’eventuale incapacità di fare da frangiflutti davanti alla difesa ne riduce notevolissimamente il proprio apporto alla squadra.

Assenza di mancini: Emanuelson allarga il gioco

Anche in questo caso trovo la tesi di Buffa condivisibile solo parzialmente.  Avendo seguito Milan – Bari allo stadio, ovvero sia la partita cui si riferisce specificatamente l’Avvocato, posso dire che l’inserimento di Urby ha inciso solo parzialmente sulla partita. Vero è che la sua freschezza ha contribuito ad innalzare i ritmi, ancor più vero però che sin dalla prima palla giocata nella seconda frazione di gioco questi erano ben diversi rispetto al primo tempo. Del resto il punteggio era quello che era e le cose non potevano andare diversamente.
Emanuelson allarga il gioco? Sì. Ma non tanto in quanto mancino, quanto più per il fatto di essere un’ala di ruolo, cosa che né Gattuso né Flamini sono. Nell’occasione specifica, poi, bravo l’olandese a pescare Antonini con una bella verticalizzazione. Che però sarebbe potuta essere fatta tranquillamente anche da un destro.

Il Milan rischia pochissimo ma così facendo demineralizza il gioco offensivo

Anche qui trovo che il tutto sia vero solo in parte. Perché abbinare una fase difensiva di livello ad una fase offensiva mineralizzata è assolutamente possibile. Del resto Buffa stesso nel suo discorso dice che l’importante, per questa squadra, sia che la palla stia quanto più lontano possibile dalla porta, non interessa il come. Mentre invece è fattibile – Barcellona docet – uno scenario in cui sia proprio un possesso palla continuativo a limitare gli attacchi degli avversari. Del resto il Milan di Rui Costa, per fare un altro esempio, bene o male viaggiava su quelle logiche. E questo ci porta al prossimo punto…

Udinese, Real, Borussia e Porto si fanno attaccare per creare spazio per le proprie punte leggere

…che è anche il più interessante. Partendo dall’assunto che il concetto in sé non mi sembra correttissimo (l’Udinese ha due pesi leggeri davanti, ma su Real, Borussia e Porto – con Higuain o Benzema, Barrios ed Hulk – si potrebbe discutere rispetto a ciò che è leggero e ciò che non lo è) va detto che il sistema di gioco proposto da Buffa è lo stesso che lo scorso anno tutti i non tifosi interisti – milanisti in testa, quindi – criticavano a Mourinho: attendismo e gioco di rimessa.

Il Milan, però, ha tradizionalmente un approccio diverso. Che certo non è quello di quest’ultima stagione, ma che non può nemmeno essere ridotto ad un semplice contropiedismo. Da quando seguo il calcio io, difatti, ho più o meno sempre visto i Rossoneri venire costruiti affinché la squadra stessa potesse avere un gioco strutturato, con una fase di impostazione e costruzione da curare in ogni minimo dettaglio. Il Barcellona attuale, come dice giustamente Buffa, è sicuramente un metro di paragone da prendere con le pinze visti i giocatori unici che sono inseriti in quel sistema, ma è altrettanto vero che, appunto, il Milan è sempre stato costruito per imporre il proprio gioco su ogni campo, non per subirlo.
Cosa direbbero i tifosi vedendo una squadra rintanata nella propria metà campo contro un Bari ultimo in classifica, ad esempio, per cercare di togliere un paio di uomini alla loro fase difensiva creando così più spazio per Pato & company? Probabilmente non la prenderebbero benissimo.
E ancora: ma è davvero così semplice per il Milan giocare sul proprio campo cercando di far scoprire un Bari fanalino di coda? In questo il buon Buffa sembra quasi scordarsi il tatticismo esasperato che da sempre affligge il nostro calcio: da che mondo è mondo le piccole quando fanno visita ad una grande mettono in campo un catenaccio degno del miglior Rappan. Fare gioco attendista contro squadre di questo tipo non è quindi così automatico. Anzi.

Insomma, la sempre lucidissima analisi dell’ottimo Buffa ha avuto qualche falla, in questo. In linea di massima, comunque, mi sento di sottoscrivere anche molte delle cose dette, per quanto mi pare anche alquanto riduttivo, come sembra faccia lui, addossare un po’ tutte le colpe al povero Allegri. Per aprire un ciclo, del resto, c’è bisogno di tempo: va infatti costruita una rosa all’altezza, con giocatori di valore assoluto e soprattutto con una varietà tale da poter eventualmente adottare accorgimenti diversi a seconda della situazione.
Il buon Massimo, insomma, ha diverse attenuanti. In quel di Cagliari, poi, dimostrò di saper dare un volto alle proprie squadre e di essere in grado di impostare una fase offensiva capace di costruire gioco, senza limitarsi al solo attendismo. Esattamente come piace agli esigenti palati dei tifosi milanisti. Cui non resta quindi che dare ancora un po’ di tempo al tecnico di Livorno, che dovrà poi a sua volta essere bravo a sfruttarlo al meglio.

CITY: DOVE NON E’ IL MODULO A FARE LA DIFFERENZA

Nel corso di questa stagione ho avuto modo di seguire in più occasioni il City di Mancini. L’ultimo loro match che ho potuto vedere risale proprio a domenica quando i Citizens hanno fatto visita al Chelsea di Carlo Ancelotti per un derby della panchina tutto italiano vinto, piuttosto nettamente, dall’ex allenatore di Parma, Juventus e Milan.

La motivazione per la quale tra tante squadre ho scelto di seguire con discreta costanza proprio quella presieduta dallo sceicco Khaldoon Al Mubarak è semplice e facilmente intuibile: la curiosità suscitata in me da una compagine ricca di talento ma costruita un po’ a mo’ di raccolta delle figurine era tanta e la volontà di provare a capire quanto il tecnico jesino sarebbe stato in grado di amalgamare un undici all’altezza anche maggiore.

Dopo averne seguito in più occasioni le gesta, quindi, posso affermare con tranquillità e fermezza come questo City più che una squadra sembri davvero un’accozzaglia di talenti un po’ improvvisata e raffazzonata, senza un’identità di gioco ben precisa, trascinata più da giocate personali dei singoli che dal collettivo. In tutto ciò la via d’uscita non sembra essere rappresentata dal modulo tattico perché non tutto, nel calcio, è una questione di numeri. Si debbono infatti costruire degli equilibri che vanno al di là di questo. Non per nulla ad oggi il Mancio ha tentato diverse alternative, ma senza riuscire ancora a far quadrare il cerchio.

Principalmente il City si schiera con una sorta di 4-3-2-1 composto da una classica linea difensiva a quattro, un centrocampo folto e muscolare tendenzialmente schierato con tre mediani, due ali schierate all’altezza della trequarti ed una sola punta di ruolo. In altri casi, però, le ali vengono avanzate all’altezza dell’attaccante di modo da trasformare il tutto in un 4-3-3 più classico. Più raramente, poi, ecco la squadra schierarsi con un più lineare 4-4-2, come in occasione del match di FA Cup dello scorso febbraio con il Notts County, quando i Citizens si schierarono con la coppia Dzeko-Balotelli davanti ed un centrocampo in linea con Tourè e Vieira centrali e Kolarov-Silva esterni.

In tutto ciò, però, il City continua a non avere la giusta quadratura, né, soprattutto, una fluidità di manovra degna di una squadra che si rispetti, a maggior ragione quando così talentuosa. E non sarà un ennesimo cambio di modulo a sistemare le cose. In situazioni come queste pesa quindi molto il lavoro del mister, che in Inghilterra è poi un manager a tutto tondo. Perché alcuni dei punti negativi di questa squadra possiamo ritrovarli anche relativamente al lavoro svolto in sede di mercato: non sempre spendere tanto significa spendere bene, anzi. Ecco quindi come a gennaio sia stato acquistato, e per un bel po’ di soldi, Edin Dzeko dal Wolfsburg. A che pro, se poi la squadra viene schierata prevalentemente con Tevez unica punta? Prendiamo a campione proprio quest’ultimo mese di marzo: la punta bosniaca è partita titolare in due sole occasioni, di cui una, contro il Chelsea, in cui Tevez non era disponibile. Perché spendere trenta milioni di euro per un giocatore da relegare poi in panchina?

I problemi principali, a mio avviso, si riscontrano però proprio nel gioco di questa squadra. Al di là di moduli e singole scelte c’è bisogno, come detto, di costruire un’identità di gioco a questa squadra, che non può continuare ad essere tirata avanti dalle giocate dei suoi campioni. Vedere un Silva involversi in una situazione in cui non si sente né carne né pesce, una linea di mediani qualitativamente discreta ma in cui nessuno si prende la responsabilità di dettare i ritmi, giocatori come Milner e Wright Phillips non fare nulla più del proprio compitino o un gioco di sovrapposizione sulle fasce latitare dà bene l’idea dello stato delle cose.

L’unica possibile soluzione attuabile a questo punto sembrerebbe quindi essere un cambio di allenatore. Estromettere Mancini – a fine anno, beninteso – dalla guida della squadra per porre al suo posto un manager capace di dare un’impronta più chiara al proprio team. Del resto, senza voler essere eccessivamente duro nei confronti dell’ex tecnico interista, le sue squadre non hanno mai brillato in quanto a gioco. I risultati in passato sono sì arrivati, ma personalmente non ho mai apprezzato troppo il suo modo di gestire una squadra. Sostituire Mancini con un allenatore più capace di dare un’impronta alla propria squadra, come uno Spalletti o un Hiddink per dirne due, potrebbe quindi far effettuare un bel salto di qualità a questa compagine. Spendendo bene i propri soldi sul mercato, poi, ecco che si arriverebbe in breve ad una serissima contender per Premier e Champions League.

MILAN-BARI: SPUNTI DA STADIO

Milan-BariDomenica ho avuto l’onore ed il piacere di recarmi a San Siro, su invito della Gazzetta della Sport, in occasione dello scontro tra Milan e Bari, ovvero sia il più classico dei testa-coda. E proprio seguendo la partita dalle tribune anziché dalla televisione ho potuto fare caso a delle sfumature che vengono perse nel seguire i match da casa (va comunque altresì detto che ce ne sono altrettante che vengono invece perse nel guardare una partita allo stadio piuttosto che in tv). Ecco quindi qualche spunto interessante su cui mi è venuto da riflettere in merito a questo match.

Innanzitutto Van Bommel: giocatore ormai molto navigato, difatti, il centromediano metodista olandese mette tutta la sua esperienza al servizio della squadra. E se ciò è apprezzabile già seguendo il match comodamente spaparanzati in poltrona va detto che diventa ancor più palese dalle tribune. Splendido, in tal senso, vedere l’ex capitano del Bayern Monaco dare disposizioni ai compagni (quand’anche altrettanto esperti come Gattuso, giù fino agli esordienti come Merkel), sia in merito alle posizioni da tenere, che ai movimenti da eseguire che alla miglior gestione possibile del pallone. Intendiamoci: non sto certo dicendo di aver trovato il giocatore perfetto, ma ogni qual volta mi reco allo stadio ed ho l’opportunità di vedere dal vivo calciatori come lui resto sempre e comunque stregato dalla loro sagacia tattica. Così come un Messi nasce con la capacità di fare ciò che vuole palla al piede, del resto, ragazzi come Van Bommel nascono con un’intelligenza tattica superiore alla media. E quando la stessa si unisce ad un bagaglio esperitivo come il suo il gioco è fatto: ecco servito un ottimo direttore d’orchestra.

Dopo averne tessuto le lodi mi tocca però sottolinearne anche una gravissima mancanza. Per la più classica delle operazioni “un colpo al cerchio, uno alla botte”, quindi, ecco che non posso fare a meno di sottolineare il suo grave errore in occasione della rete barese. E qui va detta una cosa: lascia a bocca aperta vedere come Rudolf sia lasciato liberissimo di tagliare dall’out sinistro dell’area di rigore sino oltre al dischetto delle massime punizioni per poi colpire a rete incrociando il pallone in maniera imparabile per Abbiati. Il perché la punta ungherese possa compiere indisturbatamente tutto ciò è presto detto: il Milan marca a zona in situazione di calcio piazzato e nell’occasione specifica si viene a creare un buco laddove andrà ad infilarsi proprio l’ex Genoa che non venendo seguito da nessuno avrà gioco facile nel completare la sua manovra.
Difesa del Milan quantomeno rivedibile nell’occasione, quindi.

Ma perché le colpe maggiori le ha proprio uno dei giocatori tatticamente più intelligenti dell’undici di Allegri?
E’ presto detto: è proprio Van Bommel il giocatore ultimo cui Rudolf passa davanti nel suo tentativo di taglio. Ed è lui, quindi, che dovrebbe seguire l’avversario, impedendogli di entrare in possesso di palla sul tocco di Almiron o, quantomeno, di calciare agevolmente a rete. Il centrocampista Oranje, però, compie un peccato di sufficienza, nell’occasione e resta praticamente inchiodato al proprio posto, potendosi poi quindi solo limitare a seguire con lo sguardo il termine, nefasto, dell’azione. La sua reazione al goal mostra comunque chiaramente la sua grande intelligenza tattica: Mark capisce difatti subito di aver commesso un errore piuttosto grave, e si dispera. La frittata, però, è ormai fatta.

Interessante, tornando alla lettura tattica del gioco milanista, anche stare a guardare i movimenti dei tre d’attacco. Perché l’occhio della telecamera solitamente segue il pallone, facendo perdere tutto il resto. Ecco quindi che osservando il match dalle tribune si può notare subito come lo schieramento di base sia un classico 4-3-1-2 con Robinho alle spalle del duo Pato – Ibrahimovic ma anche che questo modulo non sia assolutamente rigido. I tre lì davanti, difatti, hanno tutti buona libertà di svariare, rendendo il gioco molto fluido da questo punto di vista. Ecco quindi che non deve stupire una situazione nella quale buttando l’occhio verso l’attacco rossonero, anche a palla piuttosto lontana, si possano trovare le due punte piuttosto larghe, con il presunto trequartista in posizione di prima punta. Scarsa rigidità nel mantenere una data posizione che comunque non sortisce grandissimi effetti: il Bari si difende infatti con dieci uomini (portiere compreso) praticamente sempre dietro la linea del pallone e la fluidità di movimento dei tre d’attacco non porta comunque il Milan a rendersi pericoloso con continuità, in special modo nel primo tempo.

Detto dell’attacco rossonero non posso quindi che chiudere parlando della fase difensiva barese (perché di quella offensiva mi verrebbe sinceramente difficile parlarne, non avendo, i pugliesi, prodotto praticamente nulla, nemmeno in contropiede), in particolar modo a quella del secondo tempo. Piuttosto incredibile, in tal senso, la disposizione tattica in fase di non possesso. Se sulla carta, ad esser buoni, potremmo dire che i Galletti si schieravano con un 4-5-1 di stampo prettamente difensivista ecco che la realtà dei fatti deve portarmi a parlare, più che altro, di un 6-3-1 quasi folle, che ha, a parer mio, consegnato il pareggio agli avversari. Fa un certo effetto, per altro, parlare di difesa a sei. Ma così è stato. Ogni qual volta i rossoneri superavano la metà campo, difatti, i quattro difensori in linea andavano a stringersi molto, portandosi tutti nello specchio dell’area e favorendo l’arretramento di due centrocampisti che allineandosi a loro andavano, appunto, a formare una difesa che folta è dir poco. A questo va poi aggiunto il fatto che nel contempo i tre giocatori rimasti a centrocampo si mettevano tutti a protezione della linea difensiva, andando a muoversi all’unisono verso destra o verso sinistra a seconda della zona in cui in quel momento stazionava la sfera.

Perché dico che quest’atteggiamento ha regalato il pareggio agli avversari?
Semplice. Non puoi regalare completamente un tempo di gioco. A maggior ragione quando ad un certo punto dello stesso ti ritrovi anche a giocare in superiorità numerica. Schierarsi con una difesa di questo tipo però vuol proprio dire quello: rinunciare a giocare e regalare completamente il pallino di gioco agli avversari, che a quel punto dovranno solo aspettare il momento buono per colpire. Momento che arriverà in tre diverse occasioni, perché poi, con tutto il rispetto, i difensori del Bari non sono nemmeno i fenomeni della situazione e prima o poi qualche buco te lo lasciano, quand’anche schierati a sei. Ecco quindi che dapprima Robinho è lasciato solo sul secondo palo e può colpire a rete su sponda aerea di Ibrahimovic, vedendosi però annullare il goal per fuorigioco millimetrico. Poi lo stesso svedese penetra centralmente su di un lancio stoppando, pare di braccio, per andare a bucare Gilet, anche questa volta inutilmente. Ed infine Antonini farsi lanciare da Emanuelson sull’out di sinistra riuscendo a penetrare la linea difensiva barese per crossare poi in mezzo all’area, dove Cassano sarà lasciato inspiegabilmente solo.

Difendersi ad oltranza è molto spesso controproducente. Farlo lasciando si creino queste falle è quasi deleterio.

IL FUTURO NERAZZURRO SI FA SEMPRE PIU’ ROSEO

Difesa ferrea, centrocampo eclettico, attacco devastante. La ricetta della vittoria nerazzurra al Torneo di Viareggio

InterAlla fine ce l’hanno fatta. Pea ed i suoi ragazzi hanno saputo regalare all’Inter la sesta imposizione viareggina della propria storia, al termine di un Torneo giocato su livelli realmente molto alti. Difesa ferrea, centrocampo eclettico, attacco devastante. Ecco la ricetta della vittoria nerazzurra.

E quando al termine di una competizione ti ritrovi ad avere in rosa il miglior giocatore nonché capocannoniere (per quanto a parimerito con Giuseppe De Luca, trascinatore del Varese dei miracoli di Devis Mangia) ed il miglior portiere della stessa qualcosa – e di piuttosto importante – significa. Al solito sui premi individuali si potrebbe stare a discutere molto. In questa occasione forse meno rispetto a quello riguardante gli estremi difensori, con Bardi che è stato assolutamente maiuscolo, trascinante e decisivo, più rispetto a quello riguardante il migliore giocatore in assoluto, laddove diversi sono stati i ragazzi sicuramente meritevoli.

Inter che torna quindi a vincere un Torneo di Viareggio e lo fa con grandissima autorità. Prendiamo quindi la formazione scesa in campo nella finalissima disputata contro l’ottima Fiorentina di Renato Buso ed analizziamola, per scoprire un pochino meglio i segreti del meccanismo costruito ed oliato da Fulvio Pea. Beneamata schieratasi quindi con il solito 4-3-3 in cui spiccava però subito una presenza per così dire anomala: il giovane Marco Davide Faraoni, terzino destro sino alla scorsa stagione stella delle giovanili laziali, è infatti schierato ibridamente come ala offensiva in fase di possesso e quarto di centrocampo, all’occorrenza, in fase di non possesso. E proprio questa sarà una delle chiavi di volta della partita.

Ma andiamo con ordine. In porta confermatissimo, al solito, uno dei giovani portieri italiani che stanno attualmente meglio cavalcando la cresta dell’onda, quel Francesco Bardi prelevato solo la scorsa estate dal Livorno (guarda a caso la società la cui casa è proprio lo stadio in cui si è disputata la finalissima di quest’ultima Coppa Carnevale) cui ho personalmente già visto parare, nelle poche volte che ho avuto il piacere di vederlo giocare, ben quattro rigori. Il primo risale ad ormai un anno e mezzo fa circa quando il nostro, impegnato con l’under 17 dei classe ’92 al Mondiale nigeriano di categoria, venne chiamato in causa da Pasquale Salerno per sostituire il titolarissimo Mattia Perin, indisponibile in vista della gara da disputarsi contro gli Stati Uniti. Sceso in campo apparentemente senza grandi patemi il giovane Bardi disputerà una partita molto autoritaria, andando a contribuire fattivamente al passaggio del turno Azzurro in particolar modo con il rigore neutralizzato al cospetto di Jack McInerney, stella della formazione a stelle e strisce (ed attualmente in forza ai Philadelphia Union, squadra affiliata all’MLS). Il secondo l’ha invece neutralizzato nel corso dei quarti di finale di questo Viareggio al cospetto di uno dei migliori rigoristi al mondo della sua leva, quel Diego Polenta che, guarda caso, il Mondiale under 17 di cui sopra lo disputò, e da capitano, con la maglia Celeste dell’Uruguay. Il terzo ed il quarto, infine, li ha parati nel corso della semifinale contro l’Atalanta, quando proprio grazie a questi due interventi ha trascinato i suoi in finale. Grandi qualità per questo ragazzo, che proprio nell’opporsi ai calci piazzati dagli undici metri sembra avere una marcia in più.

A difesa dell’ultimo baluardo Nerazzurro, quindi, una linea a quattro ben assortita e, soprattutto, molto compatta. Non deve stupire, infatti, il fatto che questa squadra abbia subito, nel corso dell’intero Torneo, una sola rete. Parliamo del resto di giocatori di qualità che essendo tatticamente molto ben preparati hanno saputo ergere una vera e propria linea Maginot a difesa del fortino. Perno del reparto è stato indubbiamente il figlio d’arte Simone Benedetti: acquistato in comproprietà nel corso dell’ultima estate dal Torino il centrale scuola Granata ha mostrato doti caratteriali, d’eleganza e d’efficacia in marcatura che ne fanno un prospetto realmente interessante, fors’anche in ottica prima squadra. Sempre sicuro in ogni intervento, grande senso dell’anticipo, Simone ha mostrato una tranquillità fuori dal comune ed un carisma notevole. Proprio grazie a questo è stato quindi in grado di guidare al meglio la quasi perfetta retroguardia Nerazzurra.

Molto bene, comunque, hanno fatto anche entrambi i terzini: Felice Natalino e Cristiano Biraghi. Sempre attentissimi in fase difensiva, infatti, non hanno disdegnato nemmeno ad accompagnare i propri compagni in fase di propulsione, mantenendo comunque sempre e costantemente l’attenzione altissima e indirizzata rispetto ai propri compiti difensivi. Proprio il loro apporto è stato quindi fondamentale alla realizzazione di una solidità difensiva quasi perfetta. A livello personale, poi, da sottolineare come alla solita grandissima classe, dovuta ad una tecnica fuori dal comune (quantomeno per un difensore), il lamentino Natalino ha saputo abbinare anche una concentrazione assoluta, aspetto in cui in passato ha più volte difettato. La via intrapresa, insomma, è quella giusta. Un plauso va poi riservato anche al suo alter ego, Biraghi, che è stato perfetto praticamente in ogni chiusura. A completare il reparto difensivo è stato quindi il ceko Marek Kysela, diciottenne centrale difensivo nativo di Rokycany che grazie ai miglioramenti compiuti da dopo il suo sbarco a Milano si è dimostrato essere lo scudiero perfetto per Benedetti.

Il centrocampo, poi, è stato schierato fondamentalmente a tre, con una configurazione che ricorda un po’, per tornare su di un tema toccato in precedenza, quello che approntò Salerno proprio in quei Mondiali giovanili nigeriani del 2009. Esattamente come allora, infatti, Pea sceglie di mettere un regista dai piedi buoni come centrale e due mezz’ali con caratteristiche ben precise. Vediamole. Il mediano davanti alla difesa con compiti di impostazioni è, guarda caso, lo stesso: Lorenzo Crisetig, diciassettenne talento ormai da anni tra i più stimati tra gli addetti ai lavori, considerato, per così dire, il nuovo Pirlo di questa ultima covata Azzurra. Tecnica sopraffina, intelligenza tattica inusuale in un ragazzo così giovane e capacità di dettare i tempi propria dei grandi registi. Davvero un po’ tutto ciò che serve a chi si disimpegna in questo ruolo per ben comportarsi, facendo girare attorno a sé tutta la propria squadra. Le due mezz’ali, invece, sono state Romanò e Jirasek, rispettivamente a destra e a sinistra.

Perché quel paragone con l’under 17 del 2009? Semplice: da una parte un Romanò che per certi versi mi ha ricordato molto il De Vitis di quella nazionale. Mezz’ala tuttofare capace davvero di coprire una porzione di campo enorme garantendo quantità ma anche discreta qualità. Ad un’ottima capacità in fase di possesso, laddove ha aiutato molto i compagni a mantenere il giusto equilibrio di squadra (del resto per subire una sola rete deve esserci una fase difensiva globale impostata al meglio, il merito non può certo essere esclusivamente della retroguardia), ha difatti abbinato una buona continuità in fase propositiva e conclusiva. In più di un’occasione è stato lesto nel farsi trovare a ridosso dell’area di rigore, pronto a dare un’opzione in più al portatore di palla quanto a rifinire per un compagno (come nel caso della prima rete segnata da Dell’Agnello nella finale con la Fiorentina). Sulla sinistra, invece, ha agito Jirasek che ha ricordato un po’, tatticamente, il gioco di quel Fossati grande protagonista con la maglia dell’under 17 Azzurra due anni or sono. La qualità globale dell’ex Sparta Praga non è certo paragonabile a quella della stellina attualmente in forza alla Primavera Rossonera, ma nei movimenti in campo il buon Milan mi ha ricordato proprio il lavoro svolto da Marco Ezio allora.

Davanti, poi, un tridente atipico. Sulla destra, come detto, ha difatti giocato, sempre limitandoci alla finalissima, Marco Davide Faraoni, di professione terzino. Dotato di una buona propulsione offensiva, però, è stato sfruttato da Pea, come precedentemente già successo anche in precedenza, proprio da ala d’attacco. Ed è stata questa una delle chiavi di volta del match: il suo apporto in fase di non possesso è stato infatti superiore a quello che sarebbe potuto derivare dall’utilizzo, ad esempio, di un giocatore come Thiam. In alcuni casi, addirittura, il centrocampo interista si è potuto schierare a quattro, proprio con l’arretramento dell’ex Lazio sulla linea dei centrocampisti e con lo slittamento sulla fascia opposta di Jirasek. Schema camaleontico, potremmo dire, in quanto poi in fase di possesso il buon Marco ha fatto realmente l’ala, producendo per altro anche diversi spunti interessanti con i quali ha confermato le proprie capacità propulsive.

Tridente, quello Nerazzurro, completato da capitan Alibec e bomber Dell’Agnello. Il primo ha agito largo sulla sinistra, mettendo in mostra un atletismo importante ed una tecnica più che discreta. Per buona parte del primo tempo proprio l’abbinamento di queste due importanti caratteristiche l’hanno portato ad essere una vera e propria spina nel fianco della difesa Viola e non è un caso se proprio dalla sua parte è nata l’azione dell’1 a 0. Il secondo, invece, ha stazionato, al solito, al centro dell’attacco, come unico vero e proprio punto di riferimento della propria squadra. Centravanti forte fisicamente, Dell’Agnello, ma dalle caratteristiche tutto sommato atipiche. In diverse occasioni lo si è potuto infatti notare svariare lungo un po’ tutto il fronte dell’attacco, per tenere quanto più possibile impegnata la retroguardia avversaria. In molte movenze, poi, ricorda quel Marco Borriello che, per altro, par essere il giocatore cui si ispira. Non un vero e proprio centravanti boa, insomma. Ma comunque punta che, e lo ha dimostrato ampiamente, sa rendersi molto pericolosa in fase realizzativa.

Davvero una bella squadra, in definitiva, quest’Inter di Pea. E chissà che in un prossimo futuro qualcuno di questi ragazzi non possa tornare utile anche per la prima squadra…